di Girolamo De Michelevauropapa_1.gif

In ricordo di Letizia Gianformaggio (1944-2004)

Abbiamo visto nella prima parte come il messaggio del Discorso sulla legge naturale di Joseph Ratzinger sia sintetizzabile in tre mosse: posto che (1) il diritto non conosce alternative tra lex naturalis e diritto positivo, del quale (2) viene data una descrizione caricaturale, o comunque artatamente predisposta alla confutazione, ne consegue che, (3) essendo la modernità improntata al diritto positivo, essa modernità è il frutto avvelenato della incapacità «di vedere il messaggio etico, contenuto nell’essere, chiamato dalla tradizione lex naturalis, legge morale naturale».
Le cose stanno davvero così? Ovviamente no.

Esaminiamo distintamente i tre postulati impliciti nel discorso papale sulla legge naturale. avvenire20aprile.jpgIn primo luogo, viene affermata un’alternativa secca fra diritto naturale e diritto positivo, che occulta sapientemente le ragioni del superamento dell’uno da parte dell’altro. Il diritto positivo nasce infatti per un verso come prosecuzione dell’esigenza, posta dal giusnaturalismo (e non dalla ragione galileiana e/o illuministica) di dare una descrizione razionalmente coerente di quella «verità comune per tutti gli uomini» che sarebbe «scritta nel cuore dell’uomo»; e per l’altro come risposta all’incapacità del giusnaturalismo di fornire un elenco univoco dei diritti che da tale verità discendono. Non è casuale che ogni teorico del diritto naturale (da Hobbes a Grozio, da Locke a Spinoza passando per Pufendorf fino a Rousseau) fornisca un proprio elenco; e che la mossa storicamente vincente sia stata quella dei costituenti americani che, pur appellandosi all’esistenza di diritti autoevidenti, ne forniscono un elenco volutamente provvisorio (vita, libertà, ricerca della felicità, ai quali si aggiungono il diritto di ribellione e il bene comune), lasciando alla ragione il compito di rinvenirne di ulteriori. E cioè, con buona pace di Vittorio Possenti e del suo improvvido anti-spinozismo: quanto più la mente umana ha potenza di essere, cioè capacità di discernere, tanti più diritti saranno positivamente affermati [1]. Il che pone il tema, su cui torneremo, del rapporto con la morale positiva, ossia con ciò che in un determinato contesto storico e sociale è sentito come valore morale. Ma il diritto positivo, si dice, «si riduce al criterio di maggioranza applicato in maniera indiscriminata» ed ha «come limite solo il rispetto formale della Costituzione, ossia di una carta che come è nata da una maggioranza così può essere mutata col cambiare delle maggioranze» (Possenti, I cattolici e la democrazia). Non vale dilungarsi a spiegare perché i limiti di una tesi non legittimano l’antitesi (se i farmaci hanno effetti collaterali, non per questo mi rivolgo a Vanna Marchi e al suo mago): il fatto è che questa descrizione del diritto positivo è semplicemente caricaturale. Essa riprende l’accusa di reductio ad Hitlerum del giusfilosofo tedesco Gustav Radbruch contro il formalismo nel quale era effettivamente caduto il diritto tedesco nel primo Novecento: ma omette con malizia di ricordare che tale reductio non è presente in alcuno dei grandi positivisti del Novecento — non in Kelsen né in Ross, non in Hart né in Bobbio. Vale a dire: Possenti e D’Agostino – e il loro pontificio ispiratore – fingono di non sapere che non c’è un solo diritto positivo, ma molte, e diverse, teorie; che il diritto oggi non è certo quello degli anni Venti, contro il quale è certo più facile, ma anche inutile e un po’ ridicolo polemizzare (è come se Carlo Rubbia si scagliasse contro i sostenitori dell’esistenza del flogisto). Soprattutto, si finge di ignorare che il positivismo giuridico ha sviluppato la propria peculiare distinzione tra il diritto come fatto e diritto come valore in direzione di un rapporto con la morale positiva, e non verso il «compromesso tra i diversi interessi», il conflitto tra «interessi diversi» e la trasformazione in diritti di «interessi privati o desideri» (J. Ratzinger). La quale morale positiva non è il prodotto del variare momentaneo delle maggioranze, ma il prodotto di una sedimentazione storica che non muta dall’oggi al domani.
