di Alberto Prunetti

maradona.jpg[Dopo l’intervento di Filippo Casaccia, replico pubblicando le mie memorie calcistiche, precedute da un breve resconto della telefonata che ho avuto lo scorso 3 settembre con Diego Armando al termine di Argentina-Germania, mentre mi trovavo a Arcore per una serata di asado rebelde e tango argentino] A.P.

Con Diego Armando ci siamo conosciuti a Buenos Aires. Ci trovavamo sempre in quel tavolo sotto la vetrata della Giralda, il café di calle Corrientes. A volte passava anche Charly Garcia. Si chiacchierava del più e del meno, tirando a far tardi.
Quando l’Argentina ha perso contro la Germania, sabato scorso, mi è arrivato un sms da un cellulare e il numero cominciava con +54. Era un numero argentino, un sms che diceva: “Resta solo piangere.” Non segno mai i numeri in rubrica, ma c’erano solo due ipotesi. O era el “tano” Dante, il mio amico fotografo di Baires, oppure Diego Armando. Ho pensato che fosse Diego quando l’ho visto piangere in tv.


Allora l’ho chiamato e el Pibe era davvero giù. Per farlo ridere, gli ho detto che ero a Arcore, che avevo guardato la partita lì perché mi avevano invitato a presentare quel libro che avevo scritto sull’Argentina, di cui parlavamo spesso ai tempi della Giralda, nei pressi della villa di Coso.
Quando gli ho detto Arcore, Diego mi ha detto: _Questo mi ricorda qualcosa.
E io: _Sì, quel tipo che è sempre in televisione, gli dico.
E Diego: _Si, quello sempre in televisione, como se llama… Jimmi el fenomeno.. un voludo total”.
_No, Diego, ti confondi…. Jimmi il fenomeno è quello dei film di Bombolo, quello che si prende gli schiaffi di Thomas Milian di continuo.
Non potevo dirgli il nome del padrone della villa di Arcore, perché ormai se fai i nomi rischi di andare in galera.
Così gli ho detto: _Siamo tutti col bavaglio, come in Argentina nel ’78. Cercavo di cambiare discorso, perché se parli male di qualcuno importante le intercettazioni magari le fanno ancora.
Ma lui non capiva: _ Ma perché Jimmi el fenomeno… tanto importante en Arcore?
_Viejo, escucha, gli dico spazientito, questo è il più importante in Italia, altro che Jimmi.
E Diego: _Mira, yo me acuerdo…, quello io me lo ricordo, non possono averlo fatto nient’altro che presidente del Carnevale di Arcore.
Io cosa dovevo dirgli a Diego? Non potevo deluderlo. A Arcore sono andato a trovare gli ultimi comunisti, libertari e resistenti, quelli che hanno lavorato una vita alla Piaggio, quelli che stanno nelle case popolari, nelle palazzine, e da un lato hanno la villa di un padrone brianzolo e dall’altra quella dell’utilizzatore finale dell’Italia e un po’ più là su un colle quella di sua moglie. E intanto la Lega gli organizza sotto il balcone la sagra della polenta padana. Non glielo volevo dire che non si trattava di Jimmi il fenomeno. Che dovevo dirgli? Che qui sognano tutti Bossi, a parte un vecchietto che mi dice che “quello lì” lo chiuderebbe nel cinema Apollo, che sta proprio davanti alla villa, e un tempo era il miglior cinema porno della Brianza, che era il sogno di tutti gli erotomani comprar casa vicino all’Apollo… e il vecchietto continua dicendo di quell’altro che a forza di andare all’Apollo gli è venuta la priapite e dice sempre di avercelo duro, ma lui lo rimanderebbe all’automobil-club di Gallarate, che nella sua vita ha lavorato un anno solo, invece di far venir l’orchite a noi… …neanche potevo dirgli queste cose, perché ormai ti denunciano per niente in Italia…
Ma Diego non è un bischero e l’ha capito da solo come stanno le cose:
_Mira, Albertito – Diego Armando mi chiama sempre così -, se davvero gli italiani si son fatti mettere i piedi in capo da questo voludo… andà a cantarle a Gardel!
Quando mi chiede se era della P2, non devo togliermi il bavaglio per annuire mugolando.
Allora si imbestialisce: _Ma come?
La voce di Diego ormai è serissima:
_Albertito, yo tengo memoria, y me lo voy a recordar mas que nunca…
E qui comincia a parlare della P2 . La P2! Licio Gelli che arriva con Perón in aereo, per sostenere il progetto repressivo in Argentina. E dopo poco scoppia un colpo di stato e fanno desaparecer 30mila persone. E migliaia avevano un cognome italiano! Il peggior genocidio di italiani dal dopoguerra… _E quello lo hanno fatto presidente del carnevale di Arcore? Mi chiede. E continua:
_Allora se sei da quelle parti, con perdon de las damas, portagli un messaggio… perché se voi in Italia ormai non potete dire nulla, io dico quel che voglio, perché yo soy blanco o negro, gris no voy a ser nunca en mi vida….
_Qual è il messaggio di Maradona, gli chiedo a Diego Armando, a cui piace quando gli fai una domanda in terza persona:
_Que la chupen! Que la siguen chupando.
E allora Diego spegne il cellulare e comincia a piangere davanti alle televisioni di mezzo mondo, triste solitario y final per quest’Italia che continua a perdere da tanti anni.

