di Franco Pezzini

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DiecipiccoliindianiIMAGE.jpgSo cosa hai fatto

Dieci piccoli indiani non è solo una delle opere più brillanti di Agatha Christie, un perfetto meccanismo narrativo e insieme un testo di notevolissima eleganza letteraria, ma forse il più venduto mystery al mondo. E tra i romanzi più popolari di tutti i tempi, con infinite trasposizioni e ricadute (teatrali, radiofoniche e televisive, cinematografiche, più videogiochi eccetera) e di straordinario impatto sull’immaginario. Ma soprattutto, ai fini della nostra indagine, rappresenta l’evoluzione necessaria e virtualmente definitiva del mito del Giudice Impicca-impicca: il che non significa ovviamente ultima — quello degli orrori legati alla giustizia (chiamiamola così) è un tema che del resto non può tramontare — ma capace di compenetrare in modo miticamente compiuto gli elementi sovrannaturalistici e quelli dell’apologo tutto umano. A ben vedere il romanzo, attraverso la risacca degli elementi simbolici e le sue stesse improbabilità, può essere infatti letto come del tutto fantastico, e anzi riconducibile proprio al linguaggio del mito. Se altri autori del poliziesco — come il già citato John Dickson Carr — avevano tentato anche brillantemente di iniettare lo spunto gotico (il giudice spettrale e la misteriosa esecuzione delle sue vittime) in un contesto razionale (un’indagine con colpevoli da individuare), Agatha Christie riesce a comporre un testo che in apparenza parla il linguaggio della ragione, ma muovendo dietro le quinte un più sottile gioco d’ombre — come le silhouettes degli “indiani” o “negretti” della filastrocca fatale — che permette altre letture. Per l’indagine che segue raccolgo alcuni spunti di un contributo che apparirà negli Atti in corso di stampa del Primo Convegno di Studi sul Folklore e il Fantastico Dark Tales — Fiabe di paura e racconti del terrore (Genova, Castello D’Albertis, 21-22 novembre 2009, nell’ambito della IV Edizione di Autunnonero — Festival internazionale di folklore e cultura horror) al quale rinvio per un’analisi più ampia.


La storia di Dieci piccoli indiani è nota. Dieci personaggi vengono convocati su un’isola da un enigmatico Mr. U.N. Owen e accusati da una voce registrata di una serie di gravi crimini che però la legge non può perseguire. Mr. Owen ha deciso dunque di fare giustizia in proprio, e gli ospiti — compresi i due domestici — vengono assassinati uno dopo l’altro: anzi le rispettive morti corrispondono per modalità a quelle dei dieci “indiani” (o “negretti”, o “soldatini”, come vedremo) della poesiola inquadrata nelle camere. L’ultima ospite rimasta, l’ex-educatrice Vera Claythorne, è trascinata a una sorta di ipnotica deriva mentale e indotta a impiccarsi: e solo dopo qualche tempo gli inquirenti apprenderanno la verità da una confessione dell’assassino ritrovata in mare entro una bottiglia. Mr. Owen è in realtà un altro degli ospiti, il giudice Wargrave, che il messaggio registrato aveva accusato di aver fatto giustiziare un innocente: ma nel suo caso l’accusa era falsa, preordinata a non creare sospetti contro di lui. Gravemente malato, il giudice aveva deciso di lasciar libero sfogo al proprio senso di giustizia — con quanto di sociopatia e sadismo ciò sottointenda — per punire in modo esemplare un gruppo di rei non altrimenti raggiungibili dalle leggi umane. E anzi, grazie all’ottusa complicità di un altro ospite, il medico Armstrong, ha finto di morire per portare a termine la mattanza.
