di Dziga Cacace

of31.jpg76-Bus in viaggio di un rincoglionito Spike Lee, USA 1997

Dio, che ciofeca. Si parte malissimo, coi titoli di testa sulle immagini patinate di un uomo di colore in catene, mentre in sottofondo c’è una nenia straziante di Michael Jackson. Un bel flash. Poi parte la narrazione e meglio non va: una dozzina di neri sono in viaggio verso Washington D.C. per partecipare alla marcia dell’orgoglio organizzata da quel bel tipetto di Farrakhan. Le storie dei passeggeri s’intrecciano: abbiamo il tizio mezzo bianco, l’attore macho e cazzone, il negro ricco e repubblicano (che volerà giù dal pullman), quello col passato gangsta uscito dal ghetto e convertito all’Islam, quello che ha vissuto sempre da Zio Tom e ora vuole la sua rivincita… un campionario scontatissimo di luoghi comuni, risolto con una rozzezza traumatizzante, per personaggi monocromatici. Ma siam sicuri che questo sia Spike Lee? Sicuri sicuri?


Bus in viaggio è verboso ed estenuante nella sua lunghezza. Troppi temi e tutti trattati con superficialità. Poi un triplo retorico finale da far impallidire, tanto che Marco era preda di una crisi di riso isterico che preludeva alla consueta somma indignazione. Dopo i decenti Girl 6 e Clockers, un tonfo clamoroso: l’ultimo joint di Spike Lee è stato confezionato con una partita d’erba avariata. Avvertiti. (Cineclub Lumière; 2/10/97)

77-In barca a vela contromano del volenteroso ma… vabbeh, Stefano Reali, Italia 1997

Cos’è In barca a vela contromano? Perché possiede questo squallido titolo? Perché ha ricevuto un contributo di Veltroni e soci in quanto opera di interesse culturale nazionale? Perché lo sono andato a vedere? Il film prende il titolo da quella che, evidentemente, si suppone sia la più battuta migliore del copione, immaginatevi il resto. Alla regia Stefano Reali, già autore della pièce teatrale da cui il film è tratto. Il titolo originale era Ospedale e magari ha fatto scattare la sovvenzione ministeriale, chissà. Dunque: l’ormai onnipresente Mastandrea è ricoverato in un ospedale romano per un intervento ai legamenti crociati. Il suo compagno di stanza (lo sprecato Catania) è un lungodegente che gli descrive tutte le mafie, le schifezze, gli intrallazzi che lì si consumano. Primo colpo di scena: Mastandrea è in realtà uno scarso laureato in medicina che, in mancanza di meglio, lavora come “commissario sanitario”, cioè spione. Deve scoprire se Catania gestisce o meno un lucroso commercio di posti letto, ma non lo convincono neanche i suoi superiori che lo hanno incaricato dell’indagine. Si va avanti a colpi di scena (abbastanza riusciti, per la verità) finché il finto malato non deve arrendersi alla verità: il compagno di stanza è veramente in un losco giro d’affari. Ma Mastandrea è un buono: volemmose bene, teniamo tutti famiglia, ecchesaràmai etc. e non lo denuncia, perché i veri cattivi sono i primari che operano in clinica e massacrano i poveracci che finiscono in ospedale. Ci mancava Santoro a urlarlo e il pacchetto era completo. La parte dedicata alla presentazione dei personaggi e dei luoghi non fa ridere neanche per sbaglio. Va meglio quando cresce il “giallo”, ma il film è farraginoso, caotico e ondivago, con un sonoro schifoso e anche uno smarrone rivelatore che m’ha letteralmente indignato: l’ombra dell’operatore con cinepresa che vaga come uno spirito che non trova pace. Molto male. Ah: biglietto gratuito, se no ‘sta minchia. (Cinema Ritz, 2/10/97)

