di Giuseppe Genna

TheArk.jpgAppena uscita dal samadhi ringraziò con una lenta preghiera medianica le Persone del Re Unito e della Regina Unita, le due colonne che reggevano il mondo e grazie a cui lei stessa poteva godere del suo Piano Corporeo con serena e spensierata meccanicità, per dedicarsi totalmente alla mappatura del Piano Astrale.

Dal quartiere ESP a Londra Centro: dieci minuti con i mezzi a propulsione del servizio pubblico. I passeggeri non vedevano che se stessi: non era possibile incontrare altri viaggiatori.


La pratica del contatto fisico era ormai limitata alle zone dei lavoratori, alla periferia del Regno. Un lungo, magro termitaio accelerato garantiva calma e coscienza di sé, mentre con velocità idiota e garantita si provvedeva all’inutile operazione di trasporto dei corpi.
Tuttavia dai fori della propria cabina si poteva, desiderandolo, gettare uno sguardo sul paesaggio esterno, nei primi due minuti di accelerazione. Poi i movimenti dell’occhio non potevano più catalogare e interpretare le forme che, ad alta velocità, mutavano senza posa in un fiotto di colori iridescenti e monotoni, fino alla decelerazione in vista della meta, quando le forme ritornavano riconoscibili e si spalancava alla vista il largo vuoto e la radura sterile del quartiere di Buckingham.

Primo minuto: Katje non evocò alcun ricordo ed evitò di osservare le forme.
Secondo minuto: Katje riconobbe il distretto londinese di Parigi. Era il quartiere in cui esplose la rivolta dei criogenizzati. Antiche tecniche di conservazione corporea avevano permesso ai malati terminali in disfacimento di resistere, vivi, all’assalto finale del tempo. A partire dall’Era del Computer, possidenti in fin di vita avevano prenotato una cella in cui il loro corpo malato veniva congelato: restavano intatte le facoltà vegetative, in attesa del risveglio, che sarebbe avvenuto in un imprecisato futuro, quando le scienze mediche fossero pervenute a cure specifiche per tumori, sclerosi multipla, sclerosi a placche, malattie immunodeficenti, virus e sindromi non classificate. La pratica della criogenesi era stata quindi estesa a livello massivo nel quarto millennio, quando il primo corpo in sospensione era stato scongelato e curato con successo. Le tecniche crioniche avevano soppiantato la cremazione dei cadaveri. Il quartiere di Parigi era stato trasformato nella zona di concentramento delle celle criogenizzanti e delle aziende che operavano nel settore. Nella seconda metà del secolo LIII, tuttavia, l’esplosione dei conflitti sessuali e l’orda di terroristi che contestavano l’avvento definitivo del Regno Unito erano sfociate in un attacco generalizzato alla centrale di energia che alimentava le celle frigorifere. I dispositivi di sicurezza erano saltati. Era l’evento più drammatico degli ultimi millenni. I protocolli di controllo erano fuori uso. Le procedure di scongelamento si autoavviarono. Dopo dodici ore le celle si erano aperte e i corpi erano rientrati nello stato della coscienza di veglia. Esistevano migliaia di filmati ologrammatici che testimoniavano di quell’orrore, e Katje li aveva visionati, dapprima come esercizio di acquisizione della storia di base, in seguito come seme di meditazione vigile. Centinaia di corpi, congelati nelle celle dai marchi più ambigui del mercato criogenico, si erano putrefatti. Decine di migliaia di persone — i corpi slavati, i lividi in evidenza, tumefatti, slacciati — strisciarono per anni nei boulevard tra i palazzi che custodivano le celle. Morti, semimorti, vivi in stato di choc, carni che nominavano varianti perdute di lingue faticosamente riconoscibili, sacchi di viscere urlanti, enti gonfi e sbrecciati nella fronte o sul cranio, calotte craniche sollevate, enormi vermi da decomposizione avanzata, deliranti e asessuati, teschi ricoperti da membrane marroni e semoventi, morbi visibili a occhio nudo, femmine con mastiti sgonfie e pustolose: era un’invasione degli spazi da parte di un popolo sospeso nel tempo, catapultato nel nulla, blaterante, pericoloso. Chiunque urlava. Chiedevano cibo. I media ologrammatici non si erano fatti sfuggire lo spettacolo: avevano acquistato le telecamere a circuito chiuso dalle aziende criogeniche di Parigi, diffondevano — sapientemente montate — le immagini del delirio. Il programma ologrammatico di maggiore successo nella storia della comunicazione grossolana: l’intero pianeta era stato calamitato da quelle scene di cannibalismo (poiché a breve i corpi incominciarono a cibarsi di corpi, in putrefazione, ma anche vivi) e di devastazione che i quasi morti crionici compivano a ogni ora del giorno, senza più essere sensibili all’alternarsi di buio e luce, dormendo dove capitava, assalendo dove capitava, morendo per inedia, stridendo alla luna nitida del cielo londinese di Parigi. Era durato dieci anni. Dieci anni di programma ologrammatico che aveva permesso alle compagnie mediatiche di bloccare le politiche di intervento, poiché gli introiti erano saliti alle stelle e la popolazione planetaria non sembrava stanca, con il trascorrere del tempo, di quelle scene mute e dolorose: desiderava di più, inizialmente; poi iniziò a desiderare né di più né di meno; una beanza idiota che conduceva a spendere, a spendere, a spendere per osservare da venti, trenta, quaranta telecamere ologrammatiche. I prodotti sponsorizzavano molto. Il governo era impotente rispetto alle pressioni delle compagnie mediatiche che, tra l’altro, erano il governo. L’esercito rimase immobile. Si cercò di preservare la situazione. Tutto il distretto parigino era stato isolato in una quarantena decennale, fino al collasso dell’ultimo corpo (gorgheggiava, sembrava ribollire, era il filmato più celebre). Parigi era ufficialmente un distretto londinese e il Re Unito e la Regina Unita, pietosi come sempre, avevano disposto una sepoltura di massa. Le bombe esplosero. Una lastra di piombo venne fusa sui resti del distretto, a impedire contaminazioni dal sottosuolo. Il quartiere londinese di Parigi venne ricostruito, per ospitare, in immensi edifici circolari e spiraloidali, le Biblioteche. Alla vita era succeduta la semivita. A questa, la semimorte. A questa, la cancellazione. A quest’ultima, il sapere.