Il romanzo irrompe nel panorama del mystery con una serie di spiazzanti novità. A partire dal bagno di sangue che presenta, si consuma fino in fondo senza che nessuno riesca a fermarlo, e resterebbe inesplicabile se alla fine non arrivasse il memoriale dell’assassino: una sorta di comunicazione medianica, visto che proviene da un morto (analizzeremo più avanti le implicazioni del concetto), resa concreta e allo stesso tempo sfuggente attraverso un messaggio in una bottiglia. L’Autrice può ammiccare in questo caso a Poe, ma in realtà nella filigrana dell’opera si intravede una serie di rimandi ben più ampia — iniziando da quelli relativi alla letteratura poliziesca in senso stretto. L’assenza dalla scena della figura salvifica e riordinatrice del detective, ha osservato la critica, lascia emergere con più potenza le linee di fondo simboliche, il teatro di Vita e Morte, Bene e Male, falsità/colpevolezza degli invitati e giustizia criminale dell’assassino. Ma potremmo dire che, al di là dei personaggi-vittime, a cadere sotto i colpi di Mr. Owen sia l’ottimismo positivistico della detection. Intendiamoci, casi impossibili e poliziotti spaesati erano già apparsi qui e là nella letteratura di genere, si pensi a certi racconti di Conan Doyle sul filo tra mystery e fantastico orrifico: ma la genialità di Dieci piccoli indiani e, nei fatti, il suo strabordante successo lo rendono uno snodo ineludibile per la ridefinizione novecentesca del genere. E un certo beffardo pessimismo che arriva fino a Twin Peaks — dove la figura del detective è salvifica e riordinatrice, e tuttavia finisce col perdersi nel labirinto di colpe e spettri dell’ennesima isola — trova qui un ideale precedente.
Il romanzo viene pubblicato in Inghilterra per la prima volta nel 1939, in ventitrè parti e senza divisione di capitoli sul ‘Daily express’ (6 giugno-1 luglio); e un’edizione americana quasi contemporanea appare in sette parti sul ‘Saturday evening post’ (20 maggio-1 luglio). Si noti che il titolo inglese, sia della prima pubblicazione a puntate che di quella successiva in volume (6 novembre 1939, per i tipi Collins Crime Club, Londra), suona Ten little niggers: l’isola in cui la storia è ambientata si chiama Nigger Island, e la poesiola inquadrata nelle stanze riguarda “Dieci poveri negretti”, come traduce Augusto Raggio per la versione teatrale italiana del ’47. Ma in America, dove il termine nigger ha un’accezione spregiativa, l’edizione a puntate e poi quella in volume nel gennaio ’40 (per Dodd, Mead and Company, New York) reintitolano l’opera And then there were none e parlano nella poesia di Ten little indians. Che in seguito, 1946, diviene a sua volta titolo del romanzo come lo è stato della versione teatrale a Broadway. In Italia, dove il mystery è pubblicato per la prima volta sempre nel ’46 come …E poi non rimase nessuno, si parlerà in seguito più frequentemente di Dieci piccoli indiani, e a quest’uso per comodità mi adeguo. Le edizioni inglesi continueranno invece fino agli anni Ottanta a usare il titolo originale Ten little niggers, ma oggi quello più utilizzato nei paesi anglosassoni è And then there were none: dove all’insegna del politicamente corretto la poesia si intitola Ten little soldiers e l’isola viene chiamata Soldier Island.
Non di rado le filastrocche, corteggiando l’assurdo, svelano immagini disturbanti o crudeli: e in effetti il clima straniante della vicenda trova già un primo annuncio nella macabra poesiola che scandisce i delitti — che in realtà costituisce l’adattamento di una canzone popolare americana, appunto Ten little niggers, frutto a sua volta di varie trasformazioni. Tutto sembra partire con un’altra canzone sempre americana forse di metà Ottocento, John Brown’s ten little injuns: il testo, molto semplice, vedeva il numero dei “piccoli Indiani” di questo tale John Brown (da intendersi plausibilmente come nome generico) prima crescere progressivamente da uno a dieci e poi di nuovo diminuire fino a uno, ma senza particolari spiegazioni in merito. Su tale base il famoso songwriter americano Septimus Winner scrive una canzone più articolata e un po’ macabra per strofe più coro: si tratta di Ten little injuns, pubblicato inizialmente nel 1864, dove John Brown non c’è, e protagonisti assoluti sono i “piccoli Indiani”. Questi progressivamente diminuiscono di