di Alessandro Bresolin

HamidSkif.jpgStazione delle corriere di Amburgo, ore 07.55, fine marzo 2005. Stavo finendo di tradurre un libro di Hamid Skif e, per dare un quadro più completo dell’autore, avevo concordato con lui e con l’editore un’intervista: un viaggio di oltre quindici ore e diversi gradi sotto zero, per evitare di farla via mail. Al mio arrivo, sotto la neve, mi viene incontro un uomo alto, dai tratti mediterranei, intabarrato e con la testa avvolta da un sorta di turbante. Era Hamid. Cominciammo a parlare a ruota libera, schiettamente:
– Sembra un gioco del destino, due uomini del sud come noi che si incontrano nel gelo di Amburgo. – esclamò divertito al bar della stazione, sorseggiando un pallido caffé. Da subito scoprii un uomo fiero e ironico, che, costretto a fuggire dall’Algeria con tutta la famiglia per mettersi al riparo dalla violenza dei fondamentalisti, aveva scelto di rifugiarsi in Germania, una scelta scomoda ma necessaria.

Avrebbe avuto la vita molto più facile andando ad abitare in Francia, in quanto autore francofono, ma per vivere e lavorare lì avrebbe dovuto accettare alcune condizioni, prima tra tutte adottare un punto di vista più morbido nei confronti del passato coloniale francese. Questo per dire come Hamid fosse una persona che ha sempre pagato molto per la propria libertà e indipendenza. In Germania si trovava benissimo, e aveva raggiunto un grado di distanza dal suo passato algerino che gli consentiva di lavorare a un ritmo impressionante. Aveva una voce dura e ipnotica al contempo, con un vero talento da cantastorie.
Ho vissuto nel suo modesto appartamento amburghese per tre giorni. Sulla porta del suo studio una foto di Albert Camus con una sua frase:

ceux qui manquent de courage ont toujours une philosophie pour le justifier

Personaggio atipico, esule tutta una vita in patria, la finì in esilio, una tematica questa che rieccheggia nei suoi Poèmes de l’exil. Una sottile ironia, anche nel dramma più nero, attraversa le sue opere. Era semplicemente convinto, in base alla sua vita vissuta, che anche nella situazione più disperante le persone trovino comunque dei particolari, dei dettagli, su cui poterci poi scherzare a crepapelle. Non concepiva dramma senza risata. E questo era il filo conduttore de La Principessa del deserto di mezzo, il libro che stavo traducendo. Un scrittore come lui, dopo diversi libri di denuncia, (come Monsieur le president, un romanzo epistolare) avrebbe potuto scrivere un libro “serio” sul dramma algerino, un altro romanzo o un saggio sociologico, invece con la storia della principessa Selma aveva scelto di affrontare quei fatti così vicini a lui attraverso una selvaggia e delicata fiaba, che spiegava la tragica ascesa del fondamentalismo con spirito iconoclasta e surreale.
Da Amburgo sono ripartito con tre cassette da un ora da sbobinare, tre cassette che non possono riassumere tutte le sigarette, le birre, i chilometri per la città, le attività nel suo studio di periferia e i bar dove il personaggio, infine, diventa lui stesso.
Il 20 marzo scorso, con una cerimonia interreligiosa si sono svolti, ad Amburgo, i funerali di Hamid Skif, deceduto il 18.

