di Tito Pulsinelli

Bush_timecover.jpg[Tito Pulsinelli è un giornalista italiano residente da molti anni in Venezuela. Con questo articolo inizia la sua collaborazione periodica a Carmilla.]

Il (man)rovescio elettorale di Bush è il primo nodo — ad alto valore simbolico – che viene al pettine del racket petrolifero-armamentista che finanziò la sua scalata al vertice politico degli Stati Uniti. Questo racket, vorace e cinico, è andato assai oltre il fisiologico darwinismo sociale che sostanzia il liberismo in qualsiasi latitudine.
Non si è accontentato del ruolo di anti-Robin Hood: rubare la spesa sociale destinata ai poveri per distribuire diminuzioni fiscali ai ricchi. No, il racket pensava in grande ed agiva di conseguenza: ha praticamente trasferito il grosso del bilancio statale alle guerre, all’armamentismo e alle “ricostruzioni”.

Questo succulento assegno in bianco è stato girato integralmente ai compari, cioè al comitato d’affari che finanziò le due campagne elettorali di Bush. Fino agli estremi di una corruzione di tipo “bananero”.
Bizzarri assai questi ultras, apostoli del liberismo universale che vivono esclusivamente dello Stato, con bilanci approvati in clima di emergenza, leggi speciali e sospensione dei diritti civili. Guarda caso, il vasto comparto delle armi è un settore protetto dell’economia, che gli Stati Uniti hanno sempre escluso dal dogma della concorrenza e del mercato aperto.

Eppure, all’inizio Bush era un presidente debole, uscito da un’elezione truffaldina, grazie ai maneggi del fratellino Jeb in Florida e della mafia dei fuoriusciti cubani, specialisti con post-master in imbrogli elettorali. Grazie alla Corte Suprema di Giustizia, con membri – praticamente vitalizi – tutti di nomina presidenziale, Bush ottiene la prima carica istituzionale. Giudici designati da Reagan e da papi Bush.
Era un potere dalle basi precarie, ma l’11 settembre cambia radicalmente il panorama, il racket mette a segno un auto-golpe tra il plauso universale. Miracolo delle nuove tecnologie e delle reti della comunicazione a proprietà iper-concentrata. Poi passa a una rapida riprogettazione delle istituzioni, alla misura degli interessi del 5% della cittadinanza, e a un espansionismo estremista e velleitario.
Sotto la sferza immaginaria del “nemico esterno”, il racket impone alla plebe la dissociazione psicotica, paranoia intensa e diffusa, riduzione drastica dei diritti individuali, azzeramento dello spazio di manovra per la critica sociale.
Chi infrange sistematicamente la legalità internazionale è ovvio che non ha scrupoli per passare come un rullo compressore sulla plebe domestica. Dopo la tortura di contrabbando, camuffata, il racket esige una normativa che ne sancisca la liceità. I legislatori dicono ok, e dall’Europa dei Lumi e dalla terra di Cesare Beccaria, classi dirigenti cieche e sordomute continuano a chiamarla democrazia, e certuni anche Grande Democrazia. Erano i tempi della “guerra infinita” e della caccia al mullah Omar tra le montagne afgane. Tempi di cieco furore, trionfalismo, dosi goebbelsiane di propaganda bellica, del stai con me o sei mio nemico.

Mentre il mullah Omar iniziava l’epica e inconclusa fuga in motocicletta, i Paesi europei diedero corpo e linfa a quella nuova NATO, sottoscritta alla chetichella durante i bombardamenti di Belgrado. Non è più un’alleanza militare difensiva, il mondo intero deve essere un “Atlantico del nord”, massime quando le civiltà sarebbero in “scontro” indotto. Perciò gli europei partecipano alla vendetta del racket contro l’inerme Afghanistan, promosso a pericolo pubblico planetario.
In corso d’opera mutò l’iniziale motivazione della guerra, rimpiazzata dall’urgenza filantropica di “esportare democrazia” (sic), in una terra dove lo Stato non è mai esistito. Una forma originale, senza Stato, senza partiti, solo con basi militari, oppio, oleodotti e bombardamenti.
La venalità e la vocazione atavica al saccheggio piratesco, sposati al delirio di onnipotenza unilaterale, portarono a una ragion di Stato e a una geopolitica con il petrolio come asse esclusivo. Gli interessi aziendali del racket dominante trasformati in meta strategica e politica di Stato, appena malamente camuffati dagli ideologismi rupestri dei neocons. Siamo all’arrembaggio per il monopolio mondiale delle fonti energetiche, sostenuto da spese militari esponenziali a carico dall’erario pubblico. E’ la nuova pietra filosofale per soddisfare la bulimia dei grandi elettori di Bush.

