di Danilo Arona

Goya-Sabba.jpg“Folclore” è termine che si riferisce a un vasto campo d’azione (canti, ballate, tradizioni contadine, proverbi, leggende, arte) che rappresenta lo specchio fedele della vita popolare. In Piemonte, per vari motivi, da molti anni è in atto un tendenza a mantenere vivi molti retaggi e nuclei folclorici, però un po’ dappertutto è quasi del tutto scomparsa una frase che nella mia infanzia evocava, grazie anche alla sua incomprensibilità, qualcosa di sinistro e di magicamente potente: “battere la fisica”. La sentivo sovente menzionare. Soprattutto nelle campagne circostanti Alessandria, dove qualche volta ci si recava in gita o per andare a trovare chicchessia. La percezione che ne avevo da ragazzino era quella di purissimo mistero, di oscurità, d’insondabilità. Una terminologia, quasi di comodo, per designare tutto quanto non è facilmente spiegabile. Una terminologia che, però, già da ragazzino, mi trasmetteva la precisa idea dell’attiva contiguità dei soggetti interessati, ovvero, laddove si “batteva la fisica”, i fenomeni non si subivano, ma in qualche modo si creavano.
Oggi, quando persino le parole scompaiono, si può proporre un tentativo di definizione. Nel linguaggio popolare piemontese la “fisica” è l’energia usata dalla strega per ammaliare qualcuno o compiere magie in genere. “Battere la fisica”, nel nostro bacino territoriale, diventa però terminologia piuttosto ambigua che si riferisce al potere di certi stregoni “bianchi” di campagna (spesso preti) di sconfiggere tale energia, ma che mantiene anche lo stesso significato primitivo di esercitare in ogni caso lo stesso potere, battendo per terra per mezzo del “bastone di comando”. In altre parole, chi possiede tale potere vive di continuo sul confine tra una stregoneria “bianca” e una “nera”. Vale a dire, di magia ne esiste in realtà una sola.

Il significato, forse originale, della parola “fisica” indicherebbe allora gli aspetti esoterici della cultura praticata di nascosto dalle streghe di campagna. Nel dizionario linguistico di Antonio Silvani, U disiunari du dialet lisandren, alla voce bati la fisica, troviamo ben tre significati: compiere prodigi sovrannaturali; praticare le arti magiche; attaccare il malocchio.
La “fisica” – è risaputo — è per definizione una branchia della scienza. Nel folclore piemontese la “fisica” sembra divenire per estensione il mondo stregonesco, in modo particolare l’arte sconosciuta — quella che si tramanda, a volte chiamata “l’opera”. Ma l’estrema elasticità della frase — una ambigua elasticità, è il caso di sottolinearlo — ne fa quasi una sorta di rompicapo linguistico che getta ombre e luci, tutte da percorrere, su una zona borderline tra scienza, cronaca e folclore. E il concetto, appunto, di confine, compare in una ulteriore divagazione interpretativa, quella di “battere” nel senso di “oltrepassare”, nel senso di superare il limite, la linea, tra la fisicità delle cose terrene e visibili e l’Altro Regno. Quasi, in senso greco, scavalcare la “Fisica”,
Nel libro La mia cara Alessandria di Lucia Lunati leggiamo infatti che in una casa nel pieno centro alessandrino, alle spalle dell’Istituto Magistrale D. R. Saluzzo, si “batteva nottetempo la fisica”, alludendo con questo — forse – alla pratica della seduta spiritica classicamente effettuata con il tavolino a tre gambe. Il rumore della seduta, così inteso nelle ore notturne dagli abitanti dell’appartamento confinante, veniva decodificato come un “battito” più o meno regolare, e assolutamente fastidioso.
Bastava questo per giustificare il concetto di “battere”? Ma non sarebbe il caso di sottilizzare: ancora oggi distratti giornalisti spesso usano frasi inappropriate, confondendo magia e spiritismo. Più d’una volta ho letto nel corso degli anni la frase: in quella casa si facevano “sedute di magia nera”, trasformando così un epifenomeno — che a seconda di chi lo pratica, varia dal gioco di salotto alla sperimentazione parascientifica – in qualcosa di diverso, appartenente addirittura a un’altra sfera culturale.
La Lunati però offre anche altri spunti interessanti. Nella casa in questione, i “battiti” – evidentemente un poltergeist, una fenomenologia d’infestazione — continuarono anche dopo che quegli inquilini traslocarono. Continuarono cioè a farsi udire a casa vuota. E l’autrice riporta così che “in quella casa si continuò a battere la fisica, anche dopo la partenza degli inquilini”. Senza porsi troppi problemi su chi la battesse “la fisica”. Il riferimento implicito — anche se non espresso, quasi autocensurato perché forse troppo grezzo e in odore di superstizione dato il periodo (siamo alla vigilia della seconda guerra mondiale) – è ovvio: gli “spiriti”, di sicuro evocati ma non congedati, continuavano a farsi sentire. Loro stessi in prima persona “battevano la fisica”.