I MIEI TRE GOL
di Alberto Prunetti

Ho cominciato a dar calci al pallone per sopravvivere alla legge del più forte. Sono cresciuto in una cittadina che raccoglieva tutti i figli dei figli dei minatori dell’entroterra maremmano. I nostri genitori, lasciate le miniere delle Colline Metallifere, si erano spinti a Follonica per lavorare nelle acciaierie di Piombino o nel polo chimico di Scarlino, quello dei fanghi rossi. Noi ragazzetti giocavamo a pallone con spirito darwiniano. Innanzitutto il campo. Niente erba o terra. Un campo d’asfalto. Cadere significava se non morire, almeno rovinarsi. Io sono riuscito a cadere una sola volta e mi sono guadagnato una frattura al metacarpo guarita in 90 giorni tra gesso e fasciatura stretta. Aggiungo solo che il bastardo che mi ha falciato non era un avversario ma un compagno di squadra a cui non avevo passato la palla. Ancora oggi è uno dei miei migliori amici.
Questo campo d’asfalto, che produceva vittime quotidiane, era proprio all’interno di una fabbrica dismessa, l’ex-Ilva di Follonica. Infatti le acciaierie erano un tempo a Follonica, solo in un secondo momento le spostarono a Piombino perché il porto era più favorevole per le imbarcazioni pesanti.
Si giocava in questo posto per pomeriggi interi. In campo c’erano i selezionati. Fuori dal campo, nel manto d’erba selvatica che circondava il rettangolo di gioco, avvenivano le esecuzioni, le vendette, le scene più efferate. Ragazzetti con scarti di età di 6-7 anni si alternavano nel gioco e nelle punizioni fisiche. Per evitare di essere malmenato, dovevi saper giocare a pallone. Solo così avevi la garanzia di rimanere nel rettangolo di gioco, dove ci si picchiava ma almeno non si faceva a cazzotti. Ogni ora si rifacevano le squadre. I grandi ti mettevano in fila, era una scena da campo di concentramento. I capitani prendevano i migliori, i salvati. I sommersi rimanevano a bordo campo, dove si lanciavano biciclette in capo, si creavano mischie furibonde. Ogni tanto la mattanza di ricomponeva, soprattutto quando arrivavano i giornaletti pornografici. Allora tutti smettevano di inseguire il pallone, i giocatori diventavano sfogliatori, che poi si disperdevano nel parco circostante, in solitudine.
Dovevo giocare bene a pallone, non c’era scelta. L’alternativa era soccombere.
Avevo anche cominciato a giocare nelle giovanili del Follonica. Tre allenamenti settimanali, più la partita il sabato pomeriggio nel campionato provinciale. Nei pomeriggi liberi, tornavo a giocare nel calcio alla Jena Plissken dell’ex-Ilva. Quello che mi piaceva davvero, perché lì mettevi tutto in gioco.
Nel calcio delle giovanili avevamo allenatori simpatici: qualche dopolavorista delle acciaierie e anche un vecchietto che aveva giocato in serie A (peccato che era un emigrato di ritorno e la serie A era quella australiana). Gli allenatori avevano però un gergo da caserma stalinista e poche idee di calcio. Io ero alto e magro, avevo “fisico”, mi dicevano, ma ero lento. Quindi dovevo fare il difensore, terzino destro, poi stopper. Alla fine libero, perché avevo la pedata potente. L’idea tattica era che prima di tutto dovevo “spazzare” il pallone cercando di buttarlo fuori campo, possibilmente colpendo il genitore di qualche bambino avversario; secondo, dovevo fare male al mio avversario. Nei calci d’angolo, dovevo conficcargli i tacchetti sopra il piede, per evitare che staccasse di testa. Quando l’arbitro era girato, dovevo sputare addosso al giocatore che marcavo e insultargli la mamma, così che se mi dava un colpo dopo lo buttavano fuori. Materazzi doveva avere il mio stesso allenatore.
Quando andavamo in trasferta, infilati in pulmini Volkswagen cantando bandiera rossa, finivamo a giocare nei paesini dove vivevano i nostri nonni, i paesini dei minatori dell’entroterra maremmano. Il problema era che lassù sui colli la rivalità era maggiore. Appena arrivati ci prendevano a sputi e i nostri babbi cominciavano a fare le risse coi babbi degli altri bambini della squadra avversa, coi quali erano imparentati. Mia mamma non capiva mai perché mio padre si portasse l’ombrello anche col sole, quando andava a vedere le mie partite.
Gli allenatori erano dei grezzi sessisti. Il classico discorso prepartita di motivazione era: “ragazzi, chi ce l’ha più lungo se lo tira”. Un’ammissione dell’inutilità di qualsiasi preparazione tecnica. Se ti facevi male e chiedevi la sostituzione, il mister ti diceva: “fatti una sega e ti passa”. Solo il vecchietto australiano era più simpatico e umano, e si trincerava dietro all’età e all’arteriosclerosi quando lo sorprendevano a fare piccoli trucchi, tipo far entrare dalla panchina un dodicesimo piccolo calciatore mentre l’arbitro era girato.
In ogni campo c’era il custode, che ci tirava i palloni e ci preparava il tè nel dopo partita. Il tè era così buono che bastava come ragione sufficiente per andare agli allenamenti. L’altra ragione erano i giornaletti porno che il custode teneva nel suo stanzino sotto le copie del Guerin Sportivo, ma quando cominciammo a rimanere sfiancati e a perdere tre partite di seguito, tolsero i giornaletti.

