di Tommaso De Lorenzis

LucarelliIlMistero.jpgCarlo Lucarelli, Il mistero a piccole dosi. Scritti e interviste, Datanews, 2007, pp. 167, € 14,00.

In un articolo apparso di recente su «l’Unità», Giancarlo de Cataldo ha scritto che Lontano da Manaus (La Nuova Frontiera, 2007) del portoghese Francisco José Viegas è uno di quei romanzi che «dimostrano, se ancora ve ne fosse necessità, quanto siano sterili certe polemiche letterarie sui “generi”». Attraverso un’appassionata disamina della struttura dell’opera, scopriamo come l’autore riesca a forzare le regole del giallo alludendo all’«altrove del noir». Lontano da Manaus è, in definitiva, «uno spazio narrativo che si [tiene] ben alla larga dai recinti. Soprattutto da quelli definitori». Così, «alla fine, non t’importa più chiederti che razza di libro tu abbia letto. È un bel libro, e con un sottofondo di fado o di morna e un buon sigaro cubano si apprezza ancora di più».

Orsù dunque, smettiamola con le oziose diatribe su categorie, «grammatica» dei “generi” e problemi di classificazione. I bei libri sono bei libri. Punto. E se il vilipeso e bistrattato Benedetto Croce diceva qualcosa di simile (giusto un pelino più precisa), chi se ne frega. Decenni di corpo a corpo con «i parrucconi, i bacchettoni, i reazionari, gli accademici, i crociani, i cripto-crociani», al fine di sdoganare il «genere», sono stati tempo perso. I bei libri sono belli. Non fa una grinza.
C’è un tempo per la pace e un tempo per la guerra. E se in passato abbiamo sprecato parole in qualche polemica, è il momento di fare ammenda. Con questo spirito nuovo, nel pieno della nostra redenzione anti-tassonomica, ci disponiamo a commentare un libercolo pubblicato nel mese di aprile dall’editrice Datanews.
Il mistero a piccole dosi è un’antologia d’interviste rilasciate da Carlo Lucarelli prevalentemente tra il 2000 e il 2006. La miscellanea si articola su un ampio spettro di temi che annovera questioni di tecnica narrativa e — purtroppo — problemi di tassonomia letteraria, argomenti di politica internazionale e riflessioni sul concetto di verità. È difficile recensire un libro capace di restituire — intatto — il piacere della conversazione. Quindi, a costo di risultare pedanti, è bene procedere in maniera lineare.

A pagina 43, troviamo una domanda cruciale formulata dall’ottima Lucia Pappalardo: «Molti ti definiscono uno scrittore noir, ti riconosci in questa definizione e cos’è per te il noir?». Dritta ed efficace come un uppercut in pieno viso.
Ecco la risposta:

Sì io mi ci riconosco, però è lo stesso problema che abbiamo tutti noi scrittori “di genere” quando veniamo definiti. Posso riconoscermi anche nella definizione di giallo, ad esempio, va benissimo: l’importante è sapere cosa intende per “giallo” chi te lo dice, e così anche per “noir”. Perché se uno pensa ad Agatha Christie no, se per lui il giallo è quello no, io no non lo sono; se qualcuno pensa per noir ad altri autori che sono lontani da me no. Secondo me, gli autori del noir sono gli autori del mistero, di storie che hanno a che fare con il mistero.

