di Gaspare De Caro e Roberto De Caro

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Vittime (I)

Etiche di Stato. «La guerra è ciò che ne sperimentano le vittime. È in quest’ottica che la guerra risulta una cosa impensabile, non giustificabile in nessun caso, e per nessun fine». Così Gino Strada nella prefazione a Howard Zinn, La guerra giusta (Charta, Milano 2006). Questa definizione di ‘guerra’ e quanto l’autore ne deriva appaiono del tutto condivisibili a chi abbia una plausibile idea di umanità. Ma dire che oggi da noi tale idea è minoritaria è un eufemismo. Bene che vada, il rifiuto radicale della guerra è ormai comunemente considerato mancanza di coraggio democratico, irresponsabile e supponente cecità di fronte alle dure esigenze della vita.

Non a caso l’onorevole Russo Spena ha di recente fornito il suo apporto creativo alla propaganda bellica, coniando via radio una nuova accezione della categoria di «realismo radicale» per dar conto ai propri fan della folgorante saggezza che illumina chi assume il comando.[1] Del resto i distinguo acrobatici sono largamente autorizzati dal pacifismo di piazza, che come ai tempi dei bombardamenti in Serbia si è liquefatto al sol dell’avvenire quando la Sinistra ha preso in mano la situazione. I «senza se e senza ma» che si pretendevano dal governo Berlusconi si sono d’un subito trasformati in delega in bianco al governo Prodi, che ha potuto pure usufruire di robuste manifestazioni di appoggio. Per esempio la Tavola della Pace ha rivendicato l’uso umanitario dei carri armati in Libano, un modello per il futuro, chiarendo definitivamente che il problema è chi li guida: se è la Sinistra va bene, se è la Destra no. Una fiducia, questa sì, senza se e senza ma, simile a quella riposta in Clinton da Woody Allen, quando in Italia a fine anni ’90, durante un tour promozionale di uno dei suoi stanchi film, sollecitato in televisione da un giornalista di un commento all’ennesima strage di civili iracheni da parte dell’aviazione statunitense (uno stillicidio durato anni: chi lo ricorda?), chiuse la discussione affermando che «se il presidente ha dato l’ordine di lanciare i missili, avrà avuto i suoi buoni motivi».[2] La Tavola della Pace oltre alle deleghe dispensa gratuitamente anche consigli al governo, invitandolo appunto a fare «come in Libano», e in fretta: «Chiediamo l’invio immediato di una forza di interposizione dell’Onu nella Striscia di Gaza. L’Italia si assuma la responsabilità di guidare l’impegno della comunità internazionale per la pace in Terra Santa e in Medio Oriente», si legge in un comunicato del 9 novembre 2006 firmato dal coordinatore Flavio Lotti. La relativa manifestazione del 18 novembre a Milano «per la pace e la giustizia in Medio Oriente» ha raccolto l’unanime adesione del popolo della Sinistra: sindacati, partiti, enti locali, associazioni, intellettuali sciolti e la sezione pistoiese di Emergency in libera uscita.[3] Il Partito dei comunisti italiani, da non confondersi con i comunisti stricto sensu, ha scelto di essere anfibologicamente presente anche alla contemporanea manifestazione antigovernativa romana.
Tutto ciò non deve stupire, è anzi un caso di scuola nel modello di Stato etico proposto dalla Sinistra e sposato dal suo popolo. Come insegna Zygmunt Bauman in una pagina davvero ineludibile, i «meccanismi di erosione della morale sono ulteriormente rafforzati dal principio della sovranità dei poteri statali, che usurpano la suprema autorità etica a nome della società che governano», sicché «i governanti degli stati non incontrano, nel complesso, alcun limite nella gestione delle norme vincolanti sul territorio soggetto al loro potere sovrano». E «quanto più spregiudicate sono le loro azioni in questo ambito, tanto più forti sono gli appelli all’appeasement, che riconferma e rafforza il loro monopolio e la loro dittatura nel campo del giudizio morale».[4]