Hamid Skif (1951-2011), nato a Orano, poeta, scrittore e giornalista. A vent’anni i suoi versi vengono inseriti nella Antologia della giovane poesia algerina di lingua francese curata da Jean Sénac. Cominciò a scrivere per “La République” e nel 1973 fu arrestato per avere pubblicato un reportage sui maltrattamenti della polizia. Nel 1978, una sua sceneggiatura venne giudicata “controrivoluzionaria” dalla TV di Stato. Attivissimo nel mondo giorno giornalistico e nelle battaglie per la difesa della libertà d’espressione, nel 1992 è stao tra i fondatori della Associazione dei giornalisti algerini; nello stesso anno sfuggì a un primo attentato. Dal 1997 viveva ad Amburgo, dove animava letture, conferenze, e dove dirigeva l’associazione Alifma, che aveva l’obiettivo di creare un ponte culturale tra i popoli arabi e quelli germanofoni. Oltre a La principessa del deserto di mezzo (ed. Spartaco, 2005), di lui in Italia è stato pubblicato La géographie du danger, con il titolo La geografia della paura (ed. Barbera, 2006).
Hamid Skif è deceduto ad Amburgo il 18 marzo 2011

ARTE, AMORE, ALGERIA

Intervista di Alessandro Bresolin con Hamid Skif (Amburgo, 3 marzo 2005)

Sei nato a Orano nell’ultimo periodo dell’Algeria coloniale, com’era il contesto in cui sei cresciuto?

Orano è una bella città con gente aperta e simpatica, la culla del raï per intenderci, ma per tutta l’infanzia fino al 1962, anno dell’indipendenza, ho convissuto con la guerra. Come diceva l’amico poeta Youssef Sifti assassinato dagli integralisti, «apparteniamo a una generazione che ha poppato la guerra con il latte della mamma». La maggior parte degli algerini viveva in una situazione di apartheid di fatto, nelle scuole i maestri erano francesi e l’arabo era vietato. Se mi chiedono perché scrivo in francese rispondo che, avendo seguito la scuola francese, ero innamorato della mia maîtresse: potevo sedurla solo nella sua lingua! I miei genitori volevano che imparassi l’arabo, il Corano, e ho avuto molti conflitti con mio padre per questo. Come molti ragazzi ero diviso tra due culture. Alle sette andavo alla scuola coranica, alle otto a quella francese, poi alle quattro e mezzo tornavo alla scuola coranica. Da piccolo non capivo che l’insegnamento era una lotta per evitare lo sradicamento culturale. Mio padre si era impegnato molto giovane per l’indipendenza e a vent’anni, alla vigilia della seconda guerra mondiale, è stato torturato e condannato a vent’anni per aver scritto uno slogan su un muro. Dopo tre anni di prigione, allo sbarco degli americani gli hanno dato da scegliere se scontare diciassette anni nell’altipiano o andare a combattere con la divisa francese. Al termine della guerra fu libero, ma i suoi guai continuarono prima e durante la guerra d’indipendenza. Venne arrestato altre volte dai francesi, ma a rivoluzione conclusa era molto deluso per com’era stata gestita. Ricordo una discussione avuta con lui nel ’66, quando gli chiesi di un politico algerino mi rispose: «non parlarmi di chi ha le braccia immerse nel sangue fino alle spalle». Una condanna senza appello.

Il tuo esordio letterario è stato nel 1971, quando Jean Sénac ha inserito alcune tue poesie nella celebre «Antologia della nuova poesia algerina».

