di Chiara Cretella

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Alessandro Raveggi, L’evoluzione del capitano Moizo, introduzione di Tommaso Ottonieri, Zona, 2005, pp. 84, € 11,00.

Ne L’evoluzione del capitano Moizo, Alessandro Raveggi mette in scena le cronache dei quotidiani bombardamenti. Parola intesa in più sensi: bombardamenti reali come quelli del Capitano Moizo, uno dei primi propugnatori dell’aviazione nel bombardamento bellico durante la guerra di Libia, quelli della guerra onnipresente – chiamata metaforicamente “missione di pace” -, bombardamenti figurati – quelli dei media che ci invadono d’immagini e slogan – : «sta sulla tv satellitare / supernova che non si placa / tanto che hanno collocato un manto di stelle cadenti / sui biscotti al cioccolato / da inzuppare in breakfast polisemici». Ci sono poi in Raveggi, bombardamenti a caduta libera sulla lingua, operati dall’autore-attore sul testo, che mimano la performance collettiva dell’assurdo.

È una marmellata di plurilinguismo, un Orfeo satellitare che fabbrica — cito Raveggi — «Torri di Babele (…) su cui si spaccheranno le teste decine di filologi di critici». È il poeta che gioca tirando fuori dalla cilindro il ludico di Tristan Tzara, colui che riflette sulla costruzione della decostruzione piuttosto che cadere nel «trabocchetto di Narciso».
Il poeta che si affaccia da queste dense pagine sa di non valere un soldo, che l’impalcatura linguistica è solo una tower di Babele. È un piacere scoprire che un giovane studioso nato appena nel 1980 si inserisca a pieno titolo nella poesia sperimentale entrando dalla porta principale: nonostante la sua umile dichiarazione di lettore ai margini, di nota a piè di pagina, una sterminata cultura lo sorregge, un enciclopedismo quasi insostenibile, ai limiti del non-sense, una scoperta feconda in tempi privi di memoria culturale come la nostra. Loredana Magazzeni, a buona ragione, lo mette in correlazione con i futuristi antimilitaristi dell’area anarchica, Gian Pietro Lucini in primis, soprattutto delle sue Revolverate.
Bene, mi sono ricordata che una delle prime volte che ho incontrato Alessandro abbiamo parlato di poesia in una bella piazza di Firenze, sui gradini del Caffé delle Giubbe Rosse, ritrovo dei futuristi: è il suono della guerra di Marinetti, lo “zang-tumb-tumb” delle bombe, che emerge, capovolto di segno, in questi versi di Raveggi: «tu trovi conforto obliquo incredibilmente / dissertando a vuoto sulla guerra-girandola / tra il ra-ta-tam mitragliato / le canzonette di Morandi». Un collage d’avanguardia, dove l’accostamento di immagini diverse, sforbiciate dal cut-up dei giornali e della televisione, sorregge un ritmo anche topografico che fa pensare al viaggio.
Poesia in viaggio, quella di Raveggi, poesia schizoide della Metrofaga, in cui spostarsi può avere la temporalità lampo di una mail, dal cuore in formalina di una città-bomboniera come Firenze, su in alto fino allo schianto delle torri di New York. La poetica del viaggio è quella del autore-viaggiatore nel tempo, colui che scioglie in musica l’andamento di un continuum di reclame, foto, detriti linguistici avvisati e subito scomparsi dalla visuale di un finestrino. Un richiamo a Kerouac — tra l’altro citato nel testo — un po’ di vomito di Ginsberg ed il frullato dei chimismi lirici è fatto.
Mi sono chiesta quanto questa città abbia influenzato la topografia dei suoi versi, questa puttana incartata in vetrina, rivenduta ai saldi al miglior offerente, lei, lucida nel suo anticume ingiallito per i turisti giapponesi, incagliata nel passato come il Ponte Vecchio che si lustra nel suo oro finto-antico. Quanto, questa poetica del posticcio, non rimanga appiccicata addosso ad un dottorando in Estetica, che elabora una tesi sul Postmoderno. Quanto, di questi bombardamenti citazionisti, venga premeditato da una mente che non ha vissuto le lotte passate, che non ha vissuto la Storia ma solo la fatica quotidiana di ricordarla per poi ucciderla, un «eccentrico attorucolo avanguardia illeggibile / boccacce alla tradizione / bomba basca indipendentista», come si definisce Raveggi, in una rara dichiarazione allo specchio, in cui il lettore-passeggiatore scorge anche l’autorevole dichiarazione del poeta-fingitore, come direbbe Pessoa.
