di R. S. Blackswift*

[Una riflessione sul saggio New Italian Epic, sul libro Stella del Mattino di Wu Ming 4, su Blackswift e la Reality Fiction; insomma una riflessione su quello che vogliamo fare con i miti. Dal blog nero.noblogs.org]

Quando ho preso in mano Stella del Mattino avevo appena finito di leggere il breve saggio di Wu Ming 1 “New Italian Epic”, ma non solo. Avevo in testa anche le due brevi mail scambiate con lo stesso WM1 e due chiacchiere fatte con il mio socio circa il concetto contenuto in “New Italian Epic”. Già perché con il mio socio in parole e pagine come Blackswift non riusciamo a prenderci sul serio come scrittori, ma prendiamo molto sul serio la necessità di impegnarsi a scrivere del nostro presente. Non riusciamo a dedicare il giusto tempo a scrivere, forse perché saremmo costretti ad ammettere che la cosa necessita di un impegno quanto e più faticoso della militanza a cui ci siamo già fin troppo disabituati – nonostante la nostra professione di intenti come uomini di azione.
Quando ho preso in mano Stella del Mattino dopo le prime pagine mi sono chiesto se fosse necessario parlare del passato per poter trasfigurare il presente in un’epica. Ovvero, se fosse strettamente necessario narrare epicamente uno scorcio di storia, per poter ispirare un’epica nel presente disastrato in cui viviamo.
Mi sono chiesto se non fosse altrettanto utile narrare epicamente il presente, trasfigurandolo in qualcosa che al tempo stesso parla di noi e parla di quello che vorremmo essere o che vorremmo che fosse.

In pratica, mi sono fatto la seguente domanda: quando io e il mio socio parliamo di Reality Fiction, cercando di descrivere la robaccia di genere che insistiamo ad amare e scrivere, stiamo parlando della New Italian Epic di cui parla WM1, oppure no?
Come si potrà facilmente desumere da questa introduzione in parte la risposta è sì, in parte è no. Io penso che ci siano molti punti di contatto su come scriviamo noi e come scrivono gli autori che WM1 cita nel suo breve saggio. Ovviamente non penso che scriviamo altrettanto bene, ma sono sicuro che proviamo a fare del nostro meglio, e tanto mi basta. Come sostiene Lucarelli nel suo intervento sulla Nuova Epica Italiana su Repubblica, “chiunque, dal più intimo minimalista al giallista più classico, se scrive con sincerità, è altrettanto utile e importante”. Senza per questo implicare che chiunque scriva fa qualcosa di utile alla causa di intervento culturale che mi sembra sempre più necessaria e prioritaria […]

monocromaticover.gifQuando abbiamo iniziato a ragionare sul nocciolo del progetto Blackswift il desiderio principale, a parte quello di scrivere, era quello di investire il campo di una battaglia culturale rimandata – per quanto riguardava noi e le nostre intelligenze – da troppo tempo. In un certo senso il lavoro di Wu Ming e Luther Blissett era l’esempio da seguire, ma non volevamo appiattirci sul loro modo di scrivere. D’altronde avere dei cloni sbiaditi di qualcosa che già esisteva era poco interessante, mentre era molto più utile cercare nuove vie convergenti sull’obiettivo di ribaltare il paradigma culturale becero e gretto che si andava delineando.
WM1 con parole più consone parla della necessità di una nuova epica italiana, di qualcosa che ispiri le persone che leggono ciò che scriviamo a interpretare la realtà in maniera diversa e ad agire in maniera diversa.