78-Scream di Wes Craven, USA 1997

Wes Craven sa. Scream è ben girato, è arguto e ironico e tutto il plot è sospeso tra la strizzata d’occhio allo spettatore e la giusta amministrazione di suspense, quell’ingrediente che, a fianco degli intellettualismi metalinguistici, spesso scompare. In quale altro horror avete mai visto un serial killer prendersi tanti calci nelle palle, portate in faccia, pugni, sberle e morsi prima di aver ragione delle sue vittime? Di suo horror, il cinema Ritz ci ha messo: i primi tre minuti muti (nessuno in sala ha fiatato, pensando a una provocazione di Craven), l’intero primo tempo fuori fuoco (alle mie proteste è stato risposto: “L’operatore è anche sceso in sala!”; e chi è? Enrico la talpa?), il secondo tempo con la luce del proiettore sparata (tutti i neri diventati grigi, il resto sovraesposto) e l’immagine proiettata trapezoidale e deformata sul lato sinistro (con conferma nei prolassati titoli di coda). Infine il mascherino storto per tutto la proiezione. Poi Claudio ed Enrico del Lumière si scandalizzano se guardo i film in televisione, eccheccazzo. Oltre a tutto, come sempre, mi s’è messa dietro (nella sala semivuota) una decerebrata che non ha fatto altro che tirare su con il naso per le due ore di proiezione. Non so: sarò come la merda per le mosche. Finito Scream sono corso al Lumière per sentire Giovanni Robbiano parlare del suo Figurine . Il dibattito si è trasformato presto in un trascinante assolo del regista e sceneggiatore e ci siamo divertiti tutti. Poi siamo andati al Camelot per diverse birre e abbiamo fatto le 2.40 dicendo belinate. Robbiano è molto simpatico e venera Fracchia la belva umana, cosa che lo rende ancor più stimabile. S’è parlato del Genoa, di Melville, del Subbuteo e di Imamura e poi tutti m’hanno fatto il consueto mazzo per lo scetticismo che nutro nei confronti di Hitchcock. Finisce che han ragione loro. (Cinema Ritz, 3/10/97)

of32.jpg81-La commare secca di Bernardo Bertolucci, Italia 1962

Il Lumière dedica al Maestro una strameritata personale che, però, parte veramente male. Ieri c’è stato un temporale bello potente e, puntualmente, il Lumière s’è allagato. Il rivo sotterraneo che passa sotto la sala s’è gonfiato (con evidente bombatura del pavimento) e intridendo la moquette ha fatto esalare una serie di miasmi infernali. Sembrava di vedere il film da dentro un cesso molto sporco. E gli spettatori, non so se per la pioggia, per il tanfo o per il film, erano pochissimi: una ventina. E il film com’è? Beh, i temi sono pasoliniani fino all’osso, narrativamente la vicenda funzionicchia e alcuni attori sono un po’ cani. Pienamente convincente, invece, è l’apparato formale. Bernardo, a 21 anni, muove la cinepresa con destrezza e gusto e assistiamo a più carrelli in questo La commare secca che in tutta la filmografia di, chessò, un Rohmer. Strutturato in sei brani (una sorta di Rashômon, dove però le immagini non mentono), BB decide di girare ogni episodio secondo uno stile diverso. Per comodità potrei andare a recuperare in letteratura un po’ d’informazioni e invece mi azzardo: vedo una forte influenza giapponese nel primo episodio… e gli altri? Beh, allora vado a consultare la letteratura e poi vi saprò dire. Comunque l’episodio del soldatino calabrese è bellissimo. Sarà che l’avevo già visto, sarà stata la puzza: anche se è l’esordio del Maestro, non è eccezionale, ma è già bello e può bastare. (Cineclub Lumière; 7/10/97)

82 e 83 –I fratelli McMullen e Il senso dell’amore di Edward Burns, USA 1995 e 1996