Se occorre dunque registrare lo scarso appeal che l’intransigenza verso la guerra suscita tra i pacifisti – per non dire degli altri, su questo punto però perlomeno più onesti –, ancor più problematico appare il consenso sul concetto di ‘vittima’. È storicamente provabile e provato che i popoli sono inclini a dar poco peso agli effetti delle guerre quando non li investano direttamente, ma è pur vero che, per dirla ancora con Bauman, negli individui il «dovere morale» può sempre fare affidamento «sulla propria fonte originaria: la fondamentale responsabilità umana verso l’altro».[5] Per arginare tale pericolo e minimizzare i rischi i governi adottano le più svariate strategie. Non c’è dubbio che il primo conflitto mondiale, figlio della Rivoluzione industriale e dell’espansione coloniale, fu la Madre delle propagande belliche avvenire. Madre vittoriosa nella battaglia decisiva contro ogni internazionalismo proletario, presente e futuro: un Mein Kampf universale, immediatamente fatto proprio dalle nazioni europee e dall’interventismo democratico – in soccorso rosso laddove ancora si indugiava («Noi non abbandoniamo la patria nel momento del pericolo», proclamarono i socialdemocratici tedeschi; in Italia la questione fu risolta da un colpo di Stato) –, e appena fu possibile da URSS, USA e ogn’altro loco. È dall’inventivo messaggio promozionale della Grande Guerra, sempre rielaborato alla bisogna, che le genti hanno appreso la lezione fondamentale: l’altro non è una vittima, e men che meno un fratello, è il nemico. Stabilito l’assunto, restavano i corollari. Fu subito evidente che per sradicare negli individui eventuali afflati umanitari, occorreva raffigurare l’altro alla stregua di un animale, di una cosa, o almeno di un subumano: un esercizio cui si applicarono assiduamente non solo gli Stati maggiori degli eserciti, i preposti uffici e ogni periferica emanazione dello Stato, ma anche spontanei e numerosi molti dei cervelli che abitavano creativamente la società. Si scoprì nella caleidoscopica frenesia applicativa l’enorme forza maieutica del razzismo, gran parte della quale risiedeva nella sua elasticità. Fu così che per esempio in Italia, a metà degli anni ’30, la nietzschiana bestia bionda che in virtù del suo arianesimo si trovava ora al vertice della classifica, appena due decenni prima giocava in serie B, nel campionato dei selvaggi. La giovane nazione era allenata a questo sport, fin da bambina. Pescando da un’infinita casistica: Leonida Bissolati scopriva che «i Semiti occupano un posto di mezzo nella scala dei tipi umani, tra il tipo giallo e l’ariano»; Cesare Lombroso dimostrava con la sua scienza positiva che l’anarchico è un «delinquente-nato», i cui «caratteri tipici» si scorgono nella «faccia, che presenta un’asimmetria spiccatissima»;[6] prima ancora, e anche dopo, per tutti – tranne per gli interessati, s’intende, come sempre nel razzismo – il Sud era «Affrica», e i «caffoni» canaglia, plebe, «più vicina all’animalità che all’umanità», suggeriva il patriota Angelo Camillo De Meis; infine, per non trascurare le nostre radici cattoliche, «cani […] che sentiamo latrare per tutte le vie» erano gli ebrei per Pio IX.[7]
Di solito una buona campagna di abbrutimento dell’altro è propedeutica al suo massacro, sia in forma di propaganda ad usum interno sia esperita direttamente sui corpi alieni, come nei campi di concentramento e di sterminio, nei Gulag, nelle carceri, a Guantanamo, nei Centri di permanenza temporanea. Così avvenne con il Terrore e la ghigliottina – «ingresso della rivoluzione industriale nella sfera della pena capitale […] dispositivo tecnico di omicidio seriale», il cui «risultato finale sarà la disumanizzazione della morte: declassati dal genere umano, gli uomini inizieranno a essere abbattuti come animali»[8] –, con le fuciliazioni in massa dei comunardi, con gli eccidi risorgimentali in meridione, con la Conquista del Desierto in Argentina,[9] con la guerra in Cina contro i Boxer, con il genocidio armeno, con quello degli ebrei e del popolo romanó, con le deportazioni staliniane, con Hiroshima e Nagasaki, in Cambogia, Jugoslavia e Ruanda. E si potrebbe continuare con un pressoché inesauribile elenco di orrori, in cui la vittima non appare mai tale ai suoi carnefici: né a quelli che direttamente compiono l’atto, né a quelli che l’hanno autorizzato, né a quelli che hanno delegato gli uni e gli altri. Se il percorso sarà suggellato dalla vittoria, nessuno si girerà indietro a reclamare: «Chi parla ancora, oggi, del massacro degli armeni?», disse Hitler il 22 agosto del 1939 ai comandanti in capo delle forze armate del Reich per incitarli a sterminare rapidamente i polacchi. La comunità internazionale aveva subito dimenticato, perché, chiariva, «il mondo crede soltanto ai successi».[10]