In altri tempi si sarebbe detto a lottare e su questo tornerò nella seconda parte di questo intervento che parla di Stella del Mattino, non pensate che me ne sia dimenticato.
Il nostro modo di scrivere ha risposto per noi a un interrogativo tutto intellettuale, e solo a posteriori – come già per molto altro che ci ha visto protagonisti – consente un minimo di sistematizzazione.
Penso che il saggio di WM1, in questo senso, ci aiuti: noi parliamo da tempo di immaginari, di necessaria costruzione di una proiezione di quello che siamo e che vogliamo essere nella sfera della fantasia, di una narrazione che poi trascini dietro di sé la realtà, come una specie di magia in cui si modella dell’energia, per poi vederla incarnarsi nel proprio futuro e presente materiale.
WM1 ha parlato di epica, ovvero di come questa magia dell’immaginario, questa tessitura del possibile, si chiami narrazione. Una storia è una cornice immaginaria che viene riempita in un momento con i personaggi creati dalle parole di un libro e il momento successivo con la proiezione di noi stessi nel nostro reale. E’ la risonanza tra la narrazione e la realtà che crea l’epica, che crea la possibilità di trasformare ciò che siamo e viviamo. Per dirla con una delle pagine cruciali di Stella del Mattino che ritraduce il sottotitolo della Poetica di Aristotele: “Qui tratteremo del fare nel suo insieme e nelle sue forme, quale finalità abbia ciascuna di esse, e come si debbano comporre i miti affinché il fare vada a buon fine”. La New Italian Epic sta tutta qui. E anche la nostra Reality Fiction.

E forse non sono neanche così distinte.
D’altronde, tornando alla domanda originaria, non è detto che parlare di uno scorcio di storia e parlare di uno scorcio del presente (o di un passato molto recente) sia così diverso. Su una pagina la collocazione storica di una storia non cambia sostanzialmente il suo potere in termini di immaginario. Per questo NIE (o forse io in questo senso mi riferisco solo alla NIE di Wu Ming che è prettamente legata a una trasformazione del romanzo storico in senso epico) e RF non sono diverse. Semplicemente scelgono un campo diverso di applicazione del medesimo processo di influenza culturale. I libri più riusciti di Wu Ming (a mio avviso, non tutti saranno d’accordo ma tant’è, Q e Manituana) prendono un pezzo di storia, o alcune storie nella storia e le traducono in un’epica che echeggia il presente, che vorrebbe ispirare chi legge a interpretare la realtà – sia in senso letterale che in senso fattuale – in un nuovo modo. La nostra Reality Fiction prende il presente che abbiamo vissuto insieme a molti altri, e lo trasfigura in una dimensione solo lievemente fantastica, lo ricombina come se fosse un pezzettino di pongo o un modellino di codice genetico, trasformando la nostra esperienza in una narrazione, e una narrazione in una epica del presente, del quotidiano, a misura d’uomo. In questo senso attraverso le differenze le due proposizioni convergono, forse anche compatibilmente con il talento di ognuno.

Non mi sento all’altezza della narrazione di un’epica storica come Wu Ming, ma mi sento un po’ più all’altezza di un epica del presente. E se su un libro presente e passato storico sono solo due contesti cronologici differenti, allora le nostre intelligenze possono convergere senza rendersi ridicole.
Arrivo alla conclusione della prima parte di questo intervento per sottolineare che l’interrogativo circa NIE e RF non è lana caprina, le definizioni non sono importanti, ma è una scusa per indagare se il nostro approccio alla scrittura e alla necessità di un epica quotidiana nuova converga con quello che propone WM1 nel suo saggio, anche considerato il fatto che date le forze esigue sarebbe una buona idea se gli sforzi di tutti puntassero nella stessa direzione.

stelladelmattino_thumb.jpgE forse per me Stella del Mattino è la conferma di questo ragionamento, ma considerata la mail che ho scambiato con WM1 proprio appena prima di iniziare la lettura del romanzo di WM4, non solo per me. La prima cosa che mi è balzata agli occhi mentre leggevo le pagine di Stella del Mattino sono i nodi della narrazione: quando si inizia a scrivere un romanzo o un racconto tutto comincia da alcune scene, da alcuni dialoghi, da alcune immagini sulle quali intavolare tutta la narrazione. In alcuni casi un libro è la scusa per poter scrivere quelle poche righe, una sorta di scheletro su cui modellare corpo che ne evidenzi tutta la bellezza: è la densità della tessitura di questo corpo che costituisce uno dei meriti e dei talenti di uno scrittore. Più la campitura è uniforme, più il talento di chi scrive ha saputo dare una pienezza alle proprie intuizioni. Forse perché è successo anche a me sto diventando più bravo – o almeno così mi pare – nell’individuare i nodi di questo scheletro, le giunture fondamentali. Ed è stato divertente cercare di farlo anche con Stella del Mattino.