numero, falcidiati da incidenti e imprudenze; finchè l’ultimo “got married and then there were none”. Rispetto a Ten little injuns, non è chiaro se Ten little niggers costituisca uno sviluppo parallelo o piuttosto derivato, come forse più probabile: e per questa svolta si indica talora un autore — l’inglese Frank J. Green, oppure il quasi omonimo Frank W. Green — e un anno, 1868. In ogni caso Ten little niggers avrà successo negli USA sia come canzone “comica” dei minstrel shows per adulti (che dopo la Guerra di Secessione mostravano caricature di black people assai meno candide che in precedenza), sia come nursery rhyme di libri per l’infanzia, loscamente “educative” nel mostrare piccoli neri dall’aria sempre uguale e stolida davanti alle più assurde morti. A dirla con la traduzione di Raggio, “Dieci poveri negretti / se ne andarono a mangiar: / uno fece indigestione, / solo nove ne restar”; e via via calano di numero, finché “Solo, il povero negretto / in un bosco se ne andò: / ad un pino s’impiccò, / e nessuno ne restò”. La versione Green riporta: “One little nigger boy living all alone / He went and hanged himself and then there were none” (ma una variante è riportata nel romanzo: “One little nigger boy left all alone / He went out and hanged himself and then there were none”). Dove il suicidio dell’ultimo little nigger boy con le stesse modalità dei linciaggi del Sud induce il pubblico all’idea che i neri accettino naturalmente il punto di vista bianco su vita e morte “tipici” della gente di colore; qualcosa che del resto entra in un più ampio tessuto di stereotipi aggressivamente manipolatori per la stessa autocoscienza dei neri. Rinvio al bell’articolo di Tiffany M.B. Anderson, “Ten Little Niggers”: The Making of a Black Man’s Consciousness, che sottolinea come proprio la libertà dei piccoli neri della canzoncina, evidentemente incapaci di gestirsi da soli, finisce con l’essere causa delle loro morti: e l’accezione insultante assunta dal termine nigger dopo la “liberazione” della Guerra civile sembra trovare qui una delle prime attestazioni. In ogni caso è la versione Green che inizia a circolare nel Vecchio Mondo: dove veicola tutt’altre fantasie, visto che “indiani” e “neri” da un punto di vista britannico evocano piuttosto echi coloniali da Oriente e Africa. E se la poesiola, ha notato qualcuno, insegna a contare ai bambini dell’Impero vedendo sparire i piccoli neri, è interessante notare che almeno un personaggio del testo si sporca direttamente le mani in Africa. Anzi una delle figure più importanti, visto che nel romanzo muore tra gli ultimi, ma nelle versioni teatrali e cinematografiche diventa “buono” (nel senso che non è lui, ha usato solo il suo nome) e si salva: nei fatti l’esploratore e avventuriero Philip Lombard che ha lasciato morire di fame ventuno indigeni di una tribù africana è quasi l’incarnazione di questo rapporto perturbante con la vocazione coloniale.
Ma proprio quel testo inquadrato sui muri delle stanze parla il linguaggio della condanna: e come spesso nella narrativa di genere e in particolare in quella anglosassone, la base simbolica va cercata nella Bibbia. Il topos di un messaggio misterioso sul muro (come la parola rache, ‘vendetta’, scritta col sangue sulla scena del delitto nel primo caso holmesiano, A study in scarlet, 1887) o appeso al muro (come in questo caso) rimanda infatti direttamente a una fonte veterotestamentaria, il Libro di Daniele, e a un’idea di giudizio sovrannaturale. Il riferimento è a quel celebre mene, tekel, peres che una mano ultraterrena traccia sulla parete durante il convito del re Baldassàr, e che appunto il profeta Daniele interpreta quale minaccioso giudizio di Dio sul sovrano, destinato in breve tempo a recare conseguenze storiche. Come riporta il testo, che gioca simbolicamente su tre unità di peso dell’epoca, “e questo è lo scritto tracciato: mene, tekel, peres, e questa ne è l’interpretazione: mene: Dio ha contato il tuo regno e gli ha posto fine; tekel: tu sei stato pesato sulle bilance e sei stato trovato insufficiente; peres: il tuo regno è stato diviso e dato ai Medi e ai Persiani” (Dn 5, 25-28, Nuova versione CEI). Un richiamo illuminante per la situazione di giudizio presentata da Agatha Christie e per gli stessi echi di sovrannaturalità ereditati dalla tradizione degli hanging judges gotici.