Uomini e topi. Non bisogna far finta di ritenere che tutto ciò appartenga a un remoto passato o a luoghi esotici, o che si manifesti occasionalmente. Certo, dopo la Shoah, le lotte degli anni ’60 e ’70 contro la discriminazione razziale negli Stati Uniti, la sconfitta dell’Apartheid in Sud Africa, l’argomento sub specie scientifica non è ancora rispendibile. Ma il razzismo ha mille volti e questa stagione di guerre, sfruttamento, miseria e relative migrazioni ne mostra più di quanti se ne vogliano ammettere. Prendiamo il caso Fallaci. La sua «letteratura di guerra», come è stata opportunamente definita la produzione trash degli ultimi anni,[11] ha scatenato polemiche e consensi in tutto il mondo. Chez nous il centrodestra c’è andato a nozze e l’ha eletta paladina della crociata contro la barbarie islamica, il Corriere della Sera ne ha liberalmente ospitato il pensiero, la Rizzoli ha guadagnato una montagna di denaro con i suoi libri, il nuovo papa l’ha ricevuta a Castel Gandolfo. Fin qui tutto bene. Il problema è sorto quando il 14 dicembre 2005 il Presidente Ciampi ha deciso di conferirle una medaglia d’oro quale «benemerita della cultura». Non sarebbe successo nulla se non fosse che è talmente «ricorrente, nella prosa della Fallaci, la descrizione di arabi e islamici tramite il richiamo ad animali sporchi o infetti, oppure ai loro versi»[12] (per esempio: «moltiplicarsi come ratti», di sperimentata efficacia antisemita), che anche gli esperti di razzismo se ne sono accorti. Dapprima costoro hanno osservato un po’ allibiti il loro Delegato Supremo premiare con l’onoreficenza massima un’Idea di cui lo Stato italiano si era fatto diretto promotore l’ultima volta nel ’38, come sanno gli esperti (continuità delle Istituzioni, n’est-ce pas?). Poi però hanno reagito. Perdio se hanno reagito! Hanno scritto una lettera:

Al Presidente della Repubblica italiana
Carlo Azeglio Ciampi

Illustre Signor Presidente,
il conferimento alla giornalista Oriana Fallaci di una medaglia d’oro in quanto «benemerita della cultura» è un fatto che ci indigna.
Come cittadine e cittadini impegnati nella difficile battaglia contro ogni forma di razzismo, nel campo del sociale e nei settori accademico, della ricerca, della produzione culturale e artistica, riteniamo che il conferimento del premio ad Oriana Fallaci da parte della massima autorità dello Stato contraddica all’idea stessa di cultura e contribuisca a legittimare xenofobia e razzismo.
Come Lei ben sa, l’opera più nota della giornalista in questione è La rabbia e l’orgoglio. Questa congerie di semplificazioni storiche, di scomposte e violente invettive contro i «nemici dell’Occidente», di volgari insulti razzisti, di sguaiate espressioni machiste e guerresche non solo non rende onore alla cultura e all’Italia, ma concorre ad alimentare intolleranza e fanatismo.
Di ben altro ci sarebbe bisogno in un tempo, com’è il nostro, di aspri conflitti che alcuni vorrebbero trasformare in ‘scontri di civiltà’: ci sarebbe bisogno di parole che ricordino almeno che la Costituzione italiana, di cui Lei è supremo garante, ripudia il razzismo e la guerra.[13]