Devo anche dire che la mia lettura del libro è stata fortemente influenzata da un’imbeccata che ho avuto da WM1 proprio prima di aprire la pagina del libro di WM4. In uno scambio di mail WM1 mi ha detto: “Il Lawrence del 1919 siamo noi che facciamo autocritica sulla mitopoiesi del periodo 2000-2001”. La mia testa ha incastrato questo dato con lo scritto di WM1 sulla New Italian Epic, e con il secondo romanzo di Blackswift su cui sto lavorando (e che per pigrizia mia è fermo in un cassetto da qualche mese) che tratta del tema del Ritorno.

Stella del Mattino è certamente l’esemplificazione perfetta di quello che concretamente intende dire WM1 nel saggio sulla New Italian Epic: ne ha tutti gli elementi, e forse in un certo senso è la sperimentazione sulla pelle degli autori di quella riflessione dello stesso concetto. Stella del Mattino parla di T.E. Lawrence, parla di una rivolta romantica e impossibile, del ruolo degli uomini nella storia e nel cambiamento, parla di una guerra combattuta e di come questa cambi le carte in tavola, parla di noi, delle guerre che abbiamo combattuto, dei miti che abbiamo creato e di come li abbiamo traditi, di come abbiamo vissuto il tradimento e di come cerchiamo di tornare alla speranza, a noi stessi, a Itaca, a Genova.
La lettura del libro è racchiusa da due frasi cruciali, che non possono che costituire una sorta di epigrafe per il senso profondo della narrazione in relazione alla storia degli autori, che è poi la storia di una generazione (o forse più) e delle sue battaglie: C.S. Lewis rappresenta la coscienza sporca – e forse un po’ infantile – di questa riflessione, siamo noi incaponiti nella mitizzazione e sordi all’epica, induriti dalle nostre paure e dal timore di non essere all’altezza, è la nostra debolezza. Eroi di cartone, più nel nostro ipocrita immaginario che nella realtà. E all’inizio del libro è proprio lui che ascolta un suo professore di lettere classiche parafrasare l’incipit della Poetica di Aristotele (che dà il titolo a questo pezzo non a caso) e che riassume in una frase l’obiettivo e il senso della New Italian Epic (ma anche del nostro progetto narrativo blackswiftiano): “Qui tratteremo del fare nel suo insieme e nelle sue forme, quale finalità abbia ciascuna di esse, e come si debbano comporre i miti affinché il fare vada a buon fine”. E C.S. Lewis, all’inizio del suo omerico viaggio (come il personaggio del romanzo che dovrei stare scrivendo e le cui assonanze più che infastidirmi confermano una necessità condivisa), confessa all’amico di essere cieco rispetto alla semplice verità dell’interpretazione del suo professore: “Non vedo cosa i miti abbiano a che vedere con i fatti”. Alla fine del libro lo capirà.

