di Valerio Evangelisti

RotoloDollari.jpg[Quanto sto per esporre rappresenta il mio pensiero. Non è il frutto di un dibattito all’interno di Carmilla, in cui possono convivere punti di vista differenti.]

Le vecchie formule marxiane vanno riviste. Secondo Marx, è noto, si passava storicamente dalla formula originaria M-D-M (merce — denaro — merce) a D-M-D (denaro-merce-denaro). Non ipotizzava che si potesse giungere alla formula attualmente vigente: D-D (denaro-denaro).
Eppure è a questo che siamo. Si parla di crisi dovuta al debito. Debito di chi e verso chi? Tutti i paesi più sviluppati sono indebitati l’uno con l’altro. Attraverso le banche, e soprattutto le banche centrali. Questo non significa che la “crisi” delle loro popolazioni somigli a quella degli africani oppressi dalla siccità, degli asiatici costretti allo schiavismo lavorativo, dei sudamericani condannati a una miseria ancestrale. Ogni passo verso quei “modelli” deriva, più che dalla crisi finanziaria, dai mezzi messi in campo per uscirne.

Dunque, quando diciamo “crisi”, di cosa stiamo parlando? Di calcoli astratti, che con la produzione non hanno niente a che fare. Di pure cifre, per un ammontare fino a otto volte superiore a quello dell’economia reale: l’economia concreta, fatta di produzione di beni di consumo e di investimento. E nemmeno questo è sufficiente, a spiegare i giochi forsennati in atto. Se davvero il calcolo del debito avesse un senso, al primo posto verrebbero gli Stati Uniti, seguiti dal Giappone. La Grecia, tanto demonizzata, si collocherebbe a distanza.
Da qualche parte l’ho già detto. I Paesi ricchi di materie prime, di risorse umane e materiali, sono tra i più miserabili della terra. L’avvenire del mondo si gioca invece, in un poker assurdo, tra i Paesi del D-D. Quel che conta è il bluff, l’accumularsi di valori virtuali. La differenza dal gioco? Non è affatto previsto che si scoprano mai le carte.
Come uscirne è ignorare le fiches. Contano quanto il denaro a Monopoli. Se non si gioca, vale nulla. Se si continua a giocare, fingendo che sia reale uno scenario assurdo, ci si trova ad aggirarsi per Vicolo Corto o Vicolo Stretto, mentre altri hanno in mano Viale dei Giardini o Parco della Vittoria. Rovesciamo la scatola, gettiamo il denaro fittizio. Chi dirige il gioco entrerà in crisi. E’ l’unico che meriti di esserlo, in crisi.