Che bello! Sembra vero. E poi? Poi niente. Gli esperti la parte nella pièce l’avevano recitata. Riposte le maschere di scena sono tornati in sonno. E ancora dormivano o firmavano altri appelli quando i loro politici di riferimento – nella gioia e nel dolore, in ricchezza e in povertà – hanno cominciato a dettare la linea. Il 22 febbraio 2006 il Consiglio Regionale della Toscana ha insignito la Fallaci di un’ulteriore medaglia, sempre d’oro. Il presidente Riccardo Nencini è andato di persona a portargliela a New York. Mugugni marginali sono stati tacitati da Claudio Martini, presidente della Regione, che ha impartito sdegnato ai critici – e dunque anche agli esperti di razzismo in sonno – una memorabile lezione di democrazia e tolleranza: la Regione Toscana «non defletterà da una cultura di dialogo e di confronto con tutte le religioni e tutte le culture e, sicuramente, non aderiremo alla cultura di demonizzazione degli altri».[14] Si potrebbe obiettare che genuflettersi di fronte a una delle massime esponenti della «cultura di demonizzazione degli altri» non sia il modo migliore per combatterla, quella cultura. Ma tant’è, i politici non devono rendere conto a nessuno della logica, soprattutto perché nessuno glielo chiede, tanto meno gli esperti. Ma il bello è venuto alla morte della Fallaci: «Scompare una giornalista di fama mondiale, autrice di grandi successi editoriali, appassionata protagonista di vivaci battaglie culturali» (Giorgio Napolitano);[15] «Ha sempre dato tutta se stessa nella professione, nelle battaglie culturali in cui credeva […]. Anche quando non si condividevano le sue idee le si riconosceva coraggio intellettuale e sincerità umana, considerandola sempre una interlocutrice con cui discutere e confrontarsi con franchezza» (Piero Fassino); «Scrittrice e giornalista di indiscusso valore, grande protagonista della cultura italiana degli ultimi decenni, osservatrice attenta della realtà contemporanea» (Franco Marini); «Nell’apprendere la notizia della scomparsa di Oriana Fallaci, illustre personalità della letteratura e del giornalismo italiano e protagonista del dibattito culturale sui temi del mondo contemporaneo, esprimo a voi tutti i sentimenti del profondo cordoglio mio personale e di tutta la Camera dei deputati» (Fausto Bertinotti); «Perdiamo una grande giornalista, una donna libera, coraggiosa e intelligente, al di là delle idee che si possano avere. Era una delle donne che hanno aiutato a capire le cose che accadevano nel corso del tempo, dal Vietnam ai fatti del dopo 11 settembre, con la libertà che deve avere una grande giornalista» (Walter Veltroni);[16] «Una fiorentina illustre, una giornalista importante, una scrittrice brava ed efficace» (Leonardo Domenici);[17] «Si può dare o meno una lettura ideologica degli scritti della Fallaci. Questo non impedisce però di considerarla una delle più grandi giornaliste del Novecento, una delle più straordinarie pasionarie della libertà e della democrazia, e – di conseguenza – una delle più grandi fiorentine» (Matteo Renzi);[18] «Molte delle analisi degli ultimi libri non mi trovano d’accordo, ma sono state sempre analisi acute che ci hanno obbligato a pensare» (Romano Prodi);[19] «Una straordinaria personalità del giornalismo e della cultura italiana, la sua scomparsa ha lasciato un grande vuoto» (Massimo D’Alema).[20]
Come si possano conciliare politicamente e moralmente tali ammirate dichiarazioni con i contenuti della lettera degli esperti a Ciampi rimane un mistero. Ma gli italiani non sono cattolici a caso, in specie se atei, professori e di Sinistra: è questione di fede, mica di politica. Inoltre vale sempre l’apoftegma di Adolf Rudnicki, che per esser sopravvissuto al ghetto di Varsavia sapeva di cosa parlava: «in generale, rinnegare i propri sentimenti più intimi ed elevati è assai più facile che scendere volontariamente sia pure un solo gradino della scala sociale».[21] In verità la moneta suonava sorda fin dalla fine. Dalla fine della lettera, che reclamando «parole» invece che fatti mostrava la sua natura ludica, ammiccante. È certamente ormai noto anche agli esperti che in tema di razzismo lo Stato italiano si è rifondato con la legge Turco-Napolitano sull’immigrazione, senza che la Costituzione suggerisse alcunché a nessuno. In quanto alla guerra poi, non si comprende in che modo si possa continuare a dire che l’Italia la ripudia, visto che è dal 1991 che bombarda civili e militari per risolvere le controversie internazionali: un palese capovolgimento giuridico, come sanno tutti, imposto dalla prassi e ratificato a posteriori, alla maniera dei grammatici. Sicché di tutto c’è bisogno tranne di sentir ricordare che la «Costituzione italiana […] ripudia il razzismo e la guerra». E men che meno da parte di chi, «supremo garante» o no, razzismo e guerra li ha adottati.
Infine una domanda per capire: chi glielo fa fare a questi insigni rappresentanti dello Stato di elogiare tanto indecentemente una così manifesta esplosione di razzismo? Non hanno paura della Storia? Magari un po’ sì, ma in tempi di rutilante ripristino dei sacri valori, con i patrioti le Istituzioni fanno come si fa con il maiale, non buttano via niente, se ci si passa la metafora norcina. [continua]

