di Luca Baiada (da Il Ponte, LXVIII n. 4, aprile 2012)

Caravaggio.jpg[Si ringrazia la rivista Il Ponte per la gentile concessione.]

La disturbo con qualche domanda.
S’immagini, si metta comodo.
La scomodità è sua, certo.
Una fissità facilmente fraintesa.
Vengo al dunque. M’interessa una sua dichiarazione controversa.
Avrà l’imbarazzo della scelta.
Ecco, le scelte imbarazzanti appunto. Si tratta del tributo a Cesare.
Ah, una trovata imposta dalle circostanze. Economia, politica, religione. Perché proprio quella?
Semplice: la questione del denaro. Circolazione monetaria, prelievo, finanza. E un debito planetario enorme, incalcolabile. C’è chi dice che l’unica soluzione sia non pagare. Temi importanti, oggi nella globalizzazione.
Via, vorrà dire una delle globalizzazioni. Ne vissi una anch’io, si era appena formato un impero, eravamo stretti fra ubbidienza, ribellione, compromesso. Fatti che si ripetono.

E ogni volta c’è la questione del denaro. Chissà perché.
Ma perché il denaro è molte cose insieme. Confine e passaporto, buco e toppa, porta e chiave. È dare e prendere, è cosa e simbolo. È pietra da scagliare e da raccogliere. E la pietra scartata dai costruttori diventa testata d’angolo.
Come le voci più appartate dei bilanci diventano basi matematiche per costruire imperi finanziari?
Il denaro è padre e figlio.
Non osavo chiederlo. Salva e abbandona.
Lei non sarà mica…
Un intellettuale?
Scribi e farisei. Bisognava cercarli e respingerli, sedurli e tradirli.
Peggio dei giornalisti, peggio degli editori.
Problemi di comunicazione, eh?
Può ben dirlo. Il pubblico…
Vuole sensazioni forti. Bisogna scrivere di sesso, soldi, religione. Provi con un libro tipo L’omosessualità degli apostoli all’origine dell’accumulazione capitalista. Sentirà che chiasso, specialmente se ci mette le figure. Anzi, ci faccia un fumetto.
Potrebbe essere una buona idea, per farsi lapidare.
Se sopravvive, prosegua con Il matrimonio gay come misura postmoderna contro la manomorta ecclesiastica. Dopo ogni successo editoriale, conviene insistere.
Sta suggerendo un’idea per redistribuire le ricchezze del clero?
Buffa rivoluzione, quella in cui i giacobini fossero in maschera da cinedi.
Ma scusi, l’ho interrotta, stava dicendo di scribi e farisei.
Alle cene non venivano, forse volevano evitare il conto. Però mi spiavano, e mi chiamavano mangione e beone. Ma erano più generosi i donatori occasionali, gli indesiderati, le malmaritate, gli esattori, le donnine di remota gioventù, i collaborazionisti con l’impero occupante, i trafficanti, i dissipatori. I relitti che il fiume della vita impaluda ai margini, non vedono l’ora di donare.
Ancora questione di quattrini. E proprio parlando di soldi, erodiani e farisei posero la domanda trabocchetto. Pagare o no?
Domanda furba, davvero.
Un po’ se la meritava. Lei ripeteva «il regno dei cieli…», la misero alle strette su cose di sudditi in terra. Chiunque faccia politica deve aspettarsi uno sgambetto in pubblico.
Non potevo evitare la questione. E poi, con quel Barabba in giro, mezzo ribelle e mezzo brigante, il confronto sulla ricchezza era immediato. Lui non solo non dava a Cesare, lui derubava Cesare e tutti gli altri. Di tipi così me ne hanno messi altri due, qui accanto, ma li guardi.
Già, però uno si è pentito.
Dissociato, piuttosto. Adesso uno mi deride e l’altro mi sorride, uno mi sfugge e l’altro mi segue, ma nessuno dei due si muove di un passo. Tutti e due a braccia aperte, uno rimpiange malloppi terreni, l’altro piange sperando nei bottini celesti.
Beh, non possono farle domande moleste, sono solo due ladroni. Perché era molesta, vero?
Stimolante, invece. Mi piacque.
