untore.jpgÈ appena uscito l’ultimo romanzo di Franco Forte, “Il segno dell’untore” (Collana Omnibus Mondadori, pagine 358, 15 euro). Si tratta di un thriller storico ambientato in una Milano cinquecentesca afflitta dalla peste bubbonica, dove si muove, in mezzo a una popolazione messa in ginocchio dall’epidemia e dalla precarietà di vita, il notaio criminale Niccolò Taverna. Chiamato a risolvere due casi in qualità di magistrato col mandato a indagare su casi di omicidio e ruberie, Taverna utilizzerà tecniche investigative sorprendentemente moderne, insieme all’intuito e alla deduzione. Ciò che, oltre a una solida architettura generale, rende quest’opera molto interessante è proprio la commistione tra la modernità delle procedure d’indagine e l’acribia dell’affresco storico, mentre, in ombra, si stagliano i pregiudizi dell’epoca.
Franco Forte, nato a Milano nel1962, è giornalista, traduttore, sceneggiatore, editor delle collane edicola Mondadori (Il Giallo Mondadori, Urania e Segretissimo), ha pubblicato i romanzi “Roma in fiamme”, “I bastioni del coraggio”, “Carthago”, “La Compagnia della Morte”, “Operazione Copernico”, “Il figlio del cielo”, “L’orda d’oro”, tutti editi da Mondadori, e “La stretta del Pitone” e “China killer” (Mursia e Tropea). Il suo sito è www.franco-forte.it.

Segue il primo capitolo del romanzo. (M.O.)