[1] Prima che il senatore ne facesse uso per spiegare il 5 novembre scorso agli ascoltatori di Radio Onda Rossa, durante la trasmissione settimanale del Cobas nazionale, il perché e il percome di Rifondazione al governo, tra gli addetti ai lavori «realismo radicale» faceva riferimento al fenomeno della leadership carismatica e al suo contesto (cfr. Luciano Cavalli, Il leader e il dittatore. Uomini e istituzioni di governo nel «realismo radicale», Ideazione, Roma 2003: un libro a favore dell’ineguaglianza di uomini e popoli), o, in alternativa, alla corrente pittorica dell’iperrealismo. Quale dei due significati avrà ispirato Russo Spena? Comunque sia, ringraziamo Sergio Falcone per averci segnalato l’intervento dell’illustre giurista, così per una volta verba non volant.

[2] Sebbene newyorchese, Woody Allen faceva parte a pieno titolo di quella schiera di «divi di Hollywood che sostengono Clinton […] anche quando tira le bombe tipo John Wayne e berretti verdi per sfuggire all’impeachment causa pompini» (Alberto Arbasino, Gli ‘altri’ siamo anche noi. I complessi dell’Occidente, in la Repubblica, 12 gennaio 1999).

[4] Zygmunt Bauman, Modernità e Olocausto, il Mulino, Bologna 1992, p. 268.

[5] Ibid.

[6] Cesare Lombroso, Gli anarchici, con una testimonianza di Pietro Valpreda, Claudio Gallone Editore, Milano 1998, p. 29. A beneficio degli scettici Lombroso adduceva l’autorevole testimonianza di «un giudice, l’egregio avvocato Spingardi», il quale, oltre ad aver «fornito molti materiali per questo studio», giurava di non aver «mai visto un anarchico che non fosse segnato o zoppo, o gobbo, con faccia asimmetrica». Ma la prova definitiva era il tatuaggio, «quel segno così frequente del reo-nato»: «Nei moti anarchici di Londra nel 1888» infatti «un testimonio oculare notava fra i dimostranti il gran numero di tatuati, il che vuol dire di criminali» (ivi, pp. 23 s.).

[7] Cfr. Alberto Burgio, La guerra delle razze, manifestolibri, Roma 2001, p. 85; Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia. 1870-1945, a cura di Alberto Burgio, il Mulino, Bologna 1999, passim.

[8] Enzo Traverso, La violenza nazista. Una genealogia, il Mulino, Bologna 2002, p. 34.