Varrebbe qui la pena di sottolineare che l’alloggio in questione, sede del presunto poltergeist, faceva parte di un antico complesso abitativo che aveva ospitato, sino agli anni precedenti la prima guerra mondiale, l’ex convento delle Orsoline, in parte poi adibito a edificio scolastico. Il sottolinearlo meriterebbe un mio approfondimento che sfocia ovviamente nel ricordo, forse anche un po’ “fantasticato”.
Quando nei primi anni sessanta frequentavo le scuole medie all’Andrea Vochieri, una delle “trasgressioni” preferite era quella di tornare a casa attraverso il dedalo cosiddetto della “Cararola”, un insieme di vecchi cortili tutti collegati fra loro che dalle spalle dell’ex convento poi adibito a istituto scolastico sboccava, dopo un percorso suggestivo e accidentato tra vecchie case (un tempo fabbricati della Borsalino quando ancora non esisteva la fabbrica), direttamente in Corso Cento Cannoni. Era una vera e propria avventura, una sorta di rito d’iniziazione al quale non tutti intendevano sottostare. Più di un amico sosteneva: “Ci sono i fantasmi!” e lo si mandava a quel paese, sepolto da pesanti allusioni alla sua pavidità.
Poi, tra folclore e cronaca (o pseudo tale…) si scoprì che le voci avevano un che di fondato. Negli anni ottanta, quando il labirintico corridoio esisteva ancora, più inquilini dichiararono alla stampa locale di avere udito nottetempo per mesi il misterioso rumore sul selciato non asfaltato “come di zoccoli di legno” più o meno sempre intorno alla mezzanotte. “Una volta ho pure visto di chi si trattava e lì per lì mi ha quasi preso un colpo. Era novembre e mi trovavo sul mio terrazzino a fumare una sigaretta, quando sento questi rumorosi passi ormai familiari al mio orecchio e scorgo una figura biancastra ed evanescente, senza dubbio una donna. Sai, non ho provato nessun tipo di paura. Anzi, mi sono sentito dentro un sentimento del tutto positivo. Ma tutti quelli che abitano nella Cararola sanno di chi si tratta. E’ la Suclen, lo spirito inquieto di una suora che chissà quando fu murata viva in una segreta del Convento delle Orsoline in via Lodi. La imprigionarono perché fece come la monaca di Monza e un bel po’ di altre sue colleghe. Tradì i voti di castità per la carne, forse con un cuoco o uno stalliere. Una volta non scherzavano. Comunque da allora, si dice, vaga senza pace, ma senza odio, per questi vicoli. Forse qui ha conosciuto l’amore terreno che l’ha condotta alla rovina. O forse questa che è una delle zone più antiche di Alessandria è tutto ciò che la lega a quel passato dal quale non vuole staccarsi”.
Riferisce lo studioso alessandrino Franco Castelli che storie analoghe si sentono un po’ dovunque. Ad esempio, a Novi Ligure, “favoleggiavano le nostre brave mamme di una monaca in abiti bianchi, la fronte grondante sangue, in una mano la lampada, anima inquieta alla ricerca della sua pace”. E, senza inoltrarci nelle ricerche di archivio, ricordo che durante la mia adolescenza trascorsa a vagabondare nel rione Pista si vociferava di una monaca che, per ragioni identiche a quelle della Suclen, si era impiccata dentro il monastero conosciuto allora come Villa delle Rose e di notte il suo spirito tornava a terrorizzare le consorelle. Ma Franco Castelli riferisce anche lui di fenomenologie poltergeist avvenute in una casa di via Lodi, proprio all’interno dell’ex Convento delle Orsoline durante gli anni precedenti la prima guerra mondiale. Come c’informa lo studioso nel giornale locale “La Città” (marzo 1997), nell’alloggio abitato dal canonico Volante, professore di fisica al seminario, “uomo colto ma stravagante”, in certe ore del giorno, ma soprattutto di sera, si udiva un gran frastuono: “colpi ben assestati, oggetti trascinati e lasciati cadere di colpo, ruote che giravano o macinini che cigolavano”. Ed eccoci alla conferma, quanto mai precisa e circostanziata, dei ricordi di Lucia Lunati e all’equazione, ambiguamente suggestiva, del verbo “battere” inteso come “baccano”, magari baccano dall’altro mondo…
“Una volta, proprio sotto la mia finestra” aggiunse il mio interlocutore della Caraola “un gruppo di bambini giocava sotto il mio terrazzo, facendo un baccano insopportabile. Quanto meno non lo sopportavo io, perché avevo un tremendo mal di testa e provavo soltanto la voglia di stendermi nel divano con un po’ di pace nelle vicinanze. Allora, chissà perché, mi venne in mente di chiamare in mio soccorso la Suclen. Mentalmente recitai ‘Suclen, aiutami tu, fai scappare questi pestiferi marmocchi, ma senza spaventarli troppo’ e con mia grande sorpresa, da lì a pochi secondi, vi fu il silenzio. Naturalmente si trattò di un caso, di una fortuita coincidenza. Però, eravamo in ottobre e si andava verso l’oscurità, mi affacciai e, pur senza vedere nulla, udii nel cortile comunicante che è nascosto alla mia vista i ben conosciuti passi sul ciottolato. Forse non si trattava neppure di lei. Magari era una vicina che dal mio terrazzo non ero in grado di scorgere. Però nel mio ricordo questo è un evento magico. O forse di magico c’è stato soltanto il mio pensiero. Comunque tutti qui speriamo che la Suclen resti con noi ancora per tanto tempo. Che vuoi, le siamo affezionati”.