Terzo minuto: l’accelerazione.
Una vaga sensazione di potenza impotente, una spinta che aveva a che fare con un astratto coito di ogni cellula scosse Katje. La proiezione fu istantanea, istantanea la decelerazione. La psiche ricordava. Katje l’arrestò.
Gli ospiti sul convoglio furono sospesi, attoniti, come angeli laici, sulla spianata vuota in cemento in cui consisteva Londra Centro. Una zona bianca, perfettamente liscia, piatta. Un occhio spalancato e puntato verso il cielo di biacca. Veicoli sollevati galleggiavano insieme al loro. Qualcuno parlò nell’interfono, Katje non riuscì a identificare la fonte della voce, non comprese le parole, dall’oblò i veicoli galleggianti parvero sillabe distaccate, volatili, casuali, piccole cifre di lettere nere sull’enorme spazio bianco della spianata di Londra. Si fermarono, galleggiarono in attesa del permesso di proseguire per il quartiere di Buckingham.
Katje pensò che il silenzio era un globo isolabile. Cancellò il pensiero. Respinse il respiro. Tentò il samadhi. Non le riuscì. Fu frustrata, cancellò la frustrazione, si perse nell’orizzonte bianco dell’immane territorio piatto di Londra. A terra non si vedeva una persona. Non c’erano strade. Nessuna costruzione. Nemmeno la sagoma del quartiere di Buckingham rompeva quell’orizzonte fosforescente, abbagliante.
Per un attimo pensò che Dio volesse significare qualcosa. La spianata emetteva vibrazioni. Le sentiva, assestandosi sul Piano Psichico. Qui anche il pensiero era messo alla prova, rallentato, lavato, annullato. L’interfono eiettò l’avviso di partenza.
Katje chiuse gli occhi, venne a trovarla un uomo, era suo padre, faticò a cancellarne il ricordo, mentre l’ondulazione aumentava e il convoglio accelerava verso il Palazzo Reale nel centro di Buckingham.