Inizia qui la mia interpretazione di Stella del Mattino. Il viaggio dei personaggi, o meglio del lettore e dell’autore, di tutti noi, attraverso la poesia, la narrazione, come azione, come fare, per creare e raccontare miti che servano a costruire un orizzonte condiviso, a ispirare azioni e cambiamenti. E’ qui che inizia il viaggio di Lawrence d’Arabia, già famoso per una versione romantica ed epica di ciò che ha fatto, della rivoluzione araba impossibile che ha guidato, ma che egli stesso percepisce come lontana, come falsa, come una rappresentazione strumentale di qualcosa di ancora incompiuto. Lawrence siamo noi, ma non solo Lawrence, anche gli altri personaggi, che seguono l’eroe in un viaggio parallelo, alla ricerca di un meccanismo per superare i propri limiti e cercare di “decidere come spendere la piccola forza creatrice che ci è stata consegnata”, perché “la storia non è lettera morta, noi stessi ne facciamo parte” e perché “le parole danno significato alle cose, usare un linguaggio è costruire un mondo”. Queste frasi sono un percorso che viene tracciato parallelamente nella vita dei diversi personaggi, e che accompagnano e risuoano come frequenze armoniche con l’epica dell’eroe principale del romanzo: una è dedicata a un giovane Lawrence dal suo mentore, una a un giovane J.R.R. Tolkien che non ha ancora capito quanta influenza avrà la sua capacità di immaginare mondi e parole sul mondo a venire.

T. E. LawrenceIl libro inizia qui e finisce con i personaggi sulla via del ritorno. Che cosa significa ritorno? Io me lo sono chiesto quando ho iniziato a scrivere il mio secondo romanzo come Blackswift, e la risposta mi è venuta da Calvino: il ritorno è memoria, la memoria serve per agire. E questo libro di WM4, come il saggio di WM1 e le riflessioni che abbiamo fatto con il mio socio, sono la chiosa del pensiero di Calvino a proposito di Ulisse: la poesia, la narrazione, l’epica sono gli strumenti di questa memoria, per agire, per cambiare il mondo. I personaggi del libro di WM4 intraprendono un percorso, illuminato dalla Stella del Mattino, da "Lucifero messaggero dell’Alba" – come Graves apostrofa Lawrence involontariamente intervenendo in una discussione su Meleagro – che guida con la sua luce attraverso il viaggio di ritorno. Il ritorno e il viaggio coincidono, non sono distinti: ogni percorso è un ritorno. Lo ritroviamo nei capitoli finali del libro, che come sempre sono la poetica epigrafe a una narrazione, quando Graves è giunto al termine del suo personale percorso, attraverso la guerra, il dolore, fino a comprendere che è necessario tornare a vivere, per immaginare ancora una storia possibile: “Puntò lo sguardo sopra l’orizzonte e la vide. Era là, a lanciare gli ultimi bagliori, ad annunciare la morte della notte e l’arrivo del sole. […] Le avevano dato molti nomi, senza riuscire a ridurla al potere dell’oscurità, né a quello del giorno. Solitaria, senza genere, unica favilla di una divinità indecisa. La sua virtù era ciò che possedeva: una luce tenue, un coraggio duraturo. Quello che sarebbe servito per attraversare la Terra di Nessuno, vasta quanto il secolo che si estendeva davanti. E per trovare la strada del ritorno.” Ed è proprio la poesia intitolata “Ritorno” della raccolta di Graves che Lawrence sceglie come sua preferita.

Lawrence e i personaggi del libro siamo noi. Siamo noi nel vuoto in cui siamo piombati. La nostra guerra, la nostra rivolta è Genova 2001. Molti non ne sono usciti. Qualcuno ha sepolto quegli anni e il tentativo di creare un mito all’altezza dei nostri tempi in quintali di bugie, di sotterfugi, di ipocrisie, alla ricerca di una assoluzione per sé stesso prima che di una ragione per cui lo abbiamo fatto. E siamo noi che seguiamo l’epica del libro per cercare di ritrovare una strada. Siamo noi C.S. Lewis furente con sé stesso e con i suoi limiti che aggredisce la Stella del Mattino, e che allo stesso tempo vi trova la forza per superare sé stesso: “Questo posto è vuoto. Non c’è più nessuno, solo fantasmi. Solo vedove e orfani di cui prendersi cura. Non sarà il tuo Lawrence a farlo. Lui venne a offrirci oasi e principi in cambio della realtà. Un baratto conveniente, tutto sommato. Solo dio è più a buon mercato. E’ qui il deserto, Charlie. Ed è buio pesto. Non servono favole o preghiere per venirne fuori, ma il lume della ragione.” Siamo noi in balia della nostra rabbia, della nostra debolezza, della nostra incapacità di essere all’altezza dell’epica che abbiamo noi stessi creato.