Quando il demenziale ingranaggio dell’economia finanziaria si imbroglia, come accade periodicamente, tutti parlano di “crisi di sistema”, intendendo il sistema capitalistico. Ebbene, toglietevi ogni illusione. Il capitalismo non entra mai in crisi finale da solo, senza una spinta energica che lo butti gambe all’aria. L’unico meccanismo che, dall’interno, possa metterlo in ginocchio, si chiama caduta tendenziale del saggio di profitto. In effetti è un processo distruttivo, ma a lungo o lunghissimo termine, legato al costo sempre maggiore dei beni strumentali necessari a produrre e alla saturazione dei mercati — o perché si produce troppo o perché si restringono le aree di espansione.
Ma il capitalismo possiede armi efficaci per rallentare la caduta. Per esempio investire i guadagni in comparti diversi da quello della produzione di beni. In passato fu l’edilizia, oggi è la finanza (per fare un esempio, gli attuali margini di profitto della Fiat provengono da investimenti finanziari). Oppure la guerra, per cercare di conquistare aree in cui espandersi. O ancora la guerra interna contro le classi subalterne, a cui sottrarre reddito per costringerle a una totale subordinazione e all’accettazione, in ordine sparso, della rinuncia a diritti elementari.
Finanza, guerra, compressione sociale. Chi non associa questi tre strumenti (più tutta una varietà di altri minori) non coglie l’assieme dei fattori che delineano il presente. Si limiterà dunque a lamentare il presunto “signoraggio bancario”, la cattiveria degli speculatori (la speculazione non è un epifenomeno, ma l’anima stessa della finanza), l’egoismo degli Stati, la rapacità delle banche (che non sono mai state enti di beneficenza). Si concentrerà su disfunzioni locali, problemi di calcolo spicciolo, rapporti difficili tra Stati. Il tutto per eludere il problema di fondo. Non esiste una via d’uscita confortevole e riformista dal marasma attuale, anche perché il sistema gode di ottima salute. Anzi, approfitta dell’occasione per rafforzare istituzioni sottratte al controllo dal basso, ricatta, fa balenare false verità. Mette l’una contro l’altra addirittura etnie e religioni. Come diceva il saggio Orwell in 1984:
– La guerra è pace
– La libertà è schiavitù
– L’ignoranza è forza.
Fateci caso: sono slogan che, infiorettati e dissimulati sotto spoglie “ragionevoli”, vengono ripetuti venti volte al giorno.
Quanto al compito dell’antagonismo, è di rompere la macchina, non di aggiustarla. Si accavallano le proposte per “uscire dalla crisi”, e il manifesto — per fare un esempio — ne espone una al giorno. Regolare il mercato azionario, controllare le banche, ricalibrare le imposte, proclamare piccoli default locali, non proclamarli, differenziare le monete, scindere le aree europee, inventare nuovi titoli, ecc. A che scopo? Dichiarato o inespresso che sia, è quello di “tornare come prima”. Ma proprio “prima” radicava la contraddizione.
Simili faccende vanno lasciate ai padroni del vapore. Bisogna concentrarsi sull’offensiva dal basso, e state certi che, quanto più sarà spietata, tanto più chi è in alto proporrà riforme. Che ci pensino loro, a dettagliarle. Lo hanno sempre fatto. A seconda del livello di scontro vi si adeguano e cercano frettolose soluzioni. Lasciarsi coinvolgere in sterili dibattiti, preferire un governo a un altro, significa già riconoscere la legittimità di un assetto complessivamente malato. Non uscire dai recinti del sistema.
La parola d’ordine più giusta udita finora — in tutto il mondo — è “Noi il debito non lo paghiamo”. Punto e basta. Al resto pensi chi comanda, o crede ancora di comandare.
Luigi XVI, prima che gli fosse chiesto alcunché, riconobbe la sovranità dell’Assemblea Nazionale, la soppressione dei privilegi della nobiltà, la Convenzione. Si mise persino la coccarda tricolore sul cappello, prima di perdere la testa. Il fatto è che aveva paura.
Le piazze francesi, a quei tempi, erano piuttosto affollate. Ed esuberanti.
Bisogna che chi siede in alto abbia paura. E che chi sta in basso abbia coraggio. Molto

Sto incitando alla lotta violenta? Non è mia intenzione. Dalla mia penna, in ogni caso, non uscirà una sola parola contro chi, ai limiti della disperazione, sfoga la propria rabbia. Lo farà in forme piacevoli o spiacevoli, razionali o istintive. L’intelligenza collettiva, per crescere, va per tentativi. Finché non si forma una volontà comune, un abbozzo di progetto. Siamo agli esordi, gli infantilismi (ipotetici) vanno messi in conto. A me basta che tre punti siano chiari a tutti:
– No alla guerra, comunque giustificata. La guerra è scontro fra gente che ha gli stessi interessi, manovrata da una minoranza che ha interessi diversi.
– No a ogni potere politico-economico sottratto al controllo di chi vi è sottoposto. Tale è oggi l’ordinamento europeo;
– No all’annichilimento della cultura diffusa sotto il peso della falsa informazione e di una scuola venduta al migliore offerente.
In definitiva:
La pace è pace, e nulla giustifica azioni militari in cui, inevitabilmente, si macellano innocenti in nome di niente. Per non parlare dei costi.
La libertà è democrazia diretta, che non potrebbe sussistere senza l’eguaglianza.
La vera forza è la cultura, specie in un tempo in cui il sapere detto immateriale è diventato diretto fattore produttivo.
Ho così capovolto il monito orwelliano.
Ma, stabiliti i principi generali, è possibile passare al terreno pratico? Penso di sì. Sarà il tema della seconda parte.

(1-CONTINUA)