È già un bel po’ che Pier mi scoccia chiedendomi se per caso ho visto il debutto di un giovane e belloccio regista americano. Io, chiaramente, diffidavo e, puntualmente, arriva la smentita: I fratelli McMullen è una commedia piacevole, ben scritta e sobriamente girata. Si entra al Lumière e sembra che i trenta spettatori presenti abbiano scoreggiato tutti assieme per accogliermi: purtroppo il lezzo di fogna durerà ancora un bel po’. Prendo posto e con faccia feroce chiedo severamente a Marco se per caso ha tirato un “puzzino”. Ci casca in pieno: comprensibile diniego e si parte. E mentre io mi diverto, Marco inizia a rantolare dopo un quarto d’ora. De gustibus… Questo ritratto di tre fratelli irlandesi, figli di immigrati, alle prese con diverse svolte nelle loro vite (l’uscire di casa, il lavoro, la fine dell’università, il matrimonio, la religione, la sessualità, i tradimenti etc.), è scritto con una intelligenza che raramente si riconosce agli imperialisti yankee. Le battute sono divertenti, gli attori simpatici e bravi. Insomma il film mi prende a tal punto che sopporto anche il lieto fine tagliato con l’accetta. Il senso dell’amore, visto la sera dopo, è una versione aggiornata e più adulta del film precedente. Stavolta i fratelli (i Fitzpatrick) sono due: al posto di un fratello maggiore subentra un genitore complice con gli stessi problemi dei figli. Problemi che sono i soliti: le scelte di vita e d’amore. Commedia decente, con begli attori, battute azzeccate e l’ennesimo implausibile finale. Visti i tempi che corrono, vedere consecutivamente due film divertenti al Lumière sembra un miracolo. E mentre il lezzo fognario inizia ad attenuarsi, nel foyer del Lumière si urla e si strepita: questo pomeriggio il mortadellone ha dato le dimissioni e stasera, tra fraterni amici, sono scoppiate accese liti, paradigmatiche dell’unità della Sinistra. E io sento la presenza di un grosso corpo estraneo nel retto, non so voi. (Cineclub Lumière; 8 e 9/10/97)

85-I corti (parte prima) di un’ambigua Roberta Torre, Italia 1995/1996

Visto il successo di Tano da morire, saltano fuori le opere precedenti di Roberta Torre e io me le vedrò un po’ al Lumière e un po’ a Milano, al Pandora, un’associazione cinematografica con pochi soci e ancor meno pubblico ma che riesce a organizzare rassegne niente male, pubblicizzandole con una lussuosa newsletter (ottima confezione, contenuti discreti). Beati loro. Se parlo di rassegne ghiotte, non mi riferisco di certo ai video presentati stasera (al Lumière ne vedrò altri 9), ma alla clamorosa personale dedicata a Boris Barnet che parte a breve. Nonostante forti sospetti di clamorosi giri di droga, armi e prostituzione, mi sono iscritto al Pandora anche quest’anno e con Raffa, Alessandra e Barbara siamo andati a testare la giovane Torre. Si parte con il migliore corto del lotto: La vita a volo D’Angelo, sorta d’intervista al cantante partenopeo. Si prosegue con il confuso Verginella e si chiude con il discreto Appunti per un film su Tano. Della regia si può apprezzare la passione per l’eccesso, per i colori vivaci, per i costanti sfocamenti e traballamenti (parlo in generale, io non apprezzo: ho confidato a Raffa che io sono per il cinema-cinema. Che vuol dire? Boh!). Istintivamente, sia io che Raffa, abbiamo invece provato fastidio per quel discutibile gusto, al confine tra il morboso e la presa per il culo, con cui si mostra la “povera gente”. Se io rido perché un fan sgrammaticato dice che è “patuto” di Nino D’Angelo sono chiaramente io lo stronzo classista, ma la regia non è da meno, dài. Voglio dire, si intravede l’affetto che la Torre ha per quei visi, per quelle storie, per l’italiano incerto, però le interviste durante gli Appunti, con domande pressanti, quasi aggressive, per sapere di più, sempre di più, di mafia, scippi e furti, mi hanno lasciato molti dubbi. Certo, ci si salva sempre con l’ironia, ma mi sembra poco giusto. Parliamoci chiaro: i lavori della Torre non mi sono molto piaciuti e m’è sembrato che anche La vita a volo D’Angelo sia interessante solo perché Nino è un idolo. Ritornando a quella sorta di vampirismo sul candore dei semplici: beh, qui non si parla minimamente della carriera artistica di D’Angelo. Interessano soltanto gli aneddoti, il folclore, i racconti sui guappi… a un certo punto appare la pagina di un quotidiano con il pubblico elogio di Nino da parte dell’immenso Miles Davis. Ovviamente senza alcun approfondimento. Allora mi dico: la Torre ci racconta la storia di un fenomeno da baraccone, umano e simpatico, ma che sia un artista non gliene frega una minchia, anche se per una volta lo si poteva dire a un pubblico diverso. Ciuccolatina d”a ferrovia sembra Terra mia di Pino Daniele (per melodie, accordi, armonie e strumentazione), eppure, mentre Pino viene considerato un genio (e lo è), Nino no. Perché? Ma chi se ne frega: lasciamolo prendere per il culo da quel mattacchione di Fofi che gli spiega, lui, quale cinema abbia fatto… Mah, più ci penso e meno sono convinto dall’onestà dell’operazione. (Cineclub Pandora; 10/10/97)