Il viaggio di ritorno del libro, della storia, della nostra personale epica attraversa quegli anni, li deve rivivere, li deve comprendere, e solo così superarli. La guerra è finita. Il mito non finisce. Perché “in guerra le cose cambiano” – dice Lawrence al giornalista che non gli crede quando ignora il patto Sykes-Picot – e dopo la guerra cambiano ancora. Ma il mito non finisce. Il mito persiste. Gli eroi persistono. Le persone persistono. E devono vivere, devono sognare, devono continuare a lottare.
Lawrence è “il ritratto della nostra parte oscura” – dice Vaughan quando deve descrivere come lo ritrarrebbe, e come lo ha già ritratto anche se il suo interlocutore non lo sa. Ogni personaggio della storia è una parte di noi, un pezzo di specchio a ritroso di Lawrence/Noi, una possibilità di attraversare la storia, e di ritornare a noi, a quello che abbiamo voluto e desiderato, e che ancora non è spento. Perché “del resto gli eroi non sono che invenzioni di poeti. E i poeti sono uomini, a volte sciamani, che in mezzo ad antichi cerchi di pietre si accingono a evocare gli spiriti. […] Riportare in vita i morti non è poi una gran magia. Pochi muoiono del tutto, basta soffiare sulle ceneri, per scoprire le braci ancora calde e far rivivere la fiamma. E chissà che un giorno, tra cent’anni, qualcuno non pronunci l’incantesimo anche per noi, reduci guerrieri dalla corazza ammaccata. […] Alla fine ho fatto la mia scelta. Come direbbe Siegfried, gli amici uccisi sono dovunque vada e non brucio più per redimere i loro peccati. Non sono pentito della mia vecchia, sciocca dolcezza e c’è assoluzione nelle mie canzoni”. E gli eroi siamo noi, i guerrieri ammaccati siamo tutti noi, e anche i loro narratori.

WM1 mi dice che “Lawrence siamo noi che facciamo autocritica sulla mitopoiesi del 2001”, e questo è evidente nel romanzo: Lawrence che cerca di redimere la propria figura eroica, di rendere la verità, di attraversare lo specchio del suo mito, per costruirne uno nuovo, per saldare il conto con quello che voleva fare. Perchè “la merce più a buon mercato in Arcadia è l’ipocrisia” – come dice Vaughan all’ipocrita C.S. Lewis – e ogni epica è una bugia, ma è anche una verità. Ogni racconto ci da una faccia di quello che accade, è uno strumento per agire, uno strumento per agire in una direzione. Scrivere la storia della nostra rivolta è ancora combattere (Graves a Lawrence), è ancora memoria, è ancora vita, è cercare di “restituire un po’ di colpi”.

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Il problema è che le epiche, la nostra storia, la nostra vita non è un equazione, è complicata, e a volte i racconti cercano di farla più semplice di quello che è. Genova 2001 è stata il nostro mito, la nostra piccola derelitta guerra, una guerra che ci è valsa un’immaginario potente e una speranza. Ci abbiamo creduto e abbiamo combattuto, e alcuni ne hanno fatto le spese anche al posto nostro. E poi abbiamo continuato il viaggio. Ma l’unica strada per redimere ogni rivolta è quella di proseguirla, di non mollare, di crederci fino in fondo. E cercare di fare capire a tutti che ogni battaglia non è una strada a senso unico, che ogni epica cela dietro di sé la vita reale, che non si può ignorare. Siamo umani e non possiamo credere di rendere tutto più semplice con un artifizio retorico. Ma essere umani significa anche essere capaci di superare sé stessi.