Con buona pace di quanti brandiscono come un randello la frase di Dostoevskij (senza chiedersi quale personaggio lo afferma, e qual è il messaggio del romanzo e dell’autore) «se Dio non c’è, tutto è permesso» – ad esempio, uccidere un bambino: da quando Dostoevskij ha (o avrebbe) dato l’avvio al nichilismo sino ad oggi la percezione sociale, trasformatasi prima in morale positiva e poi in leggi positive di ciò che non può esser fatto ad un bambino (ad esempio: sfruttarlo a morte col lavoro, privarlo dell’infanzia, negargli l’istruzione, castrarlo per ottenerne un cantante nel coro della Messa [2]) non si è ridotta, ma si è ampliata sino a tradursi in diritti inalienabili, o in lotta contro la negazione (che era la prassi quando i diritti non erano “relativi”) di tali diritti.
Ma soprattutto: ciò che questi critici implacabili del diritto positivo ignorano è la novità concreta del diritto contemporaneo: la costituzionalizazione, o positivizzazione, dei diritti individuali e sociali all’interno di Costituzioni rigide, cioè non soggette al variare delle maggioranze [3]. Una novità che rende obsoleta l’alternativa tra diritto naturale (che contemplerebbe i valori, salvo non riuscire ad esplicitarli) ed il diritto positivo (che sarebbe indifferente ai valori), e falsifica l’affermazione di Ratzinger che «nell’etica e nella filosofia del diritto attuale sono oggi largamente diffusi i postulati del positivismo giuridico». ferrara.jpgUna fugace passeggiata tra le teorie giuridiche contemporaneee, nelle quali la critica antipositivistica viene effettuata non recuperando le passate vestigia del giusnaturalismo, ma a partire dai temi propri del costituzionalismo (per suggerire qualche nome: Richard Dworkin, Luigi Ferrajoli, Gustavo Zagrebelsky) basta a dare l’idea di un quadro estremamente vario e differenziato, incomprensibile con le lenti oscuranti della coppia diritto positivo-diritto naturale.
D’altro canto, una critica alla morale positiva in quanto relativa ad un tempo e ad un contesto sociale richiede preliminarmente la capacità di mostrare l’esistenza di valori (e conseguenti diritti) naturali, cioè eterni. Attenzione: eterni vuol dire qui non soggetti al principio democratico, perché questi principi sono, con le parole di Ratzinger (30 marzo 2006), «non negoziabili». Civiltà Cattolica si è incaricata di esplicitare il senso di questa non negoziabilità: «Ci chiediamo, invece, se sia saggio e opportuno ricorrere al voto di maggioranza quando si tratta di problemi e pratiche in cui sono implicati princìpi e valori morali che toccano la coscienza più intima di gran parte della popolazione» (La democrazia e la Chiesa, editoriale non firmato, 1 aprile 2006).
Fingendo di non vedere quanto di ideologico vi è in quest’idea di una natura immutabile i cui precetti non sarebbero per definizione modificabili — dove sono questi valori? Non, lo abbiamo visto, nella tradizione giusnaturalistica, che non è univoca né concorde. Non nei comportamenti naturali, che variano empiricamente, così come mutano i costumi. Astutamente, Ratzinger li colloca «nel cuore dell’uomo», imputando l’incapacità «di vedere il messaggio etico, contenuto nell’essere, chiamato dalla tradizione lex naturalis» a «un concetto di natura non più metafisico ma solamente empirico». Con sguardo metafisico, ovvero col più largo concetto di ragione invocato a Regensburg, quali valori vedremmo? «Questa legge ha come suo primo e generalissimo principio quello di fare il bene e di evitare il male. È questa una verità la cui evidenza si impone immediatamente a ciascuno. Da essa scaturiscono gli altri principi più particolari che regolano il giudizio etico sui diritti e sui doveri di ciascuno. Tale è il principio del rispetto per la vita umana dal suo concepimento fino al suo termine naturale, non essendo questo bene della vita proprietà dell’uomo ma dono gratuito di Dio. Tale è pure il dovere di cercare la verità, presupposto necessario di ogni autentica maturazione della persona. Altra fondamentale istanza del soggetto è la libertà, tenendo conto del fatto che la libertà umana è sempre una libertà condivisa con gli altri e l’armonia delle libertà può essere trovata solo in ciò che è comune a tutti: la verità dell’essere umano, il messaggio fondamentale dell’essere stesso, la lex naturalis. E come non menzionare l’esigenza di giustizia, che si manifesta nel dare suum uniquiquem? Doveroso infine almeno un accenno all’attesa di solidarietà che alimenta in ciascuno, specialmente se disagiato, la speranza di un aiuto da parte di chi ha avuto una sorte migliore di lui».