Io non penso niente. Ho deciso di smettere sposando l’ecumenismo della «bella letteratura di genere». E quindi mi limito a prendere a caso tre volumi che ho sulla scrivania. Per il concetto di «mistero» mi avvalgo d’una definizione di massima. Penso di poter affermare che un mistero è «un fatto, un fenomeno, uno stato di cose che, per l’impossibilità di essere conosciuto o definito, inteso o accertato, resta segreto». Ipotizzo che un mistero rimanga tale finché non sopraggiunge un elemento che lo chiarisce.
Passo ai libri.
Sulla copertina del primo c’è scritto Alan Dean Foster e — subito sotto — Alien. Cosa dice l’enigmatico messaggio radio che spinge il computer centrale dell’astronave Nostromo a svegliare l’equipaggio dall’ipersonno? E quale immondo orrore si cela negli abissi d’un pianeta che orbita nelle profondità cosmiche? Soprattutto: come si fa a staccare quel ributtante essere a forma di mano che s’è appiccicato sulla faccia di Kane? Di misteri, nel romanzo, ce ne sono tanti. Quindi, Alan Dean Foster è un autore noir e Alien è un libro noir.
Passiamo al secondo. Il titolo è Signé Picpus. Lo firma Georges Simenon. Anche qui, misteri a iosa. Chi è l’enigmatico Picpus che, sulla carta assorbente di un bar parigino, ha involontariamente impresso una minaccia di morte? Chi ha ucciso Jeanne la chiromante? E chi è il vecchio svampito che è rimasto chiuso in cucina? Senza dubbio, Signé Picpus è un noir e Georges Simenon un esponente dello stesso genere di A.D. Foster.
Andiamo avanti. Il terzo volume è bello grosso: una botta da cinquecento pagine. Ha una copertina nerissima su cui è impresso — a lettere bianche — il nome d’un certo Léo Malet. Si tratta d’una trilogia. Per comodità, decido di esaminare il contenuto del primo libro.
Jean Fraiger è un anarchico che decide di rinverdire la sepolta tradizione dell’illegalismo: quella — per intenderci — della banda Bonnot. Così, organizza una rapina per finanziare uno sciopero dei minatori. Il colpo, però, finisce con un paio di ammazzamenti e — per giunta — il Comitato di lotta rifiuta quel denaro sporco di sangue. Schizzinosi! Come se tutto il denaro non fosse sporco di sangue… La storia continua sommando tragedia a tragedia, in una successione incalzante d’eventi, che spinge il lettore in un abisso di dolore. E il mistero? A pensarci bene non è che ci sia un enigma vero e proprio, un arcano irrisolvibile che una deduzione, un’azione violenta, un’intuizione sorprendente o una clamorosa botta di culo riescono a svelare. Ci sono dei fatti: cruenti, duri, strazianti. Ci sono delle riflessioni amare. Nel finale compare uno strizzacervelli. Però, non è che la storia sia uguale alle prime due. Stabiliamo, dunque, che questo libro, intitolato La vita è uno schifo, romanzo d’apertura della Trilogia nera, non è un noir e che Léo Malet non è un autore noir.
Detto questo, è proprio un bel libro. Voglio dire che a me è piaciuto. Con una «sporca puttana idiota» di fianco e una bella dose di disperazione in corpo, lo si dovrebbe apprezzare ancora di più.
A dire la verità, qualche dubbio ce l’ho. Però, dispongo di un ulteriore criterio che posso applicare per fugare inopportune esitazioni. Lucarelli, infatti, dice che «se qualcuno pensa per noir ad altri autori lontani da me no». Suppongo che «no» equivalga a «no, non lo sono». Ne deduco che basta vedere quali sono gli autori vicini a Lui.

Sempre a pagina 43, arriva il secondo, inesorabile quesito. Si tratta di una scudisciata dolorosissima. «E quali sono autori vicini a te?».
La risposta è inappellabile:

Vicino a me è James Ellroy, ad esempio. Scerbanenco, che considero un autore noir. Oppure, se vogliamo, anche Raymond Chandler era un autore di noir, anche se poi viene considerato un autore di gialli. Io posso citare anche Simenon. Tutti i miei colleghi, come Marcello Fois, Giampiero Rigosi, Massimo Carlotto.