Dopo due tentativi andati a vuoto per coprirsi le spalle, tra l’aprile e il dicembre del 2002 (un golpe classico e un sabotaggio dell’industria petrolifera venezuelana), il racket si vede costretto a rompere ogni indugio e a lanciarsi proditoriamente all’avventura in Mesopotamia. D’altronde la NATO disse no, così pure Francia e Germania, unici depositari di una visione degli interessi strategici europei, soprattutto nei momenti burrascosi.
Sembrava una cavalcata trionfale, è diventata una marcia funebre: la sconfitta più grave, che mette in secondo piano persino la ritirata dalla Corea nel 1954 e la fuga dal Vietnam. Non è di molto ausilio l’alta macelleria sperimentata da John Negroponte in Centroamerica , con full squadroni della morte e big terrorismo di Stato. Negroponte ora è capo dei capi di tutte le riunificate polizie imperiali segrete.

In Iraq, però, le truppe di occupazione muovono la macchina bellica con benzina importata dal.. .Kuwait. Il petrolio, in otto anni — nonostante l’uso delle riserve strategiche- ha moltiplicato per dieci il suo valore, riempiendo i forzieri russi, iraniani e venezuelani, che cominciano a giocare su tutto lo scacchiere mondiale.
Quando il barile aumenta di un dollaro, a Caracas entra un miliardo di dollari annuale addizionale, e a Teheran quasi il doppio. Il FMI diventa prescindibile, così pure altri organismi multilaterali sedimentati nel 1946; il dollaro dall’anemia passa alla leucemia, la Cina — il competitore globale più pericoloso – si è già garantita l’autonomia energetica per i prossimi 30 anni.
La Russia non va al tappeto, come pronosticavano gli allibratori globali, ma rinazionalizza gli idrocarburi, mette in riga oscuri oligarchi venuti dal nulla, azzera il debito estero, e con la Cina fonda l’Organizzazione del Patto di Shangai. Da iniziale contrappeso all’estremismo unipolare del racket, oggi è un blocco di potere commerciale, finanziario e militare che raccoglie vari Paesi asiatici (incluso il Kazakistan ricco di idrocarburi). L’India ed Iran sono nella sua orbita immediata. Le nuove basi militari degli Stati Uniti, in questa zona, sono poco più che sperduti avamposti nelle distese percorse con gloria da Gengis Kahn.

La guerra contro l’Iraq, prefabbricata per gli appetiti corporativi del racket, è un buco nell’acqua. La breve stagione unipolarista è durata il tempo di un’eclisse, e ha fatto emergere vari blocchi regionali, tra cui quello sudamericano. L’intreccio del petrolio-gas (russo, iraniano e venezuelano), con l’eccedente dollarizzato dell’export cinese e gli armamenti russi, è una combinazione di fattori che ha cominciato a ridisegnare la mappa geopolitica. Ci sono mezzi finanziari, risorse, autonomia, alleanze e strumenti di deterrenza idonei per difenderle.
La superiorità bellica nei cieli e nello spazio si è dimostrata non determinante per la conquista e l’espropriazione delle materie prime di un territorio nazionale, ancor meno quelle di un blocco regionale. Il racket che proclamava urbi et orbi la capacità di vincere due guerre combattute contemporaneamente, in due continenti diversi, è costretto a passare alla NATO la patata bollente dell’Afghanistan. Washington si libera del comando delle operazioni: è difficile gestire due sconfitte parallele, e preparare due ritirate contemporaneamente.