Provo a ricapitolare. Vengono da lei e cominciano coi complimenti: maestro qui e maestro lì, tu sì che dici bene, eccetera. E poi, zac! La domanda tranello: maestro, lo paghiamo o no il tributo a Cesare? E lei tira fuori una moneta.
Fermo! Eh no. Io no, non tiro fuori niente.
Lo sapevo, pure io le ho teso un piccolo tranello.
Birichino. Intellettuale scriba e fariseo. Dunque lei sa che chiesi a loro, di mostrarmi una moneta. Ricco non ero, ma una moneta l’avevo anch’io. Volevo che fosse uno di loro, a mostrarla. Avevamo tutti il biglietto d’ingresso nell’impero, la tessera della globalizzazione, e a me facevano i tranelli. Volevano essere senza Cesare, e se lo portavano nella saccoccia. Il volto di un uomo riprodotto all’infinito su un dischetto di metallo.
Più insistente di una pubblicità.
Capovolgevano i fatti. Il lontano, l’unico, il grande Cesare di carne, facile da disprezzare. Il vicino, il molteplice, il piccolo Cesare di metallo, difficile farne a meno. Il Cesare lontano era intoccabile, e quello vicino se lo passavano di mano in mano, in ghiotti traffici, in continui commerci, gli Ebrei e i Greci, i Galli e i Siri, gli Illirici e gli Iberici. Che fosse uno di loro, a mostrare da sé la sua vera cittadinanza!
Sa che titolo aveva appena preso, Cesare?
Ne aveva parecchi.
Sì, ma proprio allora ne aveva preso uno nuovo: pontefice.
Proprio come quel tedesco vestito di bianco, con quella vocina, che adesso dice di parlare a nome mio?
Quello lì.
Quello ricco sfondato?
Quello.
Allora senza accorgermene avrei detto…
Quel che è di Cesare al pontefice, e invece quel che è di Dio pure. O almeno, così vogliono farlo intendere.
A saperlo. Ma Cesare o pontefice, la moneta circolava. E non volevano sbarazzarsene. Ma né con Pilato né con Barabba, alla gente restava quel piccolo Cesare in saccoccia. Per averlo, Pilato li frustava, e Barabba li sgozzava. Questione di dettagli. Gli imperi e i briganti hanno appetiti molto simili.
A proposito. Dopo quella frase, mi dica che fu della moneta, quella che lei si era fatto mostrare.
La resi subito al furbetto erodiano.
Quello l’avrà usata per pagare il tributo.
No, pare che l’abbia data al tempio.
Non mi dica che…
I trenta denari? Quello era un mezzo di pagamento diverso, ma c’era chi faceva il cambio. Gente che portava addosso i segni dei miei piedi.
Sicché quel discepolo, quello del bacio, forse fu pagato dal sinedrio anche col cambio di quella moneta lì, quella del date a Cesare…?
E chi può dirlo, le monete circolano.
Insomma, date a Giuda quel che è di Cesare.
Questa non sarebbe una novità.
E al pontefice quel che è di Giuda.
Neanche questa.
Come, conosce qualcosa di simile?
Sì, quella penisola nel Mediterraneo dove la mafia ruba i soldi dello Stato e li consegna alla finanza del tempio cattolico.
E se in realtà fosse la finanza del tempio cattolico, a volere i soldi dello Stato?
Allora Giuda sarebbe il vicario del pontefice.
Lo sa che Breton e Éluard hanno scritto: «Togliete a Cesare / quel che non è di Cesare»?
I francesi sono un popolo vivace. E non sopporterebbero su un colle della capitale una monarchia con più oro che abitanti. Specialmente se il re fosse un tedesco.
Un attimo fa, lei mi parlava di calci ai cambiavalute, mi racconti.
Si erano sistemati bene, al tempio, approfittavano dei pellegrini. Li presi a pedate, li chiamai spelonca di ladri.
Bel colpo.
Sbagliai, invece. Le frodi si combattono con l’astuzia. Accorte modifiche all’interpretazione delle scritture, come proponeva qualche fariseo in gamba: bastava ridurre gli obblighi di culto, moderare i sacrifici, per esempio. Legge della domanda e dell’offerta, i prezzi del culto sarebbero scesi. Di riflesso, si agiva sul corso dei cambi. Ma la fretta è cattiva consigliera.