Il segno dell’untore
La prima indagine del notaio criminale Niccolò Taverna

Capitolo primo

12 agosto 1576
Ora prima

1

La prima cosa che Niccolò Taverna sentì fu l’odore. Il lezzo greve dei corpi che bruciavano nei fopponi, le grandi fosse comuni scavate in città e nelle campagne, veri e propri varchi per l’inferno che ardevano senza sosta, ma che non sembravano mai sufficienti per accogliere i morti che riempivano le strade.
Niccolò si agitò nel suo giaciglio, cercando di tenere gli occhi chiusi per non svegliarsi, ma dopo l’odore furono i suoni ad aggredirlo, e la nausea gli strinse la bocca dello stomaco. Si portò le mani sugli orecchi: tutto inutile. Quelle grida, quei pianti, quelle urla isteriche ormai campeggiavano nella sua mente da giorni, e non sarebbe bastato quel gesto a cancellarli.
Trattenendo un gemito si mise seduto sul bordo del letto, poi aprì gli occhi e guardò dall’altra parte della stanza, dove Anita aveva trascorso gli ultimi giorni con lui, rantolando sul pavimento.
Era ancora tutto come prima, come quando i monatti erano venuti a portargli via sua moglie.
Niccolò sapeva che avrebbe dovuto sbarazzarsi degli stracci, delle coperte e della paglia intrisi di umori infetti che avevano fatto da giaciglio ad Anita. Avrebbe dovuto bruciare tutto, come imponevano le ordinanze del tribunale di Sanità e le gride del governatore stesso, che tentavano disperatamente di arginare con quelle misure il dilagare della peste, ma sapeva anche che se l’avesse fatto di Anita non gli sarebbe rimasto più niente. Niente oltre al ricordo del suo viso pallido, dissanguato dalla malattia, le pustole e i bubboni gonfi, il terrore negli occhi, velati della follia che si impadronisce della mente quando la morte arriva a soffiarti nelle nari.
Niccolò si passò le mani sul viso e provò a respirare a fondo, ma il suo corpo si rifiutava di inalare l’olezzo rancido di cui era impregnata la casa e che filtrava dalle imposte, insieme alla finissima cenere in sospensione che nelle ultime settimane aveva ammorbato l’aria di Milano. “Cenere di corpi bruciati…”
Il pensiero gli acuì la sensazione di malessere nello stomaco, e si sorprese di non essersi ancora abituato alla vista di tante persone gettate nelle fosse comuni, perché le fiamme purificassero la malattia che le aveva rese irriconoscibili.
Ma poi si costrinse a dilatare le narici e a raccogliere aria nei polmoni, e quel gesto fu determinante per costringerlo ad alzarsi e dirigersi all’armadio, dove prese i vestiti e si preparò in fretta per uscire.
Mentre indossava le calzebraghe e una camicia di cotone con polsi e colletto arricciati, ripensò ai casi che aveva ancora in sospeso. Avrebbe dovuto agire in fretta ma con tatto e discrezione, perché la gente non avrebbe capito le necessità del suo incarico di notaio criminale e non sarebbe stata propensa a seguire le disposizioni di legge e a sottoporsi agli interrogatori necessari alle sue indagini.
Niccolò sospirò e si allacciò in vita la cintura con i ganci per lo sfondagiaco d’ordinanza, la borsa con i denari e gli strumenti del suo mestiere. Ai piedi calzò morbidi mocassini di cuoio realizzati dagli artigiani di Porta Vercellina, dono di suo zio Matteo Taverna, cugino di terzo grado del grande Francesco, che era stato uno dei più illuminati governatori della capitale. Lui non avrebbe mai potuto permetterseli. Il suo stipendio di magistrato gli bastava appena per sopravvivere e per pagare l’esorbitante affitto mensile che il proprietario del palazzo chiedeva per la sua stanza, soprattutto dopo che Anita si era ammalata e lui si era lasciato abbindolare da guaritori senza scrupoli, che lucravano sulle sofferenze della gente.
Quando fu pronto lanciò un’ultima occhiata alle cose di Anita, ammassate in un mucchio disordinato, e si disse che non poteva più rimandare. Sebbene il lavoro lo reclamasse, doveva prima trovare sua moglie e scoprire se anche lei era diventata parte della nube di cenere che gravava su Milano. O se era ancora preda dei diavoli che le scavavano tane dolorose nel corpo e nell’anima.
Varcò deciso la porta della stanza e si lanciò lungo le scale, tremando all’idea di ciò che lo aspettava.
«Benedetto ragazzo, dove corri con tanta furia?»
Svoltando l’ultima rampa, Niccolò aveva quasi travolto una donna grassa che stava salendo lentamente i gradini, sbuffando e tenendosi aggrappata al corrimano.
«Zia Ofelia…» si scusò imbarazzato. «Sto andando da Anita. Ma lei…» scosse la testa, senza aggiungere altro.
«Vuoi che ti accompagni? Che ti prepari qualcosa per lei?»
«No, grazie, non ce n’è bisogno» rispose Niccolò cercando di allontanarsi.
Zia Ofelia lo fermò con una stretta poderosa. «Aspetta, portale una di queste» disse indicando la cesta che teneva al braccio. «Le ho preparate con le mie mani. Sono sicura che la povera Anita ne trarrà giovamento.»
Niccolò trattenne un’imprecazione. Sapeva che non c’era altro modo per liberarsi di zia Ofelia che accettare le sue offerte culinarie.
«Grazie» si arrese, infilando la mano nella cesta e pescando qualcosa di molle, che gocciolava.
«Stai attento» lo mise in guardia lei, «è una birraia fresca, lasciata ad ammorbidire per tutta la notte.»
Cercando di nascondere il disgusto, Niccolò osservò la forma di pane duro intrisa di birra acida che gocciolava sulle scale, minacciosamente vicino alle sue scarpe.
«Grazie» disse, imponendosi di sorridere. «Anita la apprezzerà di certo. Ma adesso devo proprio scappare.»
Niccolò si allontanò tenendo la birraia gocciolante a un braccio di distanza dai suoi preziosi mocassini, poi quando fu in strada, lontano dallo sguardo della zia, lanciò la matassa spugnosa in un canaletto di scolo.
Anita aveva sempre odiato la birraia, e non era certo quello il momento per convincerla ad assaggiare le prelibatezze di zia Ofelia.