89-Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci, Italia 1964

Siamo addirittura una cinquantina di persone e io, bertolucciano d’inossidabile fede, sono più realista del re e del film noto subito più i difetti che i pregi, che in buona sostanza ho ritrovato con gioia. Il film, specie nella prima parte, è un po’ appesantito e poco scorrevole, poi, andando avanti riesce ad avere più ritmo. Figlie del loro tempo sono le enfatiche disquisizioni politiche; i monologhi di Fabrizio, il protagonista, sono un po’ penalizzati dalla rigidità di Francesco Barilli… come per magia, invece, tutto funziona – e alla grande – con la Asti, che Bertolucci riprende e dirige con immenso amore. Le dedica una serie di primi piani purissimi e Adriana sa ripagare questo affetto: è bravissima nel reggere lo sguardo indagatore della cinepresa e recita con partecipazione il difficile ruolo di zia quasi incestuosa. Altro punto decisamente a favore del film è la straordinaria libertà espressiva che BB si prende: gira seminando omaggi e provando “a fare” la nouvelle vague. Il risultato finale è forse incerto, ma certe scene riescono a essere memorabili. Il lungo monologo di Gina (la Asti) quando confessa il suo amore per il nipote – mentre scorrono immagini delle ville parmensi -, l’incontro di Fabrizio con l’amico cinéphile che dichiara che “il cinema è un fatto di stile e lo stile è un fatto morale… non si può vivere senza Rossellini!”, la scena dopo il suicidio di Agostino, l’amico Cesare (Morandini) che legge ai suoi scolari Moby Dick, il “clip” con la musica di Paoli o l’ultima lunga sequenza al Regio… Insomma, quale regista ventitreenne ha saputo mettersi in gioco in maniera così rischiosa come BB? Chi ha saputo raccontare in modo così spietato la sua crisi intellettuale e politica? Lui, borghese, deve ammettere la sua sconfitta, e dopo lo scandaloso amore con la zia (contro la morale, la famiglia, la chiesa e la sua città), finisce per ripiegare sulle solide scelte imposte dalle convenzioni: un indolore matrimonio borghese. E non c’è solo questo drammatico percorso, c’è anche la depressione di Gina, la dolorosa rassegnazione di Puck (il proprietario terriero ormai senza una lira), l’amicizia fragile di Agostino, l’insegnamento morale di Cesare e l’amore per il cinema, non solo suggerito con sottili citazioni (la cinepresa talvolta piazzata alla Ozu, talvolta in leggero movimento come Ophuls, i montaggi godardiani, gli ardori notturni sublimati come ne L’Atalante), ma anche dichiarato esplicitamente: “Vai a vedere Il fiume rosso, mi raccomando!”. E allora? Degli amici trascinati in sala mi son giocato Ferro e Francesca che non erano contenti, mentre Donde è rimasto col beneficio del dubbio, pur ammettendo di non essersi propriamente divertito: io li avevo avvertiti, ma non abbastanza. Marco invece era proprio indignato, mia sorella fredda e Rossana entusiasta, come del resto io, anche se non potevo manifestarlo in quel momento di lutto che è stata l’uscita dal cinema assieme agli scontenti. (Cineclub Lumière; 16/10/97)

