di Luca Baiada (da il manifesto, 3 novembre 2011)

Daumier.jpgRobuste eppure irrisolte, le parole di Antonio Ingroia, il 30 ottobre al congresso del Pdci: «Non mi sento del tutto imparziale, anzi, di più, mi sento partigiano…». E il magistrato sia imparziale nei processi che tratta, ma sempre dalla parte della Costituzione. Dai banchi universitari, sento queste cose che scuotono la coscienza, ma appunto solo di chi la frequenta. Intanto, ciò che convince i migliori giuristi stenta a essere accettato come regola: alle magistrature la borghesia più emotiva d’Europa chiede una razionalità gelida e minuziosa. Agli affari, il cuore in mano, il Partito dell’Amore, er core de Roma, cuoricino di Gesù, identità viscerale, e il voto di pancia, e più giù il bunga bunga; e c’è un sindaco fiorentino che vuole scaricare tutto e tutti, mentre le operazioni new company trasformano i lavoratori in bolo, succo gastrico, tal quale. Comandano le trippe, il cervello ubbidisca. Questa ideologia, la chiamano tecnica.

Confinati in strutture cui si chiede interpretazione, e mai altro, i giuristi non discutano, eseguano. Anzi, anni fa qualcuno sentenziò che i magistrati devono applicare la legge, non interpretarla. Anche i banchi universitari si tarlano, e la logica combinatoria che di qua dal muro di Berlino mediava nella socialdemocrazia bloccata italiana le conquiste del Novecento, quell’alchimia di articoli, commi e combinati disposti, può essere accantonata come un’arma da museo: abbiamo scherzato, adesso c’è un ministro della semplificazione. Ma è l’inganno della nostalgia, a guardare ai vecchi ferri del mestiere giuridico, o è la cautela a suggerire di non sbarazzarsene?
Usignolo nella gabbia di Giurisprudenza, a Roma, cantava Franco Cordero. Si permetteva il lusso di pensare, e alle sue lezioni palpitava una folla. Un turbamento che mi scosse persino di notte, un subbuglio, una tappa da Bildungsroman ma sulfurea, una cosa che può intendere il teologo assaggiando la lusinga dell’eresia. Ma il linguaggio leguleio è rimasto un gergo, e un fiato di realtà suona parolaccia, per le orecchie di Palazzo.
Adesso è peggio, perché? La globalizzazione mette tutti contro tutti. E mentre nella forza militare c’è un’unica superpotenza, si stagliano gruppi di operatori intellettuali diversissimi: finanzieri, giuristi, informatici. Da Wikileaks ai creatori di derivati, dalle corti internazionali ai tecnoinvestigatori, giustizia e ingiustizia attraversano partite complesse, mentre i muscoli fanno la bassa forza. Ma la globalizzazione all’italiana è un modello feudale — Ingroia lo chiama «borghesia mafiosa e capitalismo mafioso» — che come unto e sangue risale l’Italia e l’Europa. Leonardo Sciascia paragonava il successo della mafia all’avanzare verso nord del confine dell’area della palma. Ora, si è visto con la strage di Duisburg, il palmeto può varcare le Alpi. Falcone aveva capito, il meccanismo passa proprio attraverso le prose e le aritmetiche del denaro contabilizzato, cioè attraverso il ceto intellettuale, ma non tutti hanno capito Falcone, perché fa comodo leggere le stragi come una zuffa tra guardie e ladri. È ridisegnato sotto i nostri occhi anche il concetto di eroe, e se beato è il popolo che non ha bisogno di eroi, guai a quello che li ha e neppure li riconosce. L’agente segreto Calipari salva una vita, il soldato Manning svela una geopolitica criminale, il novantenne Hessel muove la gioventù. Niente illusioni: ruoli e categorie, lebbra e stigmate attraverseranno un meticciato che metterà alla corda parecchie certezze. Sarà buio, gente, e ci si dovrà dare la voce per non perdersi. Diranno che facciamo chiasso.
Dentro questo, ai custodi delle leggi si chiede di occuparsi solo di trasgressioni e non di regole. Dura lex, specie col sistema elettorale italiano: due terzi dei votanti non contano, un terzo sceglie un marchio e mai persone. I padroni del marchio, banco vince.
Dove Ingroia si ferma, è sul non detto, sul tabù del giurista, bestemmia del chierico: «Mi diranno che un magistrato deve essere imparziale, e io sono d’accordo. Un magistrato deve essere imparziale, quando esercita le funzioni. […] Ma detto questo, che fare? Occorre resistenza, resistenza costituzionale, ma credo che non basti». In questo Che fare? del XXI secolo, in questo non bastare che i più consapevoli condividono, c’è la questione della guerra senza divise. I crimini di pace di Basaglia hanno scavalcato le mura delle istituzioni totali: gli indesiderati sciamano ovunque, rinsaccati negli abiti da niente, a volte nella rabbia spaccatutto. Da Tunisi a New York una massa, ancora confusamente, sa di essere 99% e selvaggina per una minoranza. La questione della disubbidienza è aperta, e solo la fatica dei fatti insegnerà ai giuristi se e come ridimensionare regole inaccettabili, con la tenacia con cui il topo rode la fune, o invece se scegliere linee più frontali.
Ancora Cordero. Muso corrucciato, ci insegnava a liberarci dalla nera scienza catalogale, fendendo i corridoi in giacchine pastello che mettevano tenerezza. Scaldava la facoltà da cui, anni dopo, contro Marta Russo partirà il colpo mortale: uno sparo torvo e gratuito come una sfida, perché i giuristi pensano di chiarire il bene degli altri, ma il loro male è oscuro come un mistero. Forse per questo, fa scandalo chi trova le parole e i sentimenti che mancano a un ceto dirigente aggrappato al bastone, alla lupara, all’aspersorio, al telecomando.
Il «credo che non basti» è già un credo, e infatti non basta, perché dopo ogni buon proposito il giurista si ritrova a confrontarsi con l’ingiustizia, persino quella che può essere costretto a commettere. Montale, col cuore a Monterosso (proprio il borgo che l’incuria ha sommerso di fango), stringeva l’enigma in un osso di seppia: «Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».