Eppure lei era attento, a queste cose. Parlava di investimenti e di salari, di vigne e di sementi. E si preoccupava dei ladri, come della ruggine e delle tignole.
Sa, sono cresciuto in un villaggio: poveri che risparmiano, per farsi derubare da poveri che sperperano. Ma avevo preso con me quel gabelliere, Matteo. Tipo sveglio, finanziere cresciuto tra denari fatti alla svelta. A Cafarnao succedeva di tutto.
Me lo immagino, una Tijuana sul lago di Tiberiade. Anche se non girava cocaina.
Ma vino e donnine sì.
Matteo è l’unico che ha scritto una parolaccia, nel Vangelo: «Pubblicani e puttane vi precedono nel regno di Dio».
Un caso di conflitto d’interessi. Il gabelliere pensava al suo ambiente, e si prenotava un posto comodo in cielo, come un sottosegretario quando cambia il clima politico.
Da secoli danno di puttana a Maddalena, mentre nei Vangeli non c’è scritto.
Donna malcontenta, vita convulsa. Si sentiva sola, con risparmi ma senza eredi. Donne così, o viaggiano o si cercano una causa. O tutte e due le cose: missionarie, cooperanti internazionali, militanti fai da te, volontarie delle organizzazioni non governative.
La moglie di Pilato però era sposata. Ma in sogno, pensava a lei.
Una donna ha molti modi, per essere sola. Per esempio essere sposata a un burocrate col tic di lavarsi le mani.
Anche Giovanna era sposata.
Col sovrintendente di Erode. Le pie donne hanno spiriti nell’anima e voglia di spendere nella pelle. E non bisogna fare troppe domande sulla provenienza dei soldi, specie se sono mogli di uomini di potere.
Mi dica di quell’altra, quella della cena di Betania.
Devota come una cagna. Mi lavava col profumo più caro, costava trecento denari.
E Giuda si lamentava. Poi si è accontentato di un decimo. Non è un po’ poco? Un profumo costa dieci volte più di una delazione?
Sono calcoli complicati. Comunque, i prezzi nelle periferie degli imperi sono atroci. Il povero ama il lusso più che se fosse ricco, e soprattutto più di se stesso. Il prezzo è dunque l’arma con cui il ricco svaluta il povero. E poi, cosa c’è di meglio del profumo?
Fra i piaceri preferiti dal profeta Maometto, pare.
Un utile dilettevole, all’altezza di un commesso viaggiatore. Costretto dal mestiere a convivere con lo sterco dei cammelli e le ascelle dei carrettieri, ne fa un affare. Prima porta l’aria cattiva, poi vende quella buona.
Il prezzo del piacere dipende dal dolore?
I piaceri effimeri sono i più deliziosi. Molto più impegnativi di un tradimento, molto più impressionanti di un patibolo. Piaceri sempre nuovi muovono la storia: guerre del pepe, del tabacco, delle spezie, dell’oppio, della cocaina, delle droghe sintetiche. Ovunque si parlerà di storia, si parlerà della donna di Betania. In ogni giardinetto dello spaccio, senza saperlo si invoca lei. Ogni commessa, ogni sciampista sa ciò che sfugge ai più dotti economisti, perché dona senza guardare al prezzo, e va dritta alle più inebrianti soddisfazioni.
Secondo lei godimento e dolore sono cifre sociali? E come ne risente la modernità?
Piacere e tradimento. La narcocrazia dosa insieme un piacere trasformato in colpa, e un castigo trasformato in affare. Tutte le religioni ambiscono a un’architettura così, nessuna ci riesce bene come la narcocrazia proibizionista. E il suo modello più fulgido, è nella penisola nel Mediterraneo che protegge la sede del capo dei cattolici: al centro un regno tutto anime e niente corpi, e intorno una repubblica cuscinetto, tutta corpi senza anime, distratta da un fiume di droghe, e protetta da una coalizione internazionale capeggiata dall’anglosfera.
Però resta il fatto che alla cena di Betania Giuda era geloso, eh? La gelosia va a braccetto con l’avidità.
Ma no, lasci stare le apparenze. È che non è possibile impiegare i risparmi senza che qualcuno trovi da criticare.

(CONTINUA)