2

Doveva essere appena scoccata l’ora prima, anche se Niccolò non poteva saperlo con certezza. I campanili delle chiese tacevano da diversi giorni, dopo che il battere dei rintocchi era diventato incessante, sospinto dal gran numero di morti che si inseguivano ora dopo ora. Era stato lo stesso arcivescovo Borromeo a ordinare il silenzio, che non era di spregio alle vittime ma contribuiva a rendere meno fragoroso il pianto e l’urlo d’angoscia di tutta la città.
Niccolò era grato all’archidiocesi per quel provvedimento, ma d’altro canto per lui lo scandire delle ore dai campanili si era sempre dimostrato uno strumento valido per organizzare il lavoro e cercare dei punti di riferimento durante le sue indagini criminali.
Ma adesso non ne aveva bisogno.
Mentre scivolava lungo le strade, diretto al palazzo in cui era stato allestito uno dei tanti provvisori centri di Sanità sparsi in ogni quartiere, Niccolò cercava di guardarsi intorno il meno possibile. Teneva gli occhi puntati sull’acciottolato resistendo al richiamo di urla disperate, grida strazianti, suppliche d’aiuto o strilli di rabbia che provenivano dalle case sbarrate dai monatti e dai commissari di Sanità per evitare che presunti malati di peste uscissero a infettare le poche persone sane che ancora si aggiravano per la città. Era difficile resistere allo strazio di quelle grida. Da un lato avrebbe voluto intervenire per liberare quei poveracci che rischiavano di finire uccisi dalla fame e dagli stenti, più che dalla malattia; ma dall’altro ricordava il volto pallido di Anita, gli occhi infossati per la sofferenza, e la sua rabbia quando gli aveva gridato di stare lontano da lei, di non avvicinarsi, prima di perdere definitivamente il senno e crollare esausta sul suo giaciglio sporco, le labbra spaccate e lo sguardo perso in un mondo che solo lei poteva vedere.
Il governatore aveva fatto affiggere le sue gride sui muri della città, esortando i cittadini a collaborare con le autorità sanitarie, a restare chiusi in casa a meno che non fosse strettamente necessario uscire, e aveva concesso ai commissari di Sanità un potere quasi assoluto, quando si trattava di individuare focolai d’infezione. Ma il Lazzaretto Maggiore e tutti quelli che erano stati improvvisati in ogni quartiere erano pieni all’inverosimile, e non c’era stato altro modo per cercare di tenere la situazione sotto controllo che chiudere in casa chiunque desse segno dell’insorgenza della malattia, confinando all’interno anche parenti e familiari, possibili portatori del contagio. I monatti sbarravano porte e finestre inchiodandole con le assi e mettendo traversi di sostegno, in modo che dall’interno diventasse impossibile abbatterle, e tutta quella gente era costretta a restarsene imprigionata nella propria abitazione in attesa di ammalarsi e di morire, oppure del miracolo che l’avrebbe riconsegnata al perdono di Dio.
Ma ormai erano troppi quelli costretti alla reclusione, e in tutta la città si levavano grida ingannevoli: tanti asserivano di essere guariti o di non essere affatto ammalati, e imploravano di essere liberati, piangevano, minacciavano, urlavano esausti e smarriti.
Niccolò scosse la testa per cercare di scacciare le immagini che quelle urla evocavano nella sua mente. Solo l’anno prima, insieme ad Anita, aveva cominciato a leggere la Divina Commedia dell’Alighieri, in una pregevole edizione a stampa che si era diffusa velocemente in tutto il Ducato,
nonostante fosse stata realizzata dal veneziano Ludovico Dolce, che si diceva fosse in odore di eresia.
Avevano letto diverse terzine con curiosità, poi, a mano a mano che si erano addentrati nell’Inferno descritto dal poeta, avevano capito che Dante non si era scostato troppo dalla realtà, e forse aveva solo descritto un mondo che aveva visto con i suoi occhi, molto simile a quello in cui si stava dibattendo Milano sotto gli strali della peste.
