di Fabrizio Lorusso

Matteo(Small).JPGNel pomeriggio dell’11 giugno abbiamo perso un amico vero. Penso che qualunque cosa possa scrivere oggi non sia adeguata né completa ma ci provo senza troppe pretese. Matteo Dean, Migrante. Giornalista. Professore di Linguacultura Italiana. Què màs? Luchador Social. Attivista. Le liste sono comunque inutili, insufficienti. Per molti di noi il Messico è qualcosa di strano, surreale, improbabile, piacevolmente pericoloso, un posto in cui perdersi e riscoprirsi. Ma è anche violenza e morte, è rottura dell’incanto e caduta libera nel vuoto quando meno te l’aspetti. Le lezioni d’italiano, il lavoro, il sole forte, una mattina, i pettegolezzi, gli sguardi, le donne, gli uomini, il caffè, l’accento di Trieste, il milanese, il romano, cose semplici. Ma anche il caso e l’inspiegabile. Come un pranzo alle 4 o alle 5 del pomeriggio, sempre tardi visto che qui l’orario non importa. Matteo stava arrivando da lontano, con la moto, per essere dei nostri. Una pasta un po’ scotta e un mezcal per buttarla giù. Meglio di niente.

I corsi del sabato all’Istituto Italiano di Cultura sono di 5 ore filate e lasciano studenti e professori affamatissimi e stanchi. Questo semestre io non faccio corsi il sabato ma l’11 ho sostituito Matteo che era impegnato all’incontro degli italianisti a Toluca. Se dalla zona di Coyoacan vai a nord e poi a ovest, scali due montagne e superi decine di asettici grattacieli, dopo 25 chilometri arrivi al casello dell’autostrada per Toluca, nella zona di Cuajimalpa, ma sei comunque ancora dentro a Città del Messico. Non finisce mai. Matteo stava là, aspettava in fila di poter scendere dalla montagna e tornare nel cuore della città. Freni rotti, un camion maledetto, distrazione di un autista 24enne, non si sa, e poi la corsa.
Tutti a correre verso il cielo di smog, chiamare all’impazzata, sembra uno scherzo, come il Messico a volte. Un brutto scherzo. Acceleriamo, in gruppo, scalando il monte disumano verso un ufficio, la questura, il tribunale, o come si chiama? Ci siamo ma ancora coi dubbi, le speranze. Spesso tutto è come il Messico, poco vero, strano, ambiguo. Invece sta volta non si scherza, non si beve, non si ride, gli sbirri zitti anche loro, arriva la certezza.

L’eterno migrante, il tema di chi se ne va e delle terre di frontiera. Anche se poi il Messico era l’epicentro di ogni scossa, la base. Lo è per molti di noi. Credo lo fosse anche per Matteo. Come la comunità. L’autonomia. Dallo zapatismo del Chiapas a quello metropolitano e nella vita. Ne parlavamo spesso.
Lui è quello che gli altri ammirano e che aiuta, ma per davvero. Quello che le fa le cose. Quello che s’incazza sul serio ma poi sa chiedere scusa. Quello che l’han buttato fuori dal Messico ma che ha dato uno schiaffo al funzionario ingellato dell’ufficio migrazione e, una volta scesi dall’aereo a Roma, gli ha promesso che sarebbe tornato indietro per restare e raccontare al mondo che cosa succede nei suoi mille anfratti dimenticati. Il biondo. Bruciato dal sole tropicale alla Marcha por la Paz y la Dignidad (scarica Mp3 della sua intervista in merito) dell’8 maggio, quando ci siamo incontrati all’ultima manifestazione contro la militarizzazione e la guerra al narcotraffico e la violenza. E’ andato tutto benissimo quel giorno. La marcia continua ancora, oggi sono tutti a Ciudad Juarez per la pace. Ma in altre annate, in altri luoghi, i problemi non erano di certo il sole o la calura. Come in Italia, in Germania, a Genova, a Cancun, ai G7, G8 e G20, in Chiapas, in Colombia e a Guadalajara, dove invece la gente si doveva difendere da ben altre minacce. E nel Messico della violenza servono voci attive per cui Matteo ci ha raccontato tutto questo anche sulle pagine della Jornada, del Manifesto e tanti atri.
In tanti abbiamo imparato da lui a cambiare e a lottare, a essere sicuri di poter fare qualcosa concretamente per gli altri. Per questo c’è, presente. Fuori dalla retorica. Ha tradotto all’italiano per Carta-Ya Basta il libro Senso Contrario del giornalista messicano Luis Hernandez Navarro de La Jornada. Insieme all’editorialista c’era Matteo alla presentazione della versione italiana del libro realizzata durante uno degli splendidi “mercoledì in biblioteca” di Dianora, la nostra “consigliera culturale” all’istituto italiano. E’ una collezione di storie di ribelli contemporanei, personaggi noti e meno noti che sono esemplari e “la loro sopravvivenza quotidiana è un gesto eroico contro l’assurdità”. Sono vite che trasmettono ispirazione.
Ieri abbiamo salutato il nostro amico, tutto il giorno. E’ arrivata molta gente. Poi la sera, soli, ciascuno a casa sua gli avrà detto qualcosa. Allora scrivo, è una soluzione molto personale. Mentre lo portavano via s’è intonata Bella Ciao, la conoscono tutti, italiani e messicani, perciò non muore mai. Con gli amici, con la “famiglia” di compagni e migranti — termini che Matteo utilizzava spesso — con alcuni colleghi docenti dell’istituto l’avevamo difesa dagli attacchi della Coca Cola Company che la stava usando per i suoi spot in mezza America Latina. Firmarono in tanti. Tante fatiche e discussioni ma ne era valsa la pena. Era così anche quando si andava in moto al “reclusorio oriente” di Santa Martha Acatitla a dare lezioni d’italiano (anche se era sicuramente di più quello che s’imparava) ogni venerdì pomeriggio: venti chilometri di delirio stradale dal sud della capitale al quartiere infinito di Iztapalapa. Sei professori che si alternavano a due a due. La catarsi e il lavoro di squadra: noi saremo tutto. Ci sarebbero tante altre pagine da scrivere per ricordare Matteo ma mi fermo. Per ora questo è il mio saluto.