of33.jpg90-La casa sulla Trubnaja di Boris Barnet, URSS 1929

Venerdì sera a Milano, presso piazza San Babila: che ci fanno Pier Paolo e Cacace seduti da McDonald? Si stanno preparando per il match: sono tutti e due preoccupati per l’avversario, un film sovietico del 1929. Cacace prevede un incontro facile, Pier è più inquieto. Prendono posto nell’Auditorium San Carlo dov’è ospitato il Pandora. Parte il film e subito due importanti punti per l’avversario: il film è rigorosamente muto e la pellicola produce un fastidioso rumore come se gli elicotteri di Apocalypse Now fossero tutti dentro la sala; in più il film è molto commentato, ma da didascalie in cirillico. I nostri eroi disperano… ma il film inizia a intrigarli: uno, due, tre carrelli travolgenti, uno verticale, la cinepresa lanciata tra la folla come ne L’uomo con la macchina da presa, montaggi fotogramma per fotogramma tipo Tetsuo, cinepresa inclinata, sfoggio di tutte le possibili ottiche, riflessi nelle pozzanghere che sembrano Pioggia al cubo, gag slapstick, animazioni, riavvolgimento veloce della pellicola, fotografia alla Rodcenko nitidissima e miracolosa, montaggio esuberante, gran ritmo, primi piani stupendi… non c’è un attimo di tregua! ED È UN FILM DI SETTANT’ANNI FA! Chi vince? Ma tutti! Non so come spiegarlo, ma La casa sulla Trubnaja è un esaltante incrocio tra Ejzenstejn, Vertov, Chaplin e Keaton, tutto shakerato ed elevato all’ennesima potenza, pervaso da una sensibilità costruttivista e da un’estetica ritmica e compositiva che sembrano, oggi, modernissime. Tutto quello che un babbeo può trovare innovativo in Romeo + Juliet è già tutto qua, altro che video-clip. Non chiedetemi di raccontarvi la trama perché non solo è probabile che abbia perso qualcosa, ma anche perché è complessa, ma di una complessità estremamente matura e consapevole. Barnet è un genio che merita di sedere a fianco dei più grandi di tutti i tempi. Assolutamente. Commossi, usciamo dal cinema vinti e vincitori. Questo è il cinema. (Cineclub Pandora, 17/10/97)

92-I ragazzi della 56ª strada di un adolescenziale Francis Ford Coppola, USA 1983

Una vera cagata. A distanza di più di dieci anni, la seconda visione di questo classico della mia generazione risulta catastrofica. In una cittadina di provincia americana i ragazzi sono divisi tra i proletari e ribelli greaser e i ricchi social. Classico conflitto da cui ci scappa il morto: fuga degli assassini (chiaramente buoni) che diventa crescita e perdita dell’innocenza. E poi uno stucchevole susseguirsi di atti d’eroismo, vittorie di Pirro dei greaser (in un epica scazzottata) e tanti buoni sentimenti… Oh my God, che robaccia. La cosa più interessante di questo pappone è l’utilizzo di una sfilza di attori che hanno conosciuto diverse fortune. L’attore principale, C. Thomas Howell, è decisamente il più bravo, e infatti nessuno l’ha mai più visto in circolazione. Poi, in rapida sequenza, si possono ammirare il mai cresciuto Ralph Macchio, il legnoso Emilio Estevez, il disperante Matt Dillon, la patetica Diane Lane e l’ininfluente Rob Lowe, presto anch’essi scomparsi dalle scene, ma meritatamente. Sono invece rimasti nel giro l’inespressivo Swayze e soprattutto il ridicolo Tom Cruise, di gran lunga il più cane (e in tale compagnia era proprio un’impresa). Zeppo di stereotipi, blando nel ritmo e zuccheroso nei contenuti, I ragazzi della 56ª strada sarà pure un omaggio a film sui juvenile delinquent degli anni Cinquanta, tipo Gioventù bruciata o Il seme della violenza, ma fa cagare lo stesso: è il film di un regista rimbambito come i suoi personaggi. (Vhs; 18/10/97)

93-La ragazza con la cappelliera di Boris Barnet, URSS 1927

Dopo la co-regia per il serial Miss Mend (che mi aspetta in due preziose videocassette registrate ormai sette mesi fa) ecco il vero esordio in proprio per il grande Barnet. La ragazza con la cappelliera è una commedia deliziosa, imparagonabile con il capolavoro visto due sere fa, ma comunque gradevole. C’è già qualche lampo di ciò che arriverà pochi anni dopo, ma il film conquista per la dolce affezione che Barnet dedica ai suoi personaggi. Anche qui, causa didascalie in russo, capisco quasi tutto, ma non mi azzardo a raccontarvelo. Si ride, si disprezzano i cattivi borghesi e ci si gode il lieto fine, con una insperata vittoria di 25mila rubli alla Lotteria Nazionale. Anche nella prova più immatura, Barnet ci conquista tutti: Alessandra, Barbara, Pier Paolo, Marzia e io. Bene, temevo di essere picchiato. (Cineclub Pandora; 19/10/97)