Ma veniamo ai miei tre gol. Due li ho fatti in un colpo solo. Una doppietta contro il Venturina. Siccome ero alto e avevo un mister progressista, nei calci d’angolo mi spingevo in avanti. La sciabolata dal corner mi si schiantò addosso, alzai un piede, sdrusciai la palla che si infilò nella porta avversaria. Dopo dieci minuti un altro calcio d’angolo: saltai, chiusi gli occhi, sentii che la palla mi sveva fatto la “masa” (cioè aveva sfregato il cuoio capelluto) e che intorno a me tutti avevano alzato le braccia. Due reti in cui non avevo alcuna responsabilità.

Il terzo gol lo feci in un torneo estivo di calcio a 5, il più importante dell’Alta Maremma, il Torneo di Bagno di Gavorrano, dove si trova la più grande miniera di pirite d’Europa (gloria e vanto locale, ma non più sfruttata). Era il torneo delle fabbriche: le acciaierie di Piombino, la Tioxide e la Solmine di Scarlino, le ultime miniere aperte e qualche cava e opificio minore organizzavano un torneo con i figli degli operai. Gli allenatori erano dei cassaintegrati che prendevano qualche extra per il lavoro come mister. C’era un torneo juniores, dai 10 ai 14 anni, dove giocavo io, e quello ordinario, dove giocavano i giovani operai. Io ero nella squadra della Tioxide. Eravamo il fior fiore del calcio giovanile follonichese e massacrammo tutti gli avversari. Nel calcetto mi facevano giocare più avanti. E anche se ero più piccolo degli altri giocatori, macinavo gioco. Vincemmo sempre e senza problemi, a parte la finale, che rimaneva sullo 0 a 0. Andammo ai rigori, che non erano facili perché si doveva tirare nella porta vuota, piccola, da hockey, da metà campo. Sbagliarono uno dopo l’altro sia i miei compagni, sia gli avversari. L’ultimo che doveva battere il rigore ero io. Tirai una sassata senza neanche guardare la porta. Andò dritta come un fuso nella rete. Mi sollevarono in trionfo, la coppa delle acciaierie era nelle miei mani. Subito dopo la doccia ci fidanzammo con le ragazzine del Bagno di Gavorrano. Io fui fidanzato dalle altre ragazze con una tipa magra, con cui avevo scambiato qualche parola mangiando lei un gelato, io un panino con la salsiccia alla brace. Dal momento del nostro fidanzamento, ci evitammo con cura.

Tornai a giocare nel calcio del campo d’asfalto, dove ormai avevo una reputazione e nessuno mi molestava. Andavo con mio padre a vedere il campionato livornese di prima categoria e facevo il raccattapalle quando giocava il Follonica in casa. Mi piaceva ascoltare quel che succedeva in panchina. L’allenatore del Follonica si addormentava spesso. Poi si risvegliava di colpo, lanciava un bestemmione trionfale e diceva qualcosa, solo per farsi sentire dal pubblico che seguiva la partita. Ce l’aveva sempre con un calciatore pelato. Era l’unico che segnava ma lui gli diceva sempre “Sei un duro!”. Una volta il mister si svegliò di colpo urlando: “Pelato, sei un duro!”. Il pelato era in panchina accanto a lui. Rispose: “Mister, ma oggi non gioco…”. “Fa una sega, sei un duro uguale..”, replicò il mister, prima di riaddormentarsi pacifico.