[9] Sullo sterminio degli indios in Argentina, un genocidio della modernità generalmente trascurato nelle feroci, spregiudicate graduatorie stabilite dagli storici della disciplina, cfr. Gaspare De Caro – Roberto De Caro, Il genocidio rimosso, in Hortus Musicus, V, 20, ottobre-dicembre 2004, pp. 55-57.

[10] Cit. in Marco Impagliazzo, Una finestra sul massacro. Documenti inediti sulla strage degli armeni (1915-1916), Guerini e Associati, Milano 2000, p. 11.

[12] Cfr. Valerio Evangelisti, La forza del niente: il caso Fallaci, in https://www.carmillaonline.com, 8 dicembre 2004. Chi credesse che alla Fallaci ripugnassero unicamente i migranti dei paesi musulmani («Ladri, rapinatori, terroristi di Al Qaida. Prostitute, lenoni, delinquenti ultracondannati, commercianti di droga, mendicanti, ammalati di Aids», così li apostrofava in La rabbia e l’orgoglio, Rizzoli International, New York 2004, p. 148) sarebbe lontano dalla verità, sono solo in cima alla lista: «I don’t love the Mexicans» – confessava ad esempio a Margaret Talbot, The Agitator, in The New Yorker, 29 maggio 2006 –, ma «se avessi una pistola e mi chiedessi di scegliere chi è peggio tra i musulmani e i messicani avrei un attimo di esitazione; poi sceglierei i musulmani perché mi hanno scassato le palle», precisava con la consueta prosa fallica.

[13] La «lettera aperta» è stata pubblicata dal manifesto il 15 dicembre 2006 e il giorno dopo da Liberazione, «sia pure relegandola nella rubrica delle lettere», si duole insaziabile Annamaria Rivera. Tra i firmatari oltre alla stessa Rivera, Alessandro Portelli, Alberto Burgio, Sandro Mezzadra, Salvatore Palidda, Carlo Ginzburg, Marco Revelli, Giuseppe Prestipino, Nicola Tranfaglia. Tra i politici Pietro Folena e l’onnipresente Giovanni Russo Spena. Per l’elenco vedi qui e qui.

[14] Fallaci, la medaglia divide la Regione, in Il Corriere di Firenze, 24 gennaio 2006.

[15] Dopo l’elogio funebre di una delle più violente promotrici del concetto di inferiorità delle altre culture e popoli e individui (queste alla fine le sue «vivaci battaglie culturali» e relativi «successi editoriali»), in occasione «della Giornata dell’Asia e del Pacifico, che si è tenuta a Villa Madama con la partecipazione di numerosi ambasciatori e diplomatici dei Paesi dell’area», dato l’auditorio Napolitano si è affrettato a dire che non dobbiamo, noi occidentali, «presumere di essere portatori di una civiltà superiore» (la Repubblica, 1 dicembre 2006). Tutto e il suo contrario insomma, purché ogni cosa alla sua ora, come fu per l’appoggio alla bestiale repressione sovietica della rivolta ungherese, che gli aprì una luminosa carriera e che in seguito ripudiò senza mai pagare pegno: chi gli ha chiesto conto di tanta ingratitudine al momento dell’assunzione?

[18] Nella centoquarantottesima e-mail settimanale (25 settembre 2006) spedita ai cittadini (solo a quelli che lo chiedono, s’intende, e a fin di bene: per «Ricostruire l’agorà») dal sito del presidente della Provincia di Firenze (http://presidente.provincia.fi.it) – dal 2004 appunto Matteo Renzi, classe 1975 –, in risposta a un signore che si firmava «con nome, cognome, e la definizione “fiorentino e antirazzista”, lamentandosi della mia dichiarazione in morte di Oriana Fallaci in cui ho parlato di lei come di una delle più forti espressioni della fiorentinità».

[19] «Fallaci protagonista di vivaci battaglie», in http://www.corriere.it, 15 settembre 2006.

[20] In la Repubblica, 15 novembre 2006.

[21] Adolf Rudnicki, La vita eterna di Marek Karmanski, in Cronache del ghetto, Marsilio, Venezia 1995, p. 143.