94-Tano da morire di, mah!, Roberta Torre, Italia 1997

Finalmente vedo il caso cinematografico italiano di questo inizio di stagione. Tano da morire, nonostante gli strepiti della critica compatta, non è un gran film. Questo va detto subito a scanso d’equivoci. Ha, però, alcune buone ideuzze, cosa che in un film italiano avviene raramente. Tano Guarrasi è un piccolo boss della Vucciria. Un bel giorno viene ucciso: chi è stato e perché? Il film si sviluppa come un’inchiesta sulla morte del pittoresco personaggio: chi era interessato al suo assassinio? I debitori, gli avversari di un’altra cosca mafiosa, le sorelle zitelle? Ambientata in scene dai colori vivaci e dall’allestimento pauperistico e fantasioso, si dipana la cronaca dei fatti: alcune cose funzionano molto bene, altre proprio no. Ma il film è fatto con due lire e gli si perdonano le frequenti sgrammaticature, non sempre, a mio parere, volute e controllate. Quello che invece non va per niente è il mordente narrativo, assolutamente inesistente. Tano dura un’ora e un quarto e riesce a essere abbastanza noioso. Manca totalmente il ritmo e gli unici momenti un po’ coinvolgenti sono dati dalle parti cantate: le musiche del grande Nino D’Angelo – ha ragione Miles Davis – sono divertenti e azzeccate. Gli attori, improvvisati, convincono e la regia alterna belle scelte ad altre più scontate. Trionfa su tutto, però, l’esilità del racconto. Tano da morire si fa vedere, insomma, e ti conquista con la sua sfrontatezza, ma bello, no. Invece immenso è quanto mi capita di vedere alla tivù, tornato a casa. Becco su Retequattro l’ennesimo special dedicato a Mina. E succede che Mediaset mandi in onda, in versione integrale, il fantastico duetto con Battisti: la Rai, ogni volta, ne fa vedere un pezzettino, manco si sciupasse la pellicola. Semplicemente eccezionale. Caro Enzo Siciliano: tu sai che abbiamo queste cose e Mediaset ce le fotte? No, non lo sai, perché sei un intellettuale e Battisti faceva le canzonette. Addavenì la Rivoluzione Culturale! (Cineclub Lumière; 20/10/97)

98-Sobborghi di Boris Barnet, URSS 1931

Finalmente tocca al tanto atteso Sobborghi (titolo originale Okraina, ma conosciuto anche come Periferia), il film più noto e osannato di Boris Barnet. Invece, e spiace dirlo, Pier Paolo e io, come già Barbara e Alessandra tre giorni prima, proviamo un po’ di delusione. Rispetto alla straordinaria capacità inventiva de La casa sulla Trubnaja o al lirismo di Sulle rive dell’azzurro mare , Sobborghi è decisamente più impacciato e lento. Non sia mai che venga frainteso: è interessante per parecchi motivi, ma non entusiasmante. Innanzitutto Barnet, fedele al suo amore per le “piccole” storie, ambienta le vicende narrate in un paesino della periferia dell’impero zarista e nasconde dietro il paravento di esistenze umili, con ironia, la retorica politica che il Partito stava iniziando a imporre. È il 1914 e scoppia la guerra con i tedeschi: il conflitto mette inizialmente da parte lo scontro sociale già in atto, poi il popolo prende coscienza che il padronato non è meno letale della mitraglia tedesca e che la guerra, piuttosto che tra i popoli, andrebbe combattuta tra le classi sociali. Nel 1917 la parabola rivoluzionaria inizia a compiersi e anche il nostro villaggio conosce un governo da operetta di un simil Kerenski. Poi trionfa la Rivoluzione e gli ideali eterni di libertà e fratellanza dei popoli e via discorrendo. Ma Barnet, specialmente se confrontato con gli illustri colleghi che stavano affrontando gli stessi temi, riesce a non essere retorico, sempre illuminato da lazzi di beffarda comicità. Pensate a Ottobre, Sciopero o La fine di San Pietroburgo, (e i primi due li amo incondizionatamente) al loro consolidato schema narrativo: la presa di coscienza di fronte allo sfruttamento etc. Qui abbiamo uno dei personaggi che accorre a una manifestazione operaia e che, strada facendo, incontra una ragazza con un cagnolino. Non ha dubbi sul da farsi e, mentre infuria la repressione della polizia a cavallo sui manifestanti, lui tenta di sedurre la ragazza. Poi salva il cagnolino dagli zoccoli dei cavalli e, illeso dal pestaggio, s’allontana abbracciato alla sua nuova conquista. Si gira, guarda in camera e ci strizza l’occhio. Ecco, Barnet è racchiuso tutto in questa inquadratura. La Rivoluzione ve la racconto a modo mio. Più avanti abbiamo la solidarietà e pure un amore con il nemico tedesco… Insomma, il PCUS non la prese tanto bene. Forse deludente rispetto alle aspettative, Sobborghi possiede però brani di grandissimo cinema ed è un ulteriore prova dell’intelligenza di quest’altro grande BB. (Cineclub Pandora; 24/10/97)