In una prima accezione, il giudizio implica in quell’insufficienza il tema della prova non superata. Una storia che evoca l’arrivo a un’isola con pericoli mortali, una diabolica astuzia, il ricorso a uno pseudonimo dal suono evocativo (U.N. Owen / UNknOWN) e una strage finale non può che richiamare l’Odissea: e come nel poema omerico tutta la vicenda di Dieci piccoli indiani parla di prove da superare e richiama il tema del passaggio. Sia nel senso del passaggio ultimo, la morte, cui i personaggi sono destinati; sia in un’accezione più comune e quotidiana, relativa alle prove di cui è costellata tutta l’esistenza umana. In un’altra celebre storia iniziatica di navigazione, il ciclo degli Argonauti, le prove vengono anzi superate grazie alle singole “professionalità” di un gruppo di eroi: ma anche in Dieci piccoli indiani abbiamo una pluralità di eroi (o meglio anti-eroi) con caratteristiche e abilità diverse, e il cui ruolo si manifesta in relazione a singole prove. A partire ovviamente da quella prova esistenziale, nel segno della responsabilità, che in passato ciascuno ha mancato nel proprio terreno specifico, tradendo persone affidate o causando morti per superficialità, grettezza o interesse. Ma arrivati sull’isola, questi anti-eroi si trovano innanzi un contrappasso di altrettante prove da superare: anzitutto nel senso materiale, visto che nonostante la canzoncina informi di cosa accadrà, le vittime non riescono a prevenire le mosse dell’assassino; ma a un piano più profondo e interiore in riferimento alle occasioni di un sussulto di coscienza, di un pentimento almeno tardivo che un po’ tutti gli ospiti sprecano. Tutti cercano giustificazioni, rimuovono gli atti commessi; o al massimo, come il generale, accettano con dignitoso fatalismo le conseguenze della propria colpa, in una deriva senescente e passiva. Tutti insomma, già condannati dall’assassino, falliscono la prova definitiva davanti al tribunale dei lettori; e a quel punto la morte fisica non costituisce che una sorta di ratifica della morte interiore. Più equivoca, certo, è la situazione del giudice: come Odisseo che gioca a essere Oudeis, ‘Nessuno’, anche Wargrave che gioca a essere Owen/Unknown, ‘Sconosciuto’, riesce nella prova, compie un massacro degno di quello dei Proci a Itaca, proclama il proprio vero nome — come l’Eroe in fuga che rivela al Ciclope l’identità di ‘Nessuno’ — e sceglie la propria sorte, decidendo come morire. Ma a ben vedere, dai cenni che l’Autrice dispensa via via, anche il giudice è un personaggio sostanzialmente meschino: se dunque in apparenza vince, in realtà ratifica la propria sconfitta esistenziale. Dove la riflessione non è tanto di carattere morale o moralistico, quanto piuttosto mitico e simbolico: perché nel caso di Wargrave, nonostante ciò che lui stesso creda, egli è solo uno strumento — una maschera — della Morte che infine trionfa.
In effetti un secondo filone d’implicazioni sottotesto riguarda proprio la Morte, visto che la canzoncina affissa può essere letta come ritmo di una Danza macabra. In riferimento appunto al celebre tema tardomedioevale della Morte che guida un ballo in cui si tengono per mano i rappresentanti della più varia umanità — cioè essenzialmente i più emblematici di una specifica società. È ciò che mostra Agatha Christie, affidando all’identità di Mr. Owen la maschera della Morte e coinvolgendo nel fatale rondò persone con vita, professione e carattere molto diversi: un amabile sguardo al vetriolo sulle lordure nascoste nell’Inghilterra che si affaccia alla guerra. Una danza insensibile alle disparità sociali, e che si manifesta con il mattatoio — vero e proprio Trionfo della Morte — degli ospiti progressivamente falciati. Del resto come il motivo della Danza macabra rimanda alle illustrazioni che accompagnavano testi sulla caducità delle cose e i peccati di una società, anche le singole punizioni dei personaggi di Dieci piccoli indiani appaiono come illustrazioni drammatizzate di colpe esemplari, paradigmatiche. Non sono sette, dunque il catalogo alla base non è quello classico dei vizi capitali; e nonostante il numero delle vittime corrisponda, non sembra vi sia attinenza con le infrazioni ai Dieci Comandamenti. Molto più calzante pare un altro catalogo, quello del Discorso della Montagna del Vangelo di Matteo (5, 1-12): Dieci piccoli indiani presenta cioè attraverso i suoi personaggi e i rispettivi crimini scenette di negazione/trasgressione ad altrettanti caratteristiche e valori delle Beatitudini matteane, riecheggiati in termini di negativo fotografico o di contraffazione blasfema. E alla beatitudine dei perseguitati per causa del Vangelo oggetto di accuse false, un’adeguata corrispondenza in negativo sta proprio nella situazione del giudice Wargrave: presentato da “Owen” come responsabile della condanna a morte di un innocente, ma con accusa falsa (nel senso che il condannato in questione era colpevole) appunto per non far sorgere sospetti contro di lui.