Rispetto agli autori algerini affermati Sénac aiutava molto i giovani, era l’unico a investirsi per loro senza pretendere di esserne padre spirituale. L’ Antologia raggruppava una generazione impegnata, ricca di speranze e ha venduto 25.000 copie, un fatto straordinario per la poesia. La diffusione in Algeria però era vietata, nonostante Sénac avesse difeso l’indipendenza del paese al contrario di altri, come Camus, cui era molto legato. Molto impegnato politicamente, Sénac era un uomo straordinario, perché bisogna essere davvero coraggiosi per dichiarare la propria omosessualità pubblicamente in una società e in un regime maschilista e bigotto. Viveva poveramente con i soldi della trasmissione radiofonica che conduceva, Poésie sur tous les fronts, e aveva una straordinaria visione delle cose. La sua storia sembra una preveggenza di quanto sarebbe successo in Algeria.
Il 30 agosto 1973, quando Jean Sénac è stato ammazzato in circostanze ancora misteriose, la polizia ha arrestato tutti i suoi amici tra cui me. Non era a causa dell’assassinio di Senac che mi tenevano in prigione, ma per la mia attività di giornalista, per un articolo sulla tortura e i maltrattamenti inflitti alla popolazione pubblicato su “La République”, per cui lavoravo. Già da tempo ero sotto stretta sorveglianza, perché dall’età di 17 anni ero conosciuto come oppositore. Mi fecero vedere il mio dossier composto di annotazioni sui bar che frequentavo, sulle mie amicizie, e sono stato costretto a recitare una mia poesia inserita nella Antologia di Sénac, Pim Pam Pum, in ginocchio con un revolver sulla tempia. Dopo gli arresti del ’73-74, sotto Boumediene, avevo perso ogni cosa e decisi di lasciare l’Algeria. Sono andato a Parigi, ma quando ho visto che la sinistra francese era tutta per Boumedienne, che quello che dicevo era malvisto e dovevo starmene zitto, ho deciso di tornare a lottare nel mio paese.

Quali sono stati i limiti della guerra di liberazione algerina?

È stata condotta da un cartello di partiti populisti, eredi di un’ideologia elementare del «con me o contro di me». Si pensava che alla fine, poiché la guerra era stata condotta da un Fronte, si sarebbe discusso perché i partiti riprendessero il loro ruolo sulla scena politica. All’epoca però l’esperienza aveva mostrato agli algerini che per liberarsi bisognava unirsi, avevano esempi come il Vietnam, la Cina, paesi liberatisi dal colonialismo attraverso organizzazioni forti che inquadravano la popolazione al grido «un solo partito un solo popolo». Il partito unico doveva fare da lavatrice, centrifugare le tendenze, ma l’ideologia unanimista del FLN non accettava voci discordanti. In Algeria eravamo eredi di quattro secoli di autoritarismo: prima l’occupazione turca con l’impianto della mentalità ottomana fortemente autoritaria, poi i francesi per quasi un secolo e mezzo con un sistema giacobino anch’esso molto autoritario. Dunque potevano riprodurre solo autoritarismo, non avevano altre forme di pensiero. Con, in sottofondo, un sistema patriarcale molto forte. Patriarcato e autoritarismo si sposano bene e li ritroviamo chiaramente nella politica dell’FLN dopo l’indipendenza, accompagnati da una forte personalizzazione del potere.

In Algeria, da oppositore, di fronte al propagarsi dell’estremismo islamico.

Ricordo un’opposizione contro due violenze che crescevano, non separabili: quella islamista e quella dell’autorità, dei militari. Ciò che rimprovero al governo algerino, come a molti regimi nazionalisti arabi, è di aver flirtato a lungo con l’integralismo. Il governo ha sempre rifiutato di troncare del tutto con loro, un giorno stava con la sinistra contro gli integralisti e un’altro con gli integralisti contro la sinistra. Giocava di sponda per restare al potere in una posizione tale da non temere aggressioni.

Si può dire che in Algeria abbiamo assistito ad una guerra civile contro il fondamentalismo, negli anni novanta?

Una guerra civile presuppone che una parte della società lotti contro un’altra parte di essa. Questo non è il caso dell’Algeria, dove si trattava di gruppi armati legati a un partito, a una tendenza politica determinata. Le elezioni annullate del ’91 erano un paravento, perché comunque avevano sempre sostenuto che anche al potere avrebbero condotto una guerra contro la popolazione, per redimerla. Lo stato ha evitato che ciò accadesse. Possiamo discutere sui metodi adottati perché anch’io non ero d’accordo e ho le mie critiche, ma se avessero vinto quei fanatici ora avremmo milioni di morti, anziché 100-200.000. A fasi alterne sono stato perseguitato dal regime algerino, ma devo essere onesto, nessun soldato è mai entrato a casa mia per violentare e uccidere mia moglie o le mie figlie. Non hanno mai sgozzato mio cugino perché portava il mio cognome come hanno fatto gli integralisti. Ho sepolto solo la sua testa, non abbiamo mai ritrovato il corpo.
Costruire una democrazia con i fondamentalisti? Quando gli si chiede come intendano ripagare le donne che vogliono eliminare dal mondo del lavoro, rispondono «con le risorse petrolifere». Discorsi populisti e semplicistici che affascinano a destra e sinistra. Gente di sinistra oggi dice che gli integralisti sono una forza rivoluzionaria perché parlano alle masse. Ma guardate cos’hanno fatto in Iran dopo la rivoluzione, hanno sterminato ogni opposizione. I mollah possono riunire migliaia di persone, ma restano una forza retrograda.