Ed eccoci a un ulteriore — quarto? – significato. Battere la fisica come sinonimo di pratica spiritica e d’infestazione fantasmatica.
I due termini chiamati in causa diventano così, nell’applicazione del linguaggio parlato, i poli di una splendida e quasi inestricabile ambiguità. Andiamo a verificare la definizione del dizionario Palazzi, laddove si fa riferimento all’origine greca del termine “concernente la natura e i suoi fenomeni”. Il Palazzi la definisce come la scienza che studia le proprietà dei corpi e le leggi dei fenomeni che modificano il loro stato e il loro movimento. Parrebbe quindi, a prima vista, che nel folclore il recupero sia pressoché corretto, almeno nel riferimento generale. E’ sul termine “battere” che le direzioni dimostrano — come abbiamo appena visto – il potere di variare a seconda delle circostanze di riferimento: perché la pratica delle arti magiche è anche “piegare la natura al proprio volere per provocare fenomeni non naturali”. Quindi “battere” nel senso di sconfiggere, ma “battere” anche nel senso di “percorrere”, “frequentare”, addirittura “frequentare da conoscitori”… Estremizzando, “battere la fisica” per deformarla o trasformarla in qualcosa d’altro.
Ma battere, inoltre, nel senso di picchiare. Nel caso di specie, picchiare la terra con il bastone del comando. Quella terra che è primario simbolismo della “fisica”.
Il “bastone” del comando è una grossa bacchetta magica, un segno di potere nel mondo della “fisica” piemontese. A Pragelato, le streghe prima di morire gettavano il bastone tra le vie del paese perché qualcuno lo raccogliesse. Infatti le masche, giunte al termine della vita, dovevano lasciare un oggetto in eredità: chi il gomitolo, chi il mestolo, chi la scopa, chi il libro del comando, chi il bastone; ogni oggetto aveva la proprietà di trasformare in strega chi ne entrava in possesso. Molto spesso, per motivazioni anche logiche (ad esempio, l’estrema unzione), l’eredità stregonesca era raccolta da un prete e non a caso, tanti anni fa, si udiva nelle campagne che certi preti “battevano la fisica”.
Il bastone rappresenta lo scettro del potere, ovvero secondo gli alchimisti il “coagulo”, lo strumento che attira (dalla terra, dal cielo, dall’aria) o amplifica le influenze di pertinenza (benefiche o di segno diverso) e le ritrasmette sotto forma di pura energia vitalizzata. Il bastone tocca, “traccia”, batte, percuote. Una sua variante che si ricollega a uno dei significati della frase è la bacchetta rabdomantica, generalmente in legno di nocciolo, in grado di amplificare le onde magnetiche le cui reazioni indirizzano il radioestesista. Da citare anche la bacchetta di Hartmann (che ovviamente non c’entra più nulla con il folclore stregonesco) che viene utilizzata per captare presunti nodi geografici negativi al fine di evitare di soggiornare e dormire in corrispondenza di essi, in quanto nocivi per la salute e l’equilibrio psicofisico: la mimica professionale di chi la usa è comunque sempre quella del “percuotere la terra”.
Alcuni saggi contadini, generazione in via d’estinzione, amano anche dire che “la fisica” non ha niente a che fare con il mondo stregonesco e appartiene a ciascuno di noi, se troviamo la strada per esplorare e conoscere il nostro mondo interiore. Donato Bosca, ne Il libro del comando, scrive che “qualcuno, nelle campagne, se n’era servito in modo stupido facendo apparire davanti agli occhi dei più creduloni cose che in realtà non sussistono, fuochi che bruciano senza consumare legna, ruscelli, burroni, strade e sentieri che poi svaniscono nel nulla, cavalli bianchi che sbarrano la strada, galli che si mettono a volare alto come se fossero aquile. Secondo mia nonna, però, il vero miracolo consiste nell’usare la ‘fisica’ per vivere in pace con se stessi e con il prossimo, cercando e magari trovando l’armonia, la serenità e la magia della vita.”