Eppure Niccolò era convinto che nemmeno l’Alighieri avrebbe potuto immaginare un girone dell’Inferno simile a quello in cui erano imprigionate centinaia di persone in quel momento, costrette a convivere con i propri ammalati, a respirare l’aria malsana intrisa dell’odore degli umori infetti, scossi dal terrore di veder crescere anche su di sé i bubboni della peste.
Sentendo salire di nuovo la nausea accelerò il passo, evitando di camminare rasente ai muri delle case, per non rischiare che gli arrivasse in testa un secchio di escrementi svuotato in strada da qualcuno che se ne infischiava delle disposizioni sanitarie, o che addirittura cercava di vendicarsi
in quel modo per la segregazione che doveva subire.
E poi c’erano gli indumenti e gli effetti personali dei malati, che i monatti gettavano dalle finestre per risparmiare tempo e che cadendo imbrattavano i muri con schizzi di materia putrida che segnavano gli edifici come se fossero stati messi all’indice.
Niccolò non sapeva come si trasmettesse la malattia, ma alcuni suoi amici che lavoravano al tribunale di Sanità gli avevano consigliato di stare lontano da quella materia infetta in quanto ritenuta la causa più probabile del diffondersi dell’epidemia.
Quando svoltò in via della Vetra fu costretto ad arrestarsi.
Davanti a lui si ergeva qualcosa di ancora più spaventoso delle secrezioni degli appestati o delle grida dei disgraziati rinchiusi nelle loro case.
Vide un presidio del Consiglio dell’Inquisizione Generale, con il patibolo per le esecuzioni e le travi a cui venivano legati gli accusati di pratiche immonde come la stregoneria, l’unzione o la predicazione dell’eresia, affinché fossero torturati e potessero, confessando, purificare la loro anima
prima del supplizio inevitabile.
Niccolò trattenne un moto di rabbia e strinse con forza i pugni. Quei presidi della Santa Inquisizione avevano il compito non tanto di punire i colpevoli di qualche eresia, quanto di diffondere la paura e fare capire che la Corona di Spagna era ancora vigile sul Ducato: nonostante le pressioni esercitate dall’Arcivescovado e dal Borromeo, il Consiglio, che rappresentava l’Inquisizione Spagnola, aveva
piena autonomia decisionale in tutto ciò che riguardava atti di stregoneria o l’abominio protestante. Era una guerra in atto tra poteri forti che si riversava sulla povera gente e che prevedeva la nascita di quelle strutture del terrore nei punti nevralgici della città, per stringere le briglie del cavallo malato e sofferente in cui si era trasformata Milano.
Niccolò restò un attimo a osservare gli abiti bianchi e neri dei domenicani che allestivano il patibolo e gli attrezzi per le torture, e si sentì arrestare il cuore nel petto quando si accorse che uno dei prelati, un uomo alto e dallo sguardo severo, con il naso aquilino proteso verso di lui come il becco di un rapace affamato, lo stava fissando. Cercò di sostenerne lo sguardo, poi si rese conto che sarebbe stato un atto d’insolenza: quel domenicano avrebbe anche potuto essere un commissario inquisitoriale di alto rango, per ciò che ne sapeva. Abbassò quindi gli occhi e riprese a camminare al centro della strada, trattenendo a stento la voglia di mettersi a correre per sfuggire alla pressione dello sguardo del domenicano, che sentiva premere su di lui.
Quando finalmente svoltò nella piazzetta su cui svettavano le colonne romane di San Lorenzo, in cui era stato allestito il presidio del tribunale di Sanità, tirò un sospiro di sollievo e cercò di concentrarsi su quello che lo aspettava. Non sapeva se Anita era ancora viva oppure no. E, soprattutto, non sapeva quale delle due ipotesi augurarsi. Perché ormai da troppo tempo ciò che restava di sua moglie era ben lontano dalla donna che lui aveva amato.