In che modo «l’arte è destinata a inventare la verità»?

Wolfagang Hildesheimer intende dire che l’arte ha la funzione essenziale di dire la verità, ma la verità è sempre stata inventata. Musulmani cristiani ed ebrei credono in un unico libro, la Bibbia. Il Nuovo Testamento e il Corano sono dei succedanei della Bibbia, dei complementi. D’altronde Maometto diceva di essere venuto solo a correggere ciò che era stato trasmesso a Mosè e Gesù. Ecco l’arte! Ricerche linguistiche, antropologiche e archeologiche provano che la Bibbia è un’invenzione, un condensato di storie riprese, che rimontano a migliaia di anni fa e di cui una parte viene dall’India. È un grande best-seller su cui molti autori hanno lavorato. Ecco, l’arte di raccontare storie è diventata una delle verità essenziali del pianeta. Ma oggi si può dire a qualcuno di estremamente credente che Corano, Bibbia e Nuovo Testamento sono un seguito di altre storie, senza che ti spacchi il muso? Non lo accetterebbe mai, eppure è arte diventata verità.

Il romanzo si apre con un brano introduttivo, tratto da un articolo che riprende una notizia apparsa sul giornale iraniano «Kayhan».

Ho avuto un sentimento premonitore a proposito della battaglia contro i cani! In quei giorni ero andato a Parigi per discutere con l’editore, avevo consegnato qualche mese prima la storia della Principessa e la citazione ancora non la conoscevo. Compro il giornale Libération e casco incredulo su un articolo in cui, tre anni dopo la stesura del racconto, vengo a sapere che un mollah ministro della Giustizia in Iran conferma ciò che avevo scritto!

Nei tuoi romanzi c’è sempre un oscillare tra realtà e finzione.

Questo romanzo apparentemente è una finzione, ma non lo è. Per costruire uno dei personaggi principali, Solimano, mi sono ispirato al feroce califfo fatimide Al Hakim, che fece abbattere il Santo Sepolcro a Gerusalemme. Al Hakim ha effettivamente fatto la guerra alle mosche, ai cani e alle donne, ha vietato di lavorare durante il giorno, finendo per andare in moschea dichiarandosi Dio. È stato assassinato dalla sorella, che ha organizzato l’omicidio perché il potere non sfuggisse alla famiglia. Da loro discendono i drusi, che abitano qualche vallata del Libano e ancor oggi aspettano il ritorno di Al Hakim. Per cui non ho inventato molto, Solimano fa parte della realtà. L’ho inserito nella storia perché rappresenta la caricatura dell’integralista, gente che non accetta si rida di loro, che non sopporta di essere trasformata in guignol.

Il giovane studente di teologia Solimano appare come l’uomo della provvidenza a banchieri e multinazionali, fino a quando non è più funzionale.