Lawrence siamo noi quando ci accorgiamo che “Per due anni abbiamo portato un anello come questi. Ce ne siamo serviti per condurre le persone che si fidavano di noi a un trionfo vano. Abbiamo imbrogliato loro e noi stessi. E’ questo che dovremmo scrivere, di quanto ci è costato. Difficile conciliarlo con l’epos della rivolta”. Stella del Mattino scrive di questo. Scrive di quello che succede dopo.
“Alla fine mi accorgo che il libro è l’argomentazione di uno che non ha mai visto le cose con chiarezza. Ma adesso penso che forse non è poi così importante. Vedere con chiarezza è un’illusione, un effetto ottico. Perlopiù facciamo quello che facciamo in modo inconscio, alla cieca. Pretendere di decifrare a mente fredda ciò che siamo serve a illuderci di dominare la strada percorsa. E’ un esercizio di vanità. Le cose accadono. Noi possiamo solo fare del nostro meglio per restare in sella”. Lawrence lascia questa lettera a Graves consegnandoli il manoscritto. Il suo ritorno è completo: comprende che noi continuiamo oltre l’epica, noi sogniamo oltre noi stessi e i nostri limiti. Ed è per questo che Lawrence è ancora la Stella del Mattino: perché lo comprende prima degli altri. Perchè illumina il ritorno degli altri personaggi che giungono attraverso le selve della propria storia e del proprio dolore, delle proprie guerre e delle proprie paure. E che sanno che una volta finita la notte, c’è ancora un giorno. E che ogni uomo tradisce sé stesso e coloro che lo circondano, che la differenza sta nel cercare di cambiare, nel comprendere quello che lo rende umano, quello che una storia può ancora ispirare e che rende immortale la nostra battaglia. Genova non è finita, perché la storia siamo noi. E noi siamo parte della storia, non possiamo fare finta che non sia così. Come Nancy, la coscienza critica dell’autore, di Lawrence e della nostra epica troppo maschile: “Non pensa che la responsabilità di quanto accade spetta ai popoli?”; E la risposta di Noi/Lawrence: “Immagino di sì. Tuttavia non posso fingere di non avere avuto un ruolo in quegli eventi.”

Le parole hanno il potere di cambiare molte cose, di dare forma alla forza creatrice che ci è stata consegnata, la poesia è il fare affinché i miti possano ispirare un fare che vada a buon fine. Il viaggio termina, ha attraversato gli uomini, e giunge di nuovo a noi. E siamo noi che dobbiamo “usare la poesia per trasmettere la verità, non quella fredda delle cronache, ma la realtà di chi vede spegnersi la vita negli occhi di un compagno”, di quello che accade dopo, del dolore, del furore, della crudeltà, della violenza, del nuovo dolore, e della Stella del Mattino che torna a splendere alla fine, quando tutto sembra essere silenzioso. Usare la parola per costruire nuove storie, nuovi mondi: “Non un altro mondo, ma il suo, la gloria e la miseria degli uomini. L’atmosfera, la guerra, il tradimento e la redenzione. […] La coerenza stessa di quel mondo lo avrebbe reso vero agli occhi di chi avesse scelto di esplorarlo. Come un viaggiatore che percorresse terre sconosciute, alla scoperta di qualcosa che aveva preceduto la storia dei comuni mortali e lasciato una traccia di sé nelle saghe scampate all’oblio del tempo.” Una Nuova Epica Italiana, le nostre storie, la nostra storia, i nostri eroi. Sapendo che ogni storia, ogni epica, ogni eroe è un uomo, è dolore, è speranza, è un sogno e una battaglia.

“Avanti, vieni avanti. Se questo fosse un dipinto, pensa, avrei una lancia. Se questa fosse una leggenda avrei una fionda o un palo acuminato. La prima ruota arriva sul ponte. Invece ho soltanto questa leva e questo innesco. Adesso. La terra esplode con un ruggito assordante”.

* Pseudonimo di un duo di scrittori milanesi. Al loro attivo il romanzo Monocromatica, Colorado Noir Mondadori, 2007.

Questo articolo è commentabile qui.

AGGIORNAMENTO: qui si esprime anche l’altra metà di Blackswift.

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