Passavano gli anni e naufragava l’idea pedagogica di mio padre: non sarei mai diventato un calciatore e non avrei potuto mantenerlo. Gli toccava continuare a lavorare. Mia madre riuscì a depistarmi dall’ITI o dal professionale e mi ritrovai in un liceo. Nessuno ti picchiava e giocavano a pallone per divertirsi, non per sopravvivere. Ovviamente non era un gran gioco. Ero più bravo della maggior parte dei ragazzetti, anche di quelli più grandi. Lì divenni un goleador, ma i gol del liceo erano gol facili, senza asfalto, senza pirite, senza sputi e babbi con gli ombrelli. Gol che non valevano, rispetto a quelli veri, quelli delle Colline Metallifere e dell’Ex-Ilva. Nel torneo scolastico segnavo in tutti i modi, prendevo il pallone e lo mettevo dentro al sacco. Ma non ero felice, sapevo che si giocava solo per fare bella figura con gli altri.

Del calcio vero mi ero rotto le scatole. Ormai leggevo libri, avevo delle idee e non sopportavo l’atmosfera da caserma stalinista che regnava nelle giovanili. Non andavo agli allenamenti per uscire con le mie amiche. Alla fine non mi chiamarono più. Provai un paio di volte a giocare nel calcio Uisp, ove c’era gente più grande di me, con meno fiato ma ignoranti di brutto. Lì si giocava davvero. Di nuovo sulle Colline metallifere, col pubblico di cacciatori che la domenica pomeriggio, di ritorno dalla cacciata al cinghiale, parcheggiavano gli apini e i fuoristrada dietro la porta per godersi la partita. Abituato al calcetto pulito del liceo, fu un po’ pesante vedere un mio compagno di squadra prepararsi a calciare un rigore mentre un gruppo di cacciatori, supporters della squadra locale, puntavano contro di lui il fucile armando il cane. Ovviamente la buttò fuori.

Quella fu l’ultima volta che mi divertii col pallone. Poi smisi di preoccuparmi per un po’ del calcio.
Fino a quando non si ammazzò Guido. Guido era uno di quelli che facevano i cosiddetti dirigenti nella polisportiva. Erano volontari che davano una mano. Facevano funzionare la struttura calcistica, strappavano i biglietti alle partite, tenevano in mano la bandiera da guardalinee negli incontri delle giovanili, guidavano i pulmini quando andavamo in trasferta. Dicevano che Guido fosse un buco, un omosessuale. Non capivo bene cosa volesse dire. Guido entrava sempre negli spogliatoi, parlava come tutti sempre e solo di sesso. Diceva che masturbarsi faceva bene, che ci sarebbe diventato più lungo. Ci faceva degli scherzi stupidi, tipo tirarci il ghiaccio spray degli infortuni sul pisello. Non aveva mai dato noia a un bambino, e poi cosa cazzo voleva dire “pedofilo”? Guido era un amico gentile, non si era sposato, o forse era divorziato, e la domenica pomeriggio se non c’era la partita lo ritrovavamo al cinema: strappava i biglietti anche lì, ma a noi ci faceva entrare gratis. Un amico gentile, meno ignorante dei mister che ci dicevano “fatti una sega” o “chi ce l’ha più lungo se lo tira”.

Un giorno, quando ormai ero grande, apro il giornale e scopro che un bambino delle giovanili era stato molestato da Guido. La cosa era successa qualche settimana prima, ma quando uscirono i titoli, Guido non resse e si buttò dalla finestra, morendo sul colpo. Adesso, dopo tanto tempo, tutti dicono che Guido non aveva fatto niente. Che i bambini sono cattivi e sono rimasti impressionati da tutti questi discorsi sui mostri e sui pedofili che si fanno in televisione. Che quel bambino che denunciò Guido era vittima non di Guido, ma delle prese di giro degli altri bambini, e siccome lui abitava lontano ed era l’ultimo a essere accompagnato a casa, i suoi amici gli dicevano che Guido se lo faceva. E allora, per farla finita con le prese di giro, aveva pensato bene di riportare queste voci ai suoi genitori.
Ormai è troppo tardi per Guido, che tutti soprannominavano Pepe, e che quando il mister voleva far correre di più i suoi ragazzi gli urlava contro “Forza, correte, che vi devo mette il pepe in culo?”. Ormai i giorni in cui si andava a giocare cantando bandiera rossa e un tipo poteva anche essere omosessuale e parlare di sesso con noi bambini senza che scattassero denunce sono lontani. Ora se non hai una laurea in scienze della formazione e rivolgi la parola a un bambino che non è tuo figlio rischi l’arresto.
E allora ripensando a tutte queste cose, i miei tre gol nei campetti davanti alle cave e sopra le miniere li dedico proprio a Guido, e vaffanculo al mondo.