di Marilù Oliva

“Chiamami Buio” di Massimo Rainer (Todaro, 2011)
Rainer.jpgBuio è uno sbirro che così vuol essere chiamato, del resto il titolo è esplicativo. L’incipit del romanzo è uno di quelli che mettono il lettore con le spalle al muro: una fellatio molto particolare, non diffusa ma consolidata, nella storia della criminologia, per opera di pochi sordidi esemplari di psicopatici. Ma in questo libro l’autore fa molto di più che riportare un semplice disturbo.
Con “Chiamami Buio” (Todaro, 2011), l’avvocato milanese che scrive sotto lo pseudonimo di Massimo Rainer – qui al suo secondo libro dopo “Rosso italiano”, Barbera 2007 -, ci cala nei baratri del protagonista innalzandolo io narrante e pensante.
Uomo sociopatico recalcitrante alla tecnologia, un’educazione salesiana alle spalle, soliloqui che pausano dilatandosi nelle vocali, Buio ha un fratello gemello prete, oltre a un socio in affari, Il Gabbiano, che è tutto un programma.

Per via di una brutta storia, il nostro poliziotto è finito a lavorare al Centro di Permanenza Temporaneo di Via Corelli, a Milano, dove rompe «i coglioni a dei poveri stronzi senza permesso di soggiorno. Esseri umani di serie C, in Italia a spaccarsi la schiena per raccogliere pomodori a quattro euro all’ora, senza un cristiano che gli dia un goccio d’acqua, nemmeno se lo implorano. O per arrampicarsi, come stramaledette scimmie del circo, sui cantieri dei palazzi, senza misure di sicurezza, a venti metri da terra, per trenta euro al giorno. O per dare via il culo a professionisti, dirigenti, industriali, calciatori, politici…». Questa la veste ufficiale, sopra la quale Buio indossa un soprabito sporco di sangue e traffici illeciti che coinvolgono prostituzione, droga, snuff movies. E dal lerciume quotidiano a quello trasposto nell’idea, il passaggio ce lo racconta l’autore: «Volevo rappresentare un personaggio cattivo a tutto tondo, la mia visione del Male sotto forma di uomo. Ho pensato, inizialmente, di attingere alla mia esperienza professionale, ma nessuno, tra i criminali che difendo, è un personaggio completamente negativo; c’è chi ruba per mangiare, chi spaccia per mantenere un figlio, chi uccide per vendicarsi di un torto subito. Non li giustifico, ma so che fanno le cose con un senso, per quanto distorto e deviato. Io avevo bisogno di parlare del Male fine a se stesso: compiaciuto, totale, senza nessuna forma di resipiscenza, di senso morale, di motivazione. Poi mi sono ricordato de “Il cattivo tenente”, il capolavoro di Abel Ferrara, e ho capito che era da quello che dovevo partire. Ma il mio poliziotto bastardo si differenzia dal personaggio interpretato da Keitel per un elemento essenziale: non conosce il significato del termine “ravvedimento”».
Un bel noir con accenti hard-boiled in salsa pulp che danno brio a un narrato scorrevole, a tratti volutamente gergale e realistico, proprio in ossequio ai turpiloqui mentali del narratore omodiegetico. Concludo ricollegandomi all’inizio: la scena in cui, una mattina, Buio si sveglia dopo una notte di gozzoviglie alcoliche e non sa spiegarsi perché la finta bionda che si era portato a letto giaccia ora immobile, troppo immobile, segna l’inizio del primo mistero che lui scioglierà al lettore. Primo ma non unico. Perché il vero mistero non si può risolvere né qui né in altre sedi: è il mistero del marcio dell’animo umano.