Per minuti e minuti (un tempo eterno) Katje non vide altro che la bianca spianata, la linea netta dell’orizzonte, il cielo luminoso e sporco. Era soltanto terra e cielo. Non c’erano più veicoli nello spazio aereo. Sembrava che nemmeno si muovessero. Tutto era uguale. Eppure si muovevano. La terra era talmente piatta, talmente bianca, che sembrava di sorvolare il dorso curvo di un cetaceo.
Katje si osservò le dita. La colpì la morbidezza della pelle, la diafana areola sotto le unghie.
Di colpo, come un annuncio in terra straniera, fu in vista il quartiere di Buckingham, una casella nera e quadra in una scacchiera vuota.
Al centro, verticale e nero anch’esso, era il torrione affilato del Palazzo Reale, un monolito che indicava il cielo come un dito semisepolto.

Atterrarono lievemente, come foglie morte presto allo scadere della primavera.

A terra attendeva Katje un uomo pallido, grasso, i capelli rossi, la barba rada. Non sorrideva. Le si fece incontro a passo lento. Indossava una tuta di raso nero e marrone. Katje osservò alla sua destra la discesa dell’unico passeggero che occupava con lei il convoglio. Era un bambino mongoloide. Nessuno lo aspettava. Zoppicando il bambino mongoloide si diresse verso l’entrata dell’interporto, sembrava già una piccola linea obliqua che spezzava l’orizzonte della pista.
“La signorina Ondaatje?”
“Sono io”. L’uomo vibrava, la sua aura era difficilmente isolabile dalla sagoma.
“Benvenuta a Buckingham. Sono Akel Ananda. Ho l’incarico di accompagnarLa alla presenza del Re Unito e della Regina Unita, a Palazzo Reale”.
Katje annuì. L’uomo cercava di scrutarle il piano psichico. Fu facile rendersi impenetrabile al suo sguardo unto e sinuoso.
Akel Ananda precedette Katje. Lei lo seguì. Entrarono nello spazio scuro dell’interporto: era praticamente deserto.
“L’accompagnerò alla Commissione d’esame dopo che il Re Unito e la Regina Unita l’avranno ricevuta” disse l’uomo.
Katje esitò. “Non ci sono candidati oltre me?”
L’uomo si voltò continuando a incedere lento e meticoloso. “No. Da anni non ci sono candidati”.
Katje rimase impassibile, occupata com’era a fronteggiare l’onda epinefrinica della tempesta di orgoglio.

Dall’interporto al Palazzo Reale: un’eternità, circa dieci minuti. Katje sedeva accanto all’addetto Reale, all’interno del veicolo che procedeva solitario sulla pista che conduceva alla Residenza dei sovrani.
Non fu pronunciata parola.
Tutto l’amore perduto sarà mai risarcito?
I palazzi intorno a quello Reale: costruzioni basse, oblunghe, senza finestre.
Non si vedeva nessuno, attorno.
A pensarci, sarebbe potuto essere inverno.

La cancellata del Palazzo Reale era una griglia spessa, sterminata, regolarmente circolare: lasciava intuire un raggio sconfinato. Eppure, nonostante i frequenti, fastidiosi controlli alle barriere interne, il tempo parve risucchiato, appena il veicolo che trasportava Katje attraversò la prima protezione. Akel Ananda sollevava il capo a ogni guardia che si affacciasse sul veicolo, un segnale di spregio e scherno che ne irrobustiva la percezione di un prestigio concreto e spendibile, da quello che Katje riuscì a capire decrittando i confini esterni della sua aura. Quest’uomo esisteva per esistere. Altra carne, quindi. Katje cercò di puntare l’attenzione all’esterno del veicolo. Ovunque (su statue e manifesti perpendicolari e sospesi, vagamente ondulanti dell’aria) era vergato fosforescente e ologrammatico il principio del Regno Unito: Niente Esiste. Katje rammentò anni di insegnamento, forò diversi ordini di logica dialettica e intuitiva, non riuscì a raggiungere il fondo di quel vertiginoso principio.

Arrivarono a un parco. Animali conosciuti soltanto in ologramma sfrecciavano liberi e veloci, letali e precisi tra una sponda e l’altra del parco, costringendo il veicolo a rallentare e accelerare.
Poi si vide, infinitamente supremo, irradiante una vibrazione che pulsava come un cuore esterno, il torrione centrale, nero e affilato. Alla base, bivaccavano silenziose guardie. Nessuno badò al veicolo. Scattarono tutti sull’attenti quando ne discese Akel Ananda. Katje percepì il desiderio dell’uomo di sorriderle per mostrarle il suo potere, percepì che si tratteneva dal farlo, percepì lo sforzo, la fatica e la rabbia per il fatto di compiere fatica. C’era da chiedersi come potesse un esemplare psichico così arretrato avere un ruolo alla corte del Re Unito e della Regina Unita.
Mentre il portone d’ingresso del Palazzo Reale si spalancava con lentezza esasperante, Katje ascoltò il lancinante grido d’allarme di tutti i vegetali e di tutte le creature del parco che aveva alle spalle.
Per sicurezza blindò l’accesso dal Piano Astrale al suo complesso psichico.
Il buio la inghiottì.