La Corea del nord sfida apertamente il club nucleare della “non proliferazione”, ora ha l’atomica e i vettori per lanciarla oltre il Giappone. L’Iran continua imperterrito a rivendicare il diritto all’energia nucleare per l’uso civile. Gli Stati Uniti rimangono soli, perché Cina e Russia non si sommano a sanzioni che non siano puramente simboliche, persino i sudcoreani non gradiscono.
L’Unione Europea non può mentire a lungo, innanzitutto a se stessa, né persistere nella schizofrenia: l’Iran è un grande mercato del suo export, oltre che un decisivo fornitore di energetici.
Le marine militari che accompagnano la flotta da guerra degli Stati Uniti di fronte alle coste iraniane, sono state testimoni dirette del lancio di tre nuovi modelli di missili mare-mare, in grado di coprire l’intero stretto di Hormuz. Gli iraniani hanno dimostrato la capacità di colpire il traffico delle petroliere nel Golfo Persico, vale a dire il 23% dell’approvvigionamento degli Stati Uniti, oltre a quello europeo. Bisogna convenire che si tratta di qualcosa di più sofisticato dei “katiusha” lanciati dai libanesi, che pure misero in grave difficoltà gli “invitti” invasori israeliani.

Il racket ha messo a nudo, oltre alla velleità di un governo, la credibilità di una dottrina strategica e l’impraticabilità dell’egemonismo assoluto. Gli Stati Uniti non sono in grado di fare il direttore d’orchestra del pianeta, devono cercare un altro ruolo, e svolgere una funzione differente nel nuovo assetto multipolare.Chi esibisce il debito più grande, e importa più di quello che esporta, non può pretendere di fare il poliziotto del pianeta.
E’ problemático, però, tornare al vecchio egemonismo condiviso con i soci minori, perché il Giappone e il blocco europeo sono ormai concorrenza produttiva, finanziaria e monetaria. I tempi della Trilaterale appartengono a un passato abbastanza remoto, e “Occidente” è diventato solo un sinonimo di neoliberismo o di capitalismo finanziario, con scarsa sostanza geopolitica.
Né gli Stati Uniti possono ripiegare allo storico isolazionismo, abbandonato quando si sostituì al tramontato impero spagnolo appena estromesso da Cuba e dalle Filipine. In poco più di due secoli ha esaurito le ingenti risorse naturali di un Paese-continente, ora dovrebbe raschiare il barile o sciogliere i ghiacciai dell’Alaska. Hanno bisogno del mondo, però le regole del gioco non potranno più essere le stesse.

E’ reale un impero basato solo sulla superiorità militare? Esercitata, per di più, come pedagogia dissuasiva. solo contro i pesi piuma (Grenada, Panama)? Sono passati 60 anni dall’ultima guerra vera combattuta, quella terminata nel 1945, vinta in tandem con l’Unione Sovietica (senza atomica). Nel frattempo, c’è stato solo il fiasco in Corea e in Vietnam. La prima guerra contro l’Iraq è stata combattuta e finanziata da una costellazione di nazioni. Agli uni le spese, ad altri la “gloria”. Anche la distruzione della Jugoslavia è stata possibile solo con l’inqualificabile complicità di Bruxelles.
Il dollaro, senza copertura aurea dal 1971, oggi è espressione di una economia primus inter pares, grazie soprattutto alla forza delle armate e alle rendite di posizione che ne derivano. Per essere credibili, queste devono essere convincenti, cioè vincere sui campi di battaglia. Altrimenti il valore reale dei segni monetari e finanziari torna alle materie prime, che infatti stanno aumentando le loro quotazioni. E gli assi di equilibrio stanno variando a favore dei blocchi regionali del nuovo firmamento multipolare.