L’elenco è breve e significativo tanto per le presenze quanto per le assenze: possiamo, per comodità, suddividerlo in tre parti. Nella prima vi sono valori ideologicamente sovradeterminati – si dà per certa l’esistenza di una “Verità” e di un “Bene” che persino Platone ha indicato per l’intera sua opera senza mai darne l’episteme – talmente generici da non fornire alcun criterio regolativo: se, per riprendere una tradizione dubitativa che va dagli Scettici agli esistenzialisti, la verità e il bene confliggono con la vita, quale strada seguire? Non dovrà qui entrare in gioco la capacità della ragione di individuare norme e criteri?
Il secondo gruppo comprende valori traducibili in diritti sociali – giustizia, solidarietà, libertà – senz’altro condivisibili, ma la cui presenza non è affatto esclusiva della lex naturalis.
Infine, la vita, che si pretende senza giustificata argomentazione presente in tutta la sua pienezza «sin dal concepimento». Ma se tale valore è autoevidente, come mai non è riconosciuto, ad esempio, da Tommaso d’Aquino (e in epoca recente da Maritain, e quindi presumibilmente da papa Montini, e da papa Luciani), che certo non può essere imputato di asservimento all’empirismo, all’illuminismo, al pragmatismo, e che pure nega con forza, ogni volta che ne ha l’occasione, che l’embrione sia vita compiuta, che abbia già dal concepimento un’anima, e che possa mai risorgere nel giorno del giudizio?[4] Aggiungiamo: come mai la verità, la vita, la libertà sono stati storicamente violati ben prima dell’età moderna, e spesso persino da coloro che sedevano sul Soglio di Pietro? Se la lex naturalis può essere empiricamente opaca persino a chi, illuminato dalla luce della verità, non dovrebbe cadere nei dubbi e negli errori scettici e pagani, come può essere naturale e autoevidente? Se è in sé autoevidente, come può un uomo dotato di ragione prudenziale e comprensione metafisica non vederla? È forse qui che, sospettiamo, entra in gioco il Maligno: «sin dalle sue origini l’umanità, sedotta dalle menzogne del Maligno, si è chiusa all’amore di Dio, nell’illusione di una impossibile autosufficienza» (J. Ratzinger, Lasciamoci attirare dall’amore di Cristo). E qui l’invocatore di una più ampia comprensione concettuale cade in un paradosso: queste menti non dovrebbero per definizione essere scevre dall’errore? Eppure, parlando ai vescovi polacchi delle passate compromissioni (individuali, beninteso) con nazismo, Ratzinger ha invocato — con uno spericolato appello allo storicismo e al relativismo — l’attenuante delle «differenti pre-comprensioni di allora»: youngratzi.jpg«Conviene tuttavia guardarsi dalla pretesa di impancarsi con arroganza a giudici delle generazioni precedenti, vissute in altri tempi e in altre circostanze. Occorre umile sincerità per non negare i peccati del passato, e tuttavia non indulgere a facili accuse in assenza di prove reali o ignorando le differenti pre-comprensioni di allora». Insomma, anche gli uomini di Chiesa prendevano per buone le affermazioni naziste sulla malvagità degli ebrei, scambiando quindi i fatti con la loro interpretazione.