Katje restò attonita, mentre un fiotto di curiosità dalla psiche di Akel Ananda la investì, appiccicoso e denso come una mantra. Il salone d’ingresso era enorme, lo sviluppo in verticale pari al torrione non ne faceva intravvedere il vertice. Istoriazioni e figure ambigue scolpite sulle pareti in titanio correvano a spirale inoltrandosi verso la cima del torrione. Il salone era affollatissimo. Le scene sacre rappresentate alle pareti costituivano il celebre Ciclo di Antonacci, che Katje aveva studiato durante il periodo propedeutico. Aveva potuto ammirarle con gli altri studenti in forma ologrammatica e, insieme ai compagni, non aveva compreso per nulla in cosa quei bassorilievi manifestassero una superiorità schiacciante rispetto a ogni altra forma d’arte precedente. Guido Antonacci (5742-6021) era l’artista del distretto italiano di Londra scelto dal Re Unito e dalla Regina Unita per completare i lavori interni a Palazzo Reale: un ciclo di istoriazioni che celebrasse la storia dell’umanità e i suoi saperi. Impressionante: le sculture, colore grafite, compresse contro le pareti, emanavano un’aura. Katje restò a bocca aperta. Era la prima volta che osservava un prodigio del genere. Ogni istoriazione vibrava, manifestava il possesso del piano psichico. Non era possibile. Katje ripulì gli organi di percezione, tornò a fissare le sculture: materiale inorganico che irradiava un’aura, precisamente al modo di un essere vivente. Akel Ananda restò interdetto: non capiva. Katje lesse in lui che non percepiva alcunché irradiare dal Ciclo di Antonacci. Come aveva fatto Guido Antonacci a imprimere vita psichica a del… del… metallo? Akel Ananda faceva cenno a Katje di seguirlo, lei entrò nel suo Piano Psichico, lo sferzò nella linea sottile che lega la corrente della volontà agli organi di percezione e cancellò la memoria residua di quei minuti nell’uomo, ora immobile. Quelle statue stavano chiamandola.
Alla base: il bassorilievo di un uomo seduto, disperato, la mano tra i capelli, sconvolto, in contemplazione di una pena infinita: mormorava psichicamente, elevava un grido sommerso, un lutto nebuloso inestinguibile. Accanto: un glifo dai contorni aberranti, una sorta di donnola intelligente e vorace dalla testa d’uomo, puntava in vibrazione direttamente al Piano Astrale. Katje rimase affascinata e raccapricciata. Guido Antonacci era un genio. Più che un genio: un Maestro. Più in alto osservò un sole dal volto umano, gigantesco e melanconico, che faceva perno sulla pietà indotta in chi lo osservava per tendere un’imprevedibile trappola psichica. Un vecchio scostante reggeva in mano il globo del mondo: le sue vibrazioni erano dense, abbassavano la psiche a vortici oscuri e inferiori, si sentivano pulsare i bubboni dell’immenso serbatoio del subconscio collettivo. Katje dovette fare forza sullo sguardo, distoglierlo dal vecchio. Più a destra, armoniche e fluttuanti, le figure di un uomo e di una donna: allacciate. Quell’allegoria parlava. Si rivolgeva direttamente a Katje. Utilizzò il vocativo. La chiamava per nome. Katje percepì nettamente, in una lingua senza linguaggio, che l’istoriazione recitava dei versi. Riuscì a intenderli:

Porta del Paradiso sii spalancata
All’entrata che mi alletta amando
Me, gemello d’Orione, ora di metallo,
Fin nella coda di Hale-Bopp confidando