In questo nuovo quadro, sconcerta l’ingenuità dimostrata in Finlandia dai leader politici europei, quando ritennero di spaventare la Russia perché il “petrolio e il gas non si possono mangiare”. Putin ha una lista d’attesa di clienti eccellenti, e sta già costruendo le nuove strutture per i rifornimenti verso la Cina e il Pacifico. Altrettanto fa l’Iran con India e Cina, e il Venezuela verso il Brasile e il subcontinente. Il mercato “occidentale” non è più imprescindibile, la dipendenza sarà reciproca, sicuramente non è più unilaterale. Chi dipende da chi?
Bruxelles deve decidere se continuare ad accodarsi alle avventure nel mondo promosse dal racket di Bush – sempre e solo contro i diretti fornitori dell’Europa! – oppure guardare il mappamondo, e convincersi che è più vantaggioso accordarsi con gli iraniani e i russi. La cosa più puerile, in ogni caso, è il mercimonio dei diritti umani a cambio d’affari.
Il racket, invece, non ha nulla da perdere con embarghi o ritorsioni contro l’Iran, visto che gli Stati Uniti hanno interrotto qualsiasi relazione da tre decenni, e non si sognano certo di “democratizzare” i fidi soci dei regimi feudali della penisola arabica.

Dopo aver proceduto a de-industrializzare, con il trasferimento all’estero di tutta la struttura produttiva, le condizioni generali di vita negli Stati Uniti sono precipitate, la classe media si è impoverita, tutti comprano le merci importate dalla Cina, presenti in ogni scaffale, indebitandosi con le carte di credito.
La prima sfida aperta al regime è stato portata a segno dalla parte più vulnerabile e castigata della plebe. I latinoamericani hanno incrociato le braccia, si sono ribellati contro il pericolo di essere dichiarati — con un tratto di penna – delinquenti sociali, deportabili in qualsiasi momento. Riesce difficile immaginare uno scenario in cui 15 milioni di persone possono essere deportate, se non pensando a uno stadio stalinista del neoliberismo.
D’altronde, con l’abbondanza di personale proveniente dalle fila dei servizi segreti, sino ai vertici più alti del regime (ieri papi Bush, oggi il nuovo ministro della difesa), è impossibile non rivelare una similitudine con l’Unione Sovietica post-Breznev, quando il KGB dirigeva Partito e Stato con Andropov.

Il racket è vicino al capolinea, ma quel che preoccupa è che non sembra che esistano soluzioni diverse alla crisi severa degli Stati Uniti. La prova venne dall’opaco Kerry: fallì perché non si identificano differenze sostanziali tra i due partiti, né un nuovo progetto di Paese all’altezza che la circostanza storica impone. Appaiono come due correnti di un unico partito, quello del capitalismo finanziario, con differenziazioni minori, di tipo tattico.
Entrambi intrappolate nell’utopia dei tecno-guerrieri con incomparabile capacità distruttiva (per il nemico), ma con il tallone d’Achille di “zero morti” (propri). Contraddizione insanabile che si accompagna alla doppia morale, all’incoerenza di una scala di valori a estensione variabile, che acutizza lo stridore lacerante tra discorso pubblico e pratica quotidiana.

Questa è la diffusa percezione del sud del mondo, nella latitudine non-industrializzata, nell’area araba, in Oriente e in America latina.
E anche tra le fila dei latinos e degli afro — che forniscono soldati a basso costo per le tecno-guerre – tangibile espressione della discriminazione e della disgregazione interna, e del selettivo sistema di assimilazione etnica degli Stati Uniti. Accanto al tradizionale sbarramento all’accesso verso l’élite WASP, e alla chiusura verso gli strati medi, oggi l’impero moribondo impone il “numero chiuso” anche per il riconoscimento legale dello status di plebeo. In fondo, l’integrazione giuridica piena degli afroamericani è cosa degli anni ’70, pagata con il sangue di Martin Luther King e Malcolm X, e troppi altri.
La scarsa coesione e solidità del corpo sociale è una delle ragioni che motivano la creazione artificiale del “nemico esterno” permanente. Dopo il comunismo, il surrogato dello Stato-delinquente, poi una realtà ancor più impalpabile come “Al Qaeda”, attualizzazione della cinematografica Spectre. A forza di esportarla, della democrazia non è rimasto quasi nulla.