Come possono cadere vittime di errate pre-comprensioni menti educate allo «sguardo metafisico» e in possesso di quel «più ampio concetto di ragione» che dovrebbe legittimare la loro pretesa ad ergersi al di sopra dei valori democratici per limitarne la vigenza stabilendo su cosa la democrazia può esercitarsi e su cosa deve inchinarsi? Non sarà che anche queste menti elevate sono pervertite dalle menzogne del Maligno?[5]
In definitiva: si deus est, unde Ratzinger?
Resta che, non sembrando prudente fidarsi di menti deboli o scorrette, e non volendo cadere nel ridicolo facendo ricorso alla menzione nel Maligno all’interno delle carte costituzionali, sarà il caso di continuare a continuare a fare affidamento sulla nostra ragione, della quale almeno conosciamo bene – proprio grazie allo scetticismo, all’empirismo, al pragmatismo, al nichilismo – i limiti e i pericoli, piuttosto che consegnarci mani e menti legate ad improvvisati pastori dalla vista debole e dal passo incerto che rivendicano l’esclusiva cristiana sulla religiosità, e all’interno di questa l’esclusiva cattolica sul cristianesimo.
Ma di nuovo: tutto questo parlare, in modo fallace e spropositato, di diritto naturale contro diritto positivo, a cosa serve? A produrre performativamente la convinzione che la vita non possa che essere definita, nel suo essere e nel suo poter essere, dalla sfera del diritto – positivo o naturale che sia. A reintrodurre surrettiziamente quella santità del diritto che la critica materialistica, da Pasukanis a Foucault, aveva a suo tempo criticato, svelando la funzione strutturale del diritto come «strumento organizzato della produzione». L’astratta universalità del diritto diventa effettuale quando la ricchezza della vita viene storicamente ridotta al tempo astratto e misurabile del lavoro salariato. In questa lotta – o forse batracomiomachia – tra una laicità molle e compromissoria e una retriva e antimoderna coalizione teo-com, cioè tra due diverse manifestazioni di un potere pastorale che per il nostro bene pretende la normazione delle vite, scompare la possibilità di intrecciare nuove relazioni, nuove forme di esistenza, nuove alleanze tra corpi e menti al di fuori della terra consacrata dal diritto. Bobbio sosteneva che il problema del tempo presente non è quello di fondare i diritti, ma di difenderli. Difendere i diritti significa anche – soprattutto – riprendere concretamente in mano lo spirito della Costituzione, che non è descrittivo, ma orientato al cambiamento dello stato di cose presente: sino al limite della norma giuridica — ed oltre, come è avvenuto per le lotte sociali che hanno prodotto l’attuazione della Costituzione oltre i limiti del diritto esistente.

Note

[1] Come molti critici anti-spinoziani ed anti-nietzscheani, Possenti crede che “potenza” sia sinonimo di “potere”. Potentia deriva invece non da Potestas, ma da Posse (così come Macht in tedesco deriva da mögen), e significa dunque possibilità, e non esercizio di un potere.
[2] Solo nel 1903 la Chiesa ha condannato la pratica della castrazione finalizzata alla creazione di eunuchi, assai utili al completamento di quella liturgia che l’attuale pontefice rimpiange a gran voce.
[3] Un’ottima sintesi di questi temi è data da Giorgio Pino, Il positivismo giuridico di fronte allo Stato costituzionale (1998).
[4] La più completa trattazione di Tommaso d’Aquino sul rapporto tra embrione, vita e anima è nelle Quaestio disputata de anima, art. 11. La questione è sinteticamente trattata da Umberto Eco (che cita altri luoghi tomistici), Embrioni alla porta del paradiso, che conclude: «le attuali posizioni neofondamentalistiche cattoliche non solo sono di origine protestante (che sarebbe il meno) ma portano a un appiattimento del cristianesimo su posizioni insieme materialistiche e panteistiche, e su quelle forme di panpsichismo orientale per cui certi guru viaggiano con la garza sulla bocca per non uccidere micro-organismi respirando. Non sto pronunciando giudizi di merito su una questione certamente molto delicata. Sto rilevando una curiosità storico-culturale, un curioso ribaltamento di posizioni. Dev’essere l’influenza del New Age».
[5] O che il Maligno, come in certe pessime sceneggiature hollywoodiane, venga buono ogni qual volta non si sa come far quadrare il cerchio della trama?