Allora percepì tutto, tutto. Tutte le sculture urlavano. Versi, stralci di Scritture, sentenze sacre: pulsavano, invadevano il Piano Psichico di Katje. Dovette premersi le tempie, fare silenzio interiore. Il Ciclo di Antonacci svelava segreti memorabili che precipitavano nell’oblio appena uditi nella mente, li ripeteva e quelli ancora venivano scordati, e ancora e ancora, e nuovamente da capo, instancabilmente. Era impossibile ascoltare quel frastuono psichico. Cercò un riparo, Katje, nell’Astrale, ma l’Astrale sembrava bloccato in quel salone coperto da titanio urlante. Katje sbloccò la volontà e la memoria di Akel Ananda, lo svegliò dal torpore, annuì, Akel si diresse verso la folla che si agitava sul fondo del salone, Katje impazziva per lo stridore altissimo che emanava dal Ciclo di Antonacci (nettissima, potente, sovrastante tutte le evocazioni, le formule, gli arpeggi, si percepiva la frase ritmata e monotona del principio del Regno Unito: Niente Esiste, Niente Esiste, Niente Esiste…). Un conato stava scuotendo lo stomaco di Katje. La folla si avvicinava. Questuanti delle multinazionali, corpi diplomatici delle zone franche, consoli e proconsoli delle province lavorative, élite intellettuali e sagome indistinte si affollavano intorno al Re Unito e alla Regina Unita, che alzavano verso i presenti la loro mano femminea e delicata, inclinando le teste canute e graziose. Li aveva visti soltanto nei programmi ologrammatici o nei manifesti sospesi, mentre recitavano sorridendo la massima del Regno: Niente Esiste. Erano più alti di quanto immaginasse. Akel si avvicinò a loro, si arrestò, si voltò verso Katje. E poi superò i corpi del Re e della Regina, quasi correva. Katje lo seguiva. Cercò di fermarlo. Cercò di chiedergli cosa stava facendo, perché non si era arrestato davanti alle Regali Persone del Re Unito e della Regina Unita, quando Akel stesso si fermò e anticipò la domanda di Katje rispondendole: “Non sono il Re e la Regina. Sono le Loro ombre. Icone di rappresentanza. Con Lei, signorina Ondaatje, desiderano congratularsi il Re Unito e la Regina Unita reali”. E riprese a camminare veloce, mentre Katje sentì un ultimo urlo provenire dal gorgo verticale e schiacciato del Ciclo di Antonacci.
Akel stava già premendo un interfono alla parete.
Di colpo, la parete si spalancò.

Una fuga di saloni enormi, istoriati da tratti del Ciclo di Antonacci che non le erano stati mostrati negli ologrammi propedeutici, si apriva davanti a Katje. Akel camminava veloce, Katje cercava di non osservare se non di sfuggita i bassorilievi di Antonacci: che la colpivano con pungenti assalti vibratori, chiedendo aiuto, minacciandola di morte, offrendole passaggi privilegiati al Piano Atrale, recitando versi sapienziali. La testa sembrava gonfiarsi, i pensieri si slacciavano, Katje non riusciva a controllare il Piano Psichico, inseguiva affannata Akel, l’aria le parve tiepida e priva di ossigeno, finché Akel giunse al fondo dei saloni, a una parete bronzea, in un antisterio colossale e vuoto. Il chiasso irradiato dal Ciclo di Antonacci qui taceva. Due guardie impassibili e molto alte erano immobili in corrispondenza dei grandi cardini di un portale chiuso. Akel alzò il mento in direzione della porta, lo stesso gesto di spregio che Katje aveva osservato sul veicolo, giungendo al Palazzo.
Le guardie assentirono, premettero grossi pulsanti alle loro spalle, contemporaneamente, la porta si aprì lenta e meccanica, fluida, senza resistenza.
Akel si mosse, Katje con lui.
Entrarono in una sala rossa.

L’aria era rossa, le pareti erano rosse, i mobili erano rossi, persino le guardie sull’attenti ai lati erano rosse. Due corpi bianchi si agitavano sul fondo della sala. Katje e Akel Ananda avanzarono verso quei corpi. Akel sudava, Katje lesse in lui squillante la preoccupazione. Si voltò verso di lei, si avvicinò, le sussurrò cosa fare e quando farlo.
Impiegarono minuti e minuti per arrivare al fondo della sala, sotto gli occhi degli attendenti rossi, confusi sullo sfondo rosso delle pareti. Sembravano non esistere angoli: era tutto rosso.
Camminarono faticosamente, un caldo soffoco sfiancava e faceva ansimare. Katje era sudata.
E furono di fronte a Loro.

(2-CONTINUA)