Peculiare è d’altronde l’atmosfera sospesa del romanzo, che vede ciascun personaggio rivelare se stesso e le proprie colpe in termini confusi e a sprazzi, e oltretutto sparigliando le confessioni sui diversi piani dei compagni di sventura e del lettore. Che non è onniscente, ma gli è concessa una sorta di rivelazione medianica sulla vita interiore dei personaggi: qualcosa che richiama in fondo il carattere torbido e frantumato (grumi di coscienza, colpe rimosse, equivoche autoassoluzioni) delle voci dei tavolini a tre gambe, a rammentare non solo gli interessi spiritistici e occultistici dell’Autrice, ma quella connection tra giudizio e spettri radicata nella stessa tradizione degli hanging judges. Proprio il richiamo alla Danza macabra e più in generale alla Morte impone anzi di soffermarsi sulle caratteristiche dell’isola in cui la storia si svolge — che per inciso ha un modello reale, ispirandosi a Burgh Island lungo la costa del Devon. Eppure Nigger Island (o Indian Island o Soldier Island, a seconda delle versioni) rappresenta qualcosa di più della trasfigurazione di comodo di un sito geografico. Dalla costa pare remota e aspra, ma arrivandoci rivela una faccia nascosta: un luogo insomma che spiazza le attese. Tanto più che vi conduce un singolo traghettatore, Narracott: ed è logico che non torni per riportare indietro gli ospiti, perché se anagrammiamo il suo nome troviamo quasi esattamente quello di Caronte. Se poi consideriamo la dignità in qualche modo sciamanica di cui il giallo “classico” riveste il detective, comprendiamo perché un altro ospite sull’isola, l’ottuso detective Blore, ogni tanto esprima osservazioni stranamente profonde, anche se poi non ne comprende le implicazioni: ed è lui l’unico che dall’inizio della storia conosce l’isola (lo sciamano, appunto), che da bambino scorgeva in lontananza dalla costa senza pensare che un giorno vi sarebbe giunto. D’altra parte il personaggio del generale scopre di non volersene più andare, e a un certo punto annuncia agli altri ospiti come un dato di fatto che su quell’isola rimarranno. Insomma, gli indizi sono sufficienti: si tratta in fondo dell’Aldilà, l’Isola dei morti che per il folklore celtico starebbe appunto nel mare a Occidente, e che con il suo retrogusto malinconico trova nel romanzo connotazioni piuttosto pagane. Al di là dunque degli echi legati a vaghe paure razziali che pure accompagnano la poesiola e la sua storia, Nigger Island con la sua casa del giudice (tale è quella in cui si svolge la storia) è l’Insula Nigra dei morti.
Di più: Nigger Island è quella stessa Isola dei morti ossessivamente dipinta tra il 1880 e il 1886 dal simbolista svizzero Arnold Böcklin, e che aveva colpito la fantasia di numerose personalità dell’arte e della politica. In particolare la terza versione del quadro (1883), nel 1933 era stata acquistata da un grande ammiratore di Böcklin, cioè Hitler, che la collocò prima al Berghof, sull’Obersalzberg, e, nel 1940, nella cancelleria del Reich a Berlino. Se pensiamo che proprio nell’anno di uscita di Dieci piccoli indiani, 1939, una famosa foto scattata subito dopo la firma del patto di non aggressione russo-tedesco mostra il quadro alle spalle di Hitler — nel suo studio, insieme al ministro degli esteri sovietico Molotov e al suo collega tedesco Ribbentrop — si potrebbe persino scorgere nel richiamo del romanzo la cifra aggiuntiva di una ben precisa inquietudine per la direzione che la Storia stava prendendo. Magari ricordando come il nome del giudice suoni Wargrave, “tomba di guerra”.
Certo, una riuscita così completa del piano del giudice sembra andare oltre ogni criterio di verosimiglianza: un imprevedibile previsto che rappresenta in fondo la conferma della liceità di trattare Dieci piccoli indiani quale vero e proprio romanzo fantastico. Tanto più che anche qui, come nelle isole pericolose dell’Odissea e in ogni passaggio simbolicamente rilevante c’è un Custode della Soglia, un mostro. Appunto l’hanging judge, sulla base dell’evoluzione che si è cercato di mappare: quel terribile giudice Wargrave che non solo spedisce sciagurati al patibolo con sadico compiacimento lungo tutta la sua carriera, ma ancora al suo ultimo giorno condanna all’impiccagione-suicidio la giovane Vera calando il sipario su un mistero di spettrale inafferrabilità, e tutto virato sul binomio giustizia & crudeltà.