Quindi, il noir è un genere che comprende American Tabloid, Almost blue, The long goodbye, le inchieste del commissario Maigret e Notturno bus. Avevo capito bene, Léo Malet non è un autore noir.
Le cose vanno chiarendosi. Ovviamente, il ragionamento è una perdita di tempo. Basterebbe vedere quali sono i bei libri. Ah, per inciso, secondo quali criteri un libro è bello? Potrebbero essere belli tutti quei libri che, ricombinando le regole del giallo, trovano l’«altrove del noir». Il punto è che io non ho la minima idea di cosa siano il giallo e il noir. Allora come si fa a trovare l’altrove di un luogo che non si conosce? Vado a istinto. Secondo me, Almost blue è un buon libro. Però preferisco i romanzi di Ellroy che trovo bellissimi. Andrebbe alla grande, se non fosse per quelle due, spericolate considerazioni che Re Media — come viene simpaticamente chiamato — ci regala con la mano sinistra. Oddio, ci sarebbe sempre quel passaggio su Chandler che «viene considerato un autore di gialli». Ma non importa. Tiriamo avanti.
E allora, eccolo, il coup de théâtre dell’Illusionista. Proprio adesso che tutto sembrava sistemato.
Non ci schiodiamo dalla pagina fatale:

Il noir è una storia del mistero che ha a che fare con un personaggio che cerca di uscire da “questa storia” e vari personaggi che “nascondono delle cose”. Ed è una storia basata più che altro sull’angoscia, l’inquietudine e l’irrazionalità. Lì mi ci riconosco.

Anch’io. Anch’io mi ci riconosco. Di quale letteratura si tratta? Azzardo. Forse, può essere quella che celebra il fato a cui non si sfugge e l’irrazionale tragedia di un’esistenza priva di senso, la rovinosa metafisica del dolore e l’incontrollabile desiderio di ritornare allo stato prenatale, la costitutiva ingiustizia della legge e l’abominevole colpa mascherata d’innocenza… E — magari — pure quella nelle cui pagine il suicidio diventa un tempo lungo, definitivamente sottratto all’intendimento della ragione e alla conclusione d’un gesto volontario. Anche la volontà è malata. L’uomo ha già scelto e ha chiamato la scelta “destino”.
Lucarelli ha toccato le corde giuste. Non capisco come tutto questo si riferisca alla possibilità di uscire da «“questa storia”», visto che dalla “storia” in questione mi pare si possa uscire solo crepando. Mi dico che non ha importanza. Sarebbe fondamentale, invece, trovare un paio di nomi e un paio di titoli per corroborare le ultime tesi. Sfoglio il volume dalla prima all’ultima pagina, ma de Il Postino di James Cain e dell’Adam di Alex Trocchi non c’è traccia.
Ammetto di essere confuso. Mi faccio forza e passo avanti. Col giallo avrò più fortuna.

Ora sono a pagina 46. A onor del vero, bisogna ammettere che la Pappalardo s’è messa d’impegno per capirci qualcosa. Completamente frastornata da un paio di risposte, sta arrancando sul crinale dell’impervia teoria. Come il sottoscritto, del resto. A questo punto, prima di cedere all’inestricabile arcano della dottrina, Lucia tenta una disperata sortita. Lucarelli ha appena negato di avere rapporti con il «giallo classico», e la Pappalardo — giustamente — esige chiarezza. «Cioè non utilizzi per niente la struttura del giallo?» è il conseguente interrogativo. In quel maledetto «cioè» si condensa un universo di disperazione. Lei, benedetta donna, vuole intendere con quale giallo Lucarelli intrattiene rapporti.
Lui — freddo e impassibile come certi personaggi di Le Breton — non si scompone. Deciso a umiliare Aristotele e la ragione d’Occidente, parte con un capolavoro di automatismo verbale che non ha eguali nella storia dell’intero movimento surrealista:

Assolutamente. No. Non così per lo meno. So che ci sono dei meccanismi che debbo usare. Di solito faccio questo, quando scrivo un romanzo che sta in quel genere lì insomma, cioè un romanzo noir, io inizio con un mistero, intanto prima io voglio scrivere altre cose che non sono il mistero, chiaramente: un personaggio, uno stile, un ambiente, un motivo per scrivere quel romanzo, insomma tutte quelle cose che stanno nel concetto di romanzo. Perché un romanzo giallo è prima di tutto un romanzo e poi il resto. Quando ho questo in mente allora inizio con una struttura narrativa che è quella gialla, che si basa sempre su mistero, suspense, colpo di scena, rivelazione, ecc…