È chiaro che gli interessi delle grandi società petrolifere sono gli stessi degli integralisti. Il principio degli integralisti è ultraliberale, affari a qualsiasi prezzo, e conviene perfettamente alla società occidentali. In nessun regime integrista, dall’Afghanistan all’Arabia Saudita, abbiamo visto svilupparsi fabbriche. Come dicono i fondamentalisti in Algeria, «il commercio è un dono di Allah». Si consuma senza occuparsi di produrre, si commercia e non si industrializza il paese. Dall’Afghanistan all’Arabia Saudita, i sistemi installati dai mollah prevedevano l’arricchimento della casta religiosa mentre il popolo doveva cercare il paradiso in cielo, non in terra. Non solo hanno opinioni religiose demenziali, ma non concedono alcuno spazio all’evoluzione della società. Per questo non c’è sistema sanitario, protezione sociale, dell’infanzia, delle donne, dei poveri, e per questo multinazionali e società petrolifere incoraggiano l’installarsi di regimi autoritari e integralisti che gli lasciano mani libere per vendere armi, prendere petrolio a basso costo, inondare il mercato dei loro prodotti.
L’esperienza algerina ha dimostrato che gli integralisti erano sostenuti dall’occidente, a tutti i livelli. Non bisogna dimenticare che Londra è la grande piazza finanziaria degli integristi, e ora Blair scopre il terrorismo, mi vien da ridere! A Londra i fondamentalisti raccoglievano soldi, facevano propaganda e rivendicavano via fax assassinii e massacri commessi n Algeria. Anche le autorità dell’Unione europea a un dato momento preferivano dare lezioni di democrazia al governo algerino e dialogare con quelli del FIS piuttosto che con un regime nazionalista. Quindi bisogna dire che l’integrismo è combattuto soprattutto nei paesi musulmani ed è contro i musulmani stessi, e che questa macchina da guerra è stata sviluppata con il sostegno implicito o esplicito dei governi occidentali.

Puoi fare un esempio riguardo a queste connivenze?

Poiché gli integristi erano molto ben sistemati qui, anni fa ho spedito una lettera aperta al presidente del Bundestag chiedendo come potessero accettare che dalla Germania, una democrazia, partissero fax in cui si rivendicavano stragi di bambini, donne, etc, senza che nessuno facesse nulla! Mi ha risposto dicendo “non ci riguarda, dal momento che i fatti non accadono qui”.

Il racconto rovescia alcuni cliché, come lo stereotipo della donna musulmana sottomessa.

In questa parabola porto le situazioni all’estremo. La Principessa Selma è quasi ninfomane, immagine della donna libera che sceglie con chi stare. Gli uomini glieli cerca un vecchio pagliaccio centenario innamorato platonicamente di lei. Zembreto evoca l’amore cortese, introdotto in Europa dalla Spagna musulmana. Selma soccombe a Solimano solo perché s’innamora follemente di lui ma con i suoi amanti è quasi un’orca. L’ho immaginata vecchia di secoli perché appartiene a una storia millenaria, che riguarda tutta un’era della civiltà araba. Ci sono molti stereotipi sulla donna araba sottomessa che non sono veri. Fino a qualche tempo fa le donne algerine avevano amanti come i loro uomini, ed era considerato normale. Oggi le femministe americane e occidentali riscoprono Cheicha Remiti, cantante raï algerina degli anni Cinquanta che ha raccontato il sesso e l’amore in un modo estremamente crudo, violento e diretto. Non capiscono come potesse essere così libera e sensuale.

Il protagonista si presenta come apprendista cantastorie, e il racconto riproduce quel tipo di ritmo narrativo.

C’è una narrazione dall’architettura tipicamente araba con numerosi personaggi che si introducono di seguito, situazioni che si inscatolano una sull’altra e capitoli che s’infilano come perle in una collana. Un buon cantastorie deve far superare la barriera tra realtà e fantasia al pubblico. La sfida consiste nel trasportare la gente in uno spazio cosmico senza che se ne renda conto. Solo dopo, quando lentamente comincia a tornare coi piedi per terra, si deve accorgere d’essere stato altrove. Questa è la sfida e cerco di realizzarla, non sono un teorico della letteratura con piani prestabiliti e strutturati. Lavoro con la fantasia, raccontando le mie preoccupazioni con sentimento.