Ancora una volta, si noti, un giudice-fantasma, almeno sul piano virtuale. È un fantasma in quanto Owen/Unknown, visto che la voce che emette la condanna non è quella di un essere vivente ma il fantasma di una voce, cioè una registrazione; e a commettere i delitti è un’identità sfuggente come uno spettro. Ma è un fantasma anche in quanto Wargrave, trovato morto — in apparenza — nei suoi panni di giudice, con tanto di manto rosso e parrucca: una scena in cui il giudice si fa ritratto d’un morto (echi stokeriani annessi) ma capace di continuare a uccidere. E uccidere in modo obliquo e indiretto, come appunto fa con Vera, agendo all’interno di lei quasi possedendola medianicamente. E persino la sua voce finale, quella post mortem che arriva attraverso il messaggio nella bottiglia, ha il sapore di una rivelazione dall’Aldilà. Se poi La casa del giudice di Stoker poteva apparire un ideale capostipite degli slasher falcia-studenti del cinema, qui il tema di una giustizia extralegale che sa cosa hai fatto, la struttura narrativa per cui un insieme di personaggi legati a uno spazio circoscritto (un’isola, un campeggio, un campus) viene via via ridotto fino a un drammatico finale, il fatto stesso che l’assassino sia un morto o un presunto tale (come Wargrave, non solo condannato da una malattia inesorabile ma, appunto, morto virtuale per continuare a uccidere) rappresentano elementi tali da suggerire una precisa connessione.
Adattando nel ’43 Dieci piccoli indiani per il teatro, Agatha Christie modifica il finale. Vera e Lombard si scoprono innocenti dei crimini dei quali sono accusati, e alla fine si salvano mentre il giudice muore: una scelta che però indebolisce il sottotesto simbolico e mitico. Non soltanto cioè fa cadere con la morte di Vera l’epifania dell’hanging judge, ma dissipa quel manto di mistero e di provocazione verso livelli più profondi della realtà che avviluppa il romanzo. Tale conclusione che Agatha Christie considera — peraltro con ammirevole pragmatismo — più adatta al pubblico della play tornerà anche nelle maggiori trasposizioni cinematografiche (And then there were none / Dieci piccoli indiani di René Clair, 1945; And then there were none / Dieci piccoli indiani di George Pollock, 1965; And then there were none / …E poi non ne rimase nessuno di Peter Collinson, 1974), e ha ormai dignità storica. Ma nella versione cinematografica russa Desyat’ negrityat (appunto ‘Dieci piccoli neri’), scritta e diretta da Stanislav Govorukhin nel 1987, e in una nuova versione teatrale inglese del 2005, scritta da Kevin Elyot e diretta da Steven Pimlott, si ritorna lodevolmente al finale originale.
Dieci piccoli indiani non rappresenta solo la prova di quanto le distinzioni tra generi (mystery, thriller, horror, romanzo fantastico…) non siano in fondo troppo rigide e non precludano feconde contaminazioni. Un bilancio della lettura non si consuma neppure nella generica conferma — se mai ve ne fosse la necessità — che un romanzo di genere possa parlare il linguaggio della buona letteratura. Anche in riferimento al mito dell’hanging judge, va invece sottolineato qualcosa di più importante e specifico: e cioè la straordinaria fecondità di testi spesso liquidati come di semplice intrattenimento, la loro dignità di macchine per pensare, il loro attingere a motivi tradizionali risco-prendone la carica provocatoria — sia in rapporto al piano storico-sociale che a uno interiore ed esistenziale. Una misura che attraverso simboli-chiave, strutture narrative e teratologie dice del mondo che abbiamo intorno e degli angoli riposti di noi stessi più di quanto avremmo immaginato e forse sperato di confessare.
Con Dieci piccoli indiani il tema letterario dell’hanging judge ha visto ormai sfruttate le potenzialità fondamentali, e il cinema le asseconderà. Ma una trentina d’anni dopo il romanzo, in un clima ribollente di provocazioni culturali, proprio il grande schermo aprirà un’appendice al discorso ricollegando la teratologia laica del Giudice Impicca-impicca agli echi paleogotici su cattivissimi inquisitori: e Jeffreys insomma tornerà a colpire.

[Continua –]