“Elisabeth” di Paolo Sortino, (Einaudi, 2011)
elisabeth-di-paolo-sortino-.jpegNeanche trent’anni, romano, Paolo Sortino ha pubblicato in aprile, con Giulio Einaudi Editore, “Elisabeth”, costruito su un drammatico fatto di cronaca accaduto ma ritramato nei dettagli. Questo è il suo romanzo d’esordio anche se esiste un primo (e precedente) lavoro organico: “Afterwards”, una prosa lirica che addita il sistema britannico, risalente ad un’esperienza di vita inglese e mai pubblicato in Italia. “Elisabeth”, del quale sono stati già ceduti i diritti di traduzione in Brasile, Portogallo, Spagna e Israele, racconta con uno stile scolpito, lirico e con sintassi poliedrica, l’universale della Tragedia — richiamata dalla maschera in sovracoperta — ricostruita nel particolare dell’Uomo carnefice e vittima delle proprie colpe, ripiegato e poi ingabbiato nel coronamento della volontà incestuosa, volontà che diventa atto, poi costrizione poi quotidianità, e che si espande fino ad acquisire connotazioni astratte: protagonista maschile è Josef Fritzl, il padre austriaco che per 24 anni ha tenuto segregata in un bunker antiatomico, costruito nelle fondamenta di casa, la figlia Elisabeth. Sette i bambini nati, tre allevati in superficie, tre nel bunker, uno, morto subito dopo la nascita, calcinato nella caldaia di casa. L’autore ha riportato, anche reinventando, molti dei brandelli di vita e dei momenti più significativi. La sporcizia, le umiliazioni, le rabbie, le deviazioni. Il tempo che è un continuum ma esplode nel dettaglio della singola azione, come quando Elisabeth, intravista dentro a un termos la chiave che avrebbe potuto farla uscire, nel tentativo di recuperarla spacca l’oggetto contro il bordo del water: «Gli occhi scintillarono della miriade di pezzi sparsi. Si accucciò sulle ginocchia per guardare da vicino lo specchio liberato della curvatura e che adesso faceva un mosaico. Vi mise sopra il volto con gli occhi vicinissimi, come in attesa, convinta di trovare la sua immagine rotta a terra; ciò che vide non era però la bellezza infranta, distrutta, squadernata da ogni parte — caduta già da tempo dal cielo del suo volto — ma il suo posto vuoto, la nicchia buia che aveva lasciato.
Quanto macabra era la verità ora che era esposta!
Comprese che i sentimenti non escono mai da noi veramente; se lo fanno è perché sono chiamati da somiglianze».
Il rapporto di necessità tra martire e aguzzino e l’assurdo in agguato che contamina i ruoli. Oltre, l’autore ha sfumato l’immensa solitudine che è condanna di ciascuno e, dato non irrilevante quando ci si accinge a redigere un dramma di tale portata — ha scritto avulso da velleità moralistiche. Né giudizi né espiazioni: il supplizio di Elisabeth si sovrappone a quello del padre nel momento in cui i deliri — di potenza e impotenza — diventano un tutt’uno nel miracolo replicato della nascita. Lui invecchia, i figli crescono, Elisabeth si riedifica nel macero assegnatole e l’epilogo non segna solo un capitolo di cronaca della cittadina di Amstetten.

“Piazza dell’unità” di Maurizio Matrone (Marcos y Marcos, 2011)
matrone1.jpgDai disturbi patologici a quelli più leggeri — non per questo meno seri, se non fosse che la narrazione ci trascina con ironia, verve e una prosa sciolta, in una zona adiacente ai viali di Bologna e a ridosso della stazione, piazza dell’Unità, grande protagonista del libro citata nel titolo, epicentro di una zona più ampia che comprende parte del quartiere in questione, la Bolognina, miscela etnica multiforme apparentemente tranquilla ma dai sottofondi esplosivi. “Piazza dell’Unità” (Marco y Marcos, 2011) è una storia corale composta da diversi elementi − crimine, droga, sopravvivenza allo stato brado, sesso ma anche amore − e diversi personaggi, tutti riuscitissimi − italiani e cinesi, poliziotti e delinquenti, zingari, russe, marocchini col fascino di Scamarcio. L’autore li mescola sapientemente con imprevisti, traversie, un malloppone da migliaia di euro, e la lettura scorre veloce mentre si imbandisce — incanto dopo disincanto —questa favola metropolitana in cui il gioco alla sopravvivenza si alterna all’avidità per tutto ciò che più fa gola, in primis soldi e sesso. C’è perfino posto per l’amore e per l’onestà, perché così va il mondo, ogni tanto spunta pure qualche fiore nel deserto.
Maurizio Matrone, ex- poliziotto ed ora autore a tutto tondo — romanziere, sceneggiatore, saggista — ha scelto per molti dei suoi succosi protagonisti disturbi diversi: Mohammad, ancora sbarbo, spaccone cocainomane bello da far innamorare le fanciulle della scuola, Nikolaj, quindici anni compiuti, rumeno senza documenti, ex sniffatore di benzina alle prese con una piccolezza non solo morale, a tratti intenerisce, con la sua capanna fatta di rami, cartone, faesite e teli cerati, nella boscaglia suburbana a ridosso della stazione Due Madonne, e con la sua grama esistenza: «A Bucarest ha lasciato tanti fratelli e genitori poveri e ignoranti che ha visto veramente poco. Non sa leggere bene, ma capisce l’italiano. E lo sa pure parlare. Ruba. Vestiti da Giacomelli, da mangiare alla Coop, le Nike le prende al Decathlon. […] In Romania non sapeva neanche dell’esistenza di Bologna, non sapeva niente di niente, non sapeva nemmeno di appartenere a un genere sessuale. Per lui darlo o prenderlo sono esattamente la stessa cosa. […] Quasi tutte le sere se ne va al Parcheggio. Un po’ va a guardare e un po’ va a offrirsi. Se lo fa mettere dietro dagli omosessuali, lo succhia ai vecchi, masturba gli uomini più sensibili alle sue mani che a quelle della donna che li accompagna. Non gli danno molto. E non sempre lavora. È troppo piccolo e la gente ha paura. Ma la sua vera passione è guardare».