of34.jpg99-Sonatine di Takeshi Kitano, Giappone 1993

Sta arrivando sui nostri schermi il trionfatore della rassegna di Venezia e RaiTre manda in onda Sonatine. Takeshi Kitano è Murakawa, un impassibile yakuza, cui viene affidata una pericolosa e inutile missione: andare a Okinawa a ristabilire la pace tra il suo clan e uno concorrente. Disilluso, cinico e spietato (ma anche con il suo amaro destino stampato in faccia), Murakawa capisce che la missione ha il solo scopo di eliminarlo. Un po’ più a fatica lo capisce anche il vostro Cacace: il film è rigorosamente in giapponese e i sottotitoli non chiariscono minimamente l’intricato gioco di alleanze, sotterfugi e vendette che introducono la vicenda e fanno intuire il finale. Kitano ha un gusto fotografico esaltante e fornisce una memorabile interpretazione: il vecchio yakuza accetta il suo amaro destino e si ritaglia gli ultimi scampoli di felicità amando una prostituta e scherzando con i suoi compagni di sventura, non prima di aver fatto un bel po’ di morti ammazzati. Pregustando Hana-Bi apprezzo i tempi dilatati e poetici, ma anche le crudeli e folgoranti esplosioni di stilizzata violenza: qualcosa mi dice che amerò quest’autore. Visto con Alessandra, Barbara e un suo lontano cugino ungherese (Andrasz, amico di casa Jancsò, giuro). (Vhs; 25/10/97)