Lo so. È durissima. Consolatevi con l’idea che è tutto inutile, perché i buoni libri di genere stanno oltre i generi. E la letteratura o è bella o è brutta.
Provo a riassumere.
Lucarelli non utilizza «assolutamente» la struttura del giallo. Cioè, non usa «assolutamente» la struttura del «giallo classico». Però, impiega alcuni meccanismi di «quel genere lì». Quale?
Ci aspettiamo che indichi i meccanismi di un altro tipo di giallo. Magari successivo al primo? Col cavolo. «Quel genere lì» è «il romanzo noir» che inizia con un mistero, e poi diventa la storia d’un personaggio che vuole uscire da «“questa storia”» e di altri che «“nascondono delle cose”», ma — al tempo stesso — è un racconto basato «sull’angoscia, l’inquietudine e l’irrazionalità». Il «romanzo noir», poi, sintetizza tutto ciò che c’è nel «concetto di romanzo». Quale «concetto di romanzo»?
Tuttavia, la spiegazione tende a scivolare nella tautologia. Si sta parlando del romanzo noir e dunque, in assoluta coerenza col principio d’identità, si passa al giallo. Saranno sinonimi? Certo, una coppia di gemelli siamesi. Un po’ come la bestia aliena che ti esce dalla panza e il pacioso commissario Maigret.
Comunque, il romanzo giallo, che — in realtà — è un noir, che però è un thriller, ma anche no, e tanto io non lo so più perché abbiamo bruciato i recinti definitori, si basa sulla sequenza «mistero, suspense, colpo di scena, rivelazione, ecc»… Meno male che Luciano Anceschi è deceduto da tempo. Non se la meriterebbe, lui, una cattiveria così.
Ci arrendiamo. Sventoliamo bandiera bianca. O nera? Visto che tutto è nero. Pure Enrico Brizzi è un autore noir a detta di uno degli intellettuali che animano l’edizione estiva di Otto e mezzo.

In compenso, un senso alla diatriba bizantina (o, se preferite, alla sporca faccenda) lo dà una notazione critica che vado a recuperare dalle parti di pagina 66. Commentando il romanzo d’una collega, Lucarelli rileva alcune imprecisioni causate dalla scarsa propensione della psiche femminile a cogliere l’essenza di certe azioni maschili: tra cui quelle connesse alla fase del “dopo-minzione”. All’autrice, infatti, va attribuita una clamorosa svista: quella d’aver scritto che un personaggio, dopo la sacrosanta pisciata, ha messo l’uccello sotto un rubinetto. Robe da pazzi, inaccettabili per un razionalista di ferro — classificatore enciclopedico e inesauribile — come Re Media. Una cosa per cui Descartes sarebbe schiattato d’infarto e Kant avrebbe avuto un collasso.
Ma la splendida Pappalardo, davanti alla quale tutti gli stoici si genuflettono, non reagisce alle provocazioni e tiene botta, sostenendo che l’anonima scrittrice avrebbe dovuto chiedere in giro, al fine d’indagare la strategia e la tattica dell’orinazione maschile.
Io ho una cara amica che scrive polizieschi. Non so come reagirei se — all’ora dell’aperitivo — mi chiedesse tutto di botto: «Oh, te cosa fai esattamente dopo che pisci? Ti scrolli o ti sciacqui?».
Invece Lui, il feroce castigamatti, non perdona:

Ma lei non l’ha chiesto infatti. Perché altrimenti avrebbe capito alcune piccole differenze… che sono che gli uomini — siamo sempre nel volgare, però sono importanti secondo me queste cose — gli uomini, per esempio, non è che si sciacquano, scrollano. Allora, questa banale differenza, in quell’uomo lì, è chiara: non è che doveva prepararsi, che stava sotto la doccia. Era un tizio normale. Questa differenza banale tra scrollarsi o asciugarsi, ad esempio, si sente.

Io di noir e giallo non ci ho capito nulla. Tuttavia, ora so distinguere una sciacquata da una lavata e so bene che non vanno mai confuse con una scrollata galeotta.
Può sembrare strano, ma è proprio in queste riflessioni che riecheggia la potenza del Nero: blues, ossessivo e nevrotico, che — tra i molti dolori — canta anche la cupa miseria del mestiere di scrivere.