100-Face/Off di John Woo, USA 1997

Pomeriggio domenicale milanese: Barbara e io decidiamo di toglierci una voglia. Purtroppo non si tratta di esplorare i segreti del kamasutra, ma di andare in pellegrinaggio a Melzo, alla mega sala Arcadia a vedere Face/Off, di John Woo; si uniscono a noi Alessandra e i genitori di Barbara. Chiaramente siamo a Melzo in ritardo per lo spettacolo delle 17: allora facciamo un’assurda coda per prendere i biglietti per la serata e poi ci dedichiamo a una visita della ridente cittadina; Melzo è un tumore urbanistico cresciuto disordinatamente intorno a un piccolo centro storico senza qualità. Passeggiamo per le strade vuote e gelide: unica presenza, dei curiosi gazebo di plastica bianca dove pittoreschi babbei foulardati di verde chiedono i voti per la Dx, Sx e Centro (sic) del Parlamento della Padania, ignota regione geografica di fantasia. Mangiato un panino ci si avvia all’Arcadia, il cui nome, in questo paesaggio orrendo, suona veramente beffardo. Il palazzo è composto da quattro piccole (per modo di dire) sale da 220 posti e da una più grossa che invece ne contiene 800 e che deve essere uno spettacolo. Dico deve, perché Face/Off, con mossa proditoria, è stato spostato dalla Sala Energia (quella super, con schermo gigante da 30 per 16 metri) alla più modesta Sala Acqua (schermo da 16 metri per 8, non male comunque). Per prima cosa, entrando nel complesso, si nota il discutibile gusto architettonico. Se l’esterno sembra una costruzione che forse farebbe la sua figura a Long Beach e che qui, nella fredda e nebbiosa Lombardia, risulta grottesca, l’interno è molto asettico e, a un enorme bar che impesta l’ambiente producendo quantità industriali di pop corn, fa da contraltare una piccola biglietteria dove regnano sovrani il caos e l’improvvisazione. Entriamo nella nostra sala con biglietto prenotato e le file sono tutte ben distanziate: non dobbiamo far alzare nessuno e troviamo subito i nostri posti. La gradinata è molto inclinata e nessuna testa ostruisce la visuale. Buio in sala: prima tre trailer e poi lo spot autopromozionale della Lucasfilm: un minuto che illustra le capacità del sistema audio THX. Eccezionali, lo spot e la tecnologia. Poi inizia il film e, per la prima volta nella mia vita, vedo un film al cinema senza che ci siano, per tutta la durata della proiezione, errori di mascherino, d’inquadratura dello schermo e di fuoco, su tutte le porzioni dello schermo stesso. Sono commosso, perché ormai ritenevo impossibile, in vita, di poter vedere un film come andrebbe veramente visto. Suonerà per certe orecchie come una bestemmia, ma una televisione da 14 pollici o lo schermo del Lumière sono praticamente la stessa cosa di fronte alla magnificenza di questa sala. Sconvolgente. E il film? Ah, sí, ho visto un film. Beh, Face/Off è eccezionale per ritmo, messa in scena, dedizione attoriale e divertimento che arreca, ma ci sono alcuni difettucci che Barbara, trovandomi d’accordo, ha subito messo in evidenza. Sembra che Woo abbia fatto ricorso a tutta la sua abilità per costruire l’actionmovie perfetto, sacrificando però ogni ricerca sulla psicologia di personaggi che avrebbero potuto essere molto più ambigui, specialmente se si pensa alla straordinaria opportunità fornita dalla sceneggiatura: uno scambio di faccia e vita tra due personalità che si stanno combattendo alla morte. La liricità (condivisibile o meno) dei tempi di Hong Kong è messa da parte dall’enfasi spettacolare: conto almeno sette scene d’azione memorabili. E non mancano ironia, autocitazioni e un utilizzo della cinepresa molto cinematico. Ma se Face/Off poteva essere perfetto e non lo è, sto già aspettando di rivederlo: Woo è comunque bravino. (Cinema Arcadia, 26/10/97)

102-Strategia del ragno di Bernardo Bertolucci, Italia 1970

È la sera in cui la Nazionale di quell’esagitato riportato di Maldini guadagna un prezioso pareggio sul campo innevato di Mosca; qui, a Genova, il tepore mediterraneo regala una temperatura di 7 gradi secchi, roba da far cadere la faccia. Avendo visto il match vado al Lumière al secondo spettacolo. Quando arrivo nell’amata sala assisto all’uscita degli spettatori del primo spettacolo: sono tutti perplessi, sembra un funerale; poi esce Marco: già da lontano si capisce che è molto indignato. Poi mi è stato rivelato che ha dormito come un tronco, per cui la sua indignazione è assolutamente fuori luogo. Eh sí, perché Strategia del ragno è un gran film. Lo ritrovo dopo averlo visto tre anni fa in televisione e la differenza è veramente notevole, se non altro per la fotografia straordinaria di Storaro (la luce azzurra di Magritte e i colori vivaci di Ligabue – il pittore pazzo, non il rocker). Ispirato a una novella di Borges, Strategia del ragno racconta di Athos Magnani che ritorna al paese natio per scoprire come è morto l’omonimo padre, eroe antifascista. E poi la storia si dipana coinvolgendo tutti i personaggi che del padre erano amici. La parte migliore è decisamente la prima, con quella scoperta della cittadina e dei suoi abitanti. Poi questo senso di mistero si attenua un po’ e il film, specie nella parte centrale, è un po’ lento. Ma non importa: i cittadini della misteriosa Tara, per spaventare Athos Magnani, scrivono su una porta che questo “non è che un inissio”. E anche per il giovane Bernardo ce n’est qu’un début: questo è il primo capolavoro di una lunga serie. (Cineclub Lumière; 29/10/97)

(Continua – 3)