La società dello spettacolo definisce il sostrato su cui esercitare l’arte del bombarolo, colui che con passione si dedica al tritolo, e cerca di dargli voce parlando al cuore inesploso del popolo. La poesia di Raveggi funziona come detonatore, si rivolge, impugnando l’arma della critica, a colui che manca d’ogni cosa, al lettore-telespettatore che guarda scorrere il mondo insieme ai sottotitoli preconfezionati, perchè il lettore è ormai sordo. Non sentite il rumore della bomba? Le invettive di Lucini che colpiscono una girandola di personaggi sono le stesse lanciate da Raveggi: «è un fuggi-fuggi da cosa / donna marrone dama rosa, / che controlli i Numeri della Fortuna / tra show di comici spenti, / sprizzanti cosce, monovolume e struzzi / distribuendo paillettes / negli stacchetti delle assurdità?».
Mi sono chiesta come un attore di teatro possa rappresentare ciò che è osceno, cioè sempre fuori scena. Lo scarto irriducibile tra il detto e il non detto, in cui si insinua la poesia, a rendere vivo questo interstizio semplicemente evocandone la visionarietà. La capacità di rendere vivo il visivo. Quello che sta dietro di noi, che Raveggi vede nell’atrocità apparentemente vuota tra un frammento e l’altro, la logica del senso sta nel raccogliere in una collana di perle le storie di ieri e raccordarle a quelle di oggi. L’apparenza inutile e muta di ogni singola individualità non è che l’epifenomeno di una mutilazione, il sangue che gronda questa amputazione si scioglie nei versi che lo incastrano nel testo. Questo è il senso del suo contesto.
Nella poesia Lo-Fi del Mundo, in poche righe Raveggi disegna le coordinate dei bombardamenti della guerra, della storia, delle azioni di lotta e di repressione. E senza una chiave, sottilissima, capace di cogliere allusioni storiche, militari, filosofiche, letterarie, musicali, geografiche, scientifiche, addirittura sportive, non si può entrare in questo narrazione che è la nostra storia. Ergo, noi non possediamo le chiavi della nostra casa:
Cito ancora Raveggi: «c’è che palesiamo i sintomi / di una deflagrazione necessaria / di una denudazione che ci illuminerà cervella / tu, la parola dell’oscurità dei Cornetti Algida e delle arachidi / di questo avviso allarmato / al pubblico del cinema / che mancheremo di comprendere». E ho pensato alle poesie di Mao, spiegate da Franco Fortini quando chiarifica la sua riluttanza a pubblicarle: «non scrivete come me, raccomanda Mao, nella lettera del 12 giungo 1957, decidendosi a raccogliere sue antiche e recenti composizioni. I giovani non debbono scrivere secondo le antiche regole metriche, e nella lingua dei classici, incomprensibile alle masse. E lui, allora, perchè scrive nello stile antico, disperazione dei traduttori, irto di allusioni letterarie e storiche? Credo che l’unica risposta possibile sia: perchè il solo modo, per lui, di distanziare sentimenti e oggetti di così terribile urgenza, come gli episodi della guerra e della costruzione del socialismo, è inserirli nell’infinta prospettiva del passato» (Franco Fortini, introduzione a Mao Tse-tung, Poesie, Garzanti, Milano, 1976, p. 8).
Questa è la spiegazione per quanti di voi si chiederanno il perché di una poesia sperimentale, che impaurisce la logica continuità della poesia tradizionale, che è lontana dalla tradizione perché troppo vi affonda il coltello di sangue. Questa poesia, che Balestrini, Spatola e tanti altri autori hanno portato in scena negli anni Sessanta/Settanta, questa poesia che credevamo agonizzante, e che ora risorge più viva che mai nella sua agonia che è agonica, questa poesia commestibile perchè cannibale, questa poesia che rigetta «kebab islamico al tritolo». Questa poesia-sentimento del contrario: «non sappiamo cosa farcene della fame, / ci fa più gola la visione dell’ingurgitare, / più un Big Mac gestaltico sotto controllo, / del vecchio pane e svizzerina poco cotta».
Questa poesia che aggredisce perché ad-gredior, progredisce, questa poesia che è saggia perchè saggia lo smottamento del terreno di versi, che scivola perché scorre su un piano inclinato, questa poesia che sente perché percepisce con i sensi, questa poesia che finge perché è veramente attrice-interprete di se stessa. Questa poesia che performa perché è pre-forma, questa poesia “variazione Goldberg”, questa poesia cinematografica in bilico tra le braccia di King Kong, questa poesia che dice Raveggi è «rivoluzione idiota delle belle lettere», che scopre l’imbecille e lo castiga anche quando lo incontra nei propri versi, questa poesia che bastona l’amore, anche quello narciso dell’autore, questa poesia che canta la miseria fallologocentrica del discorso maschile, la sua erezione guerresca contrapposta all’ironica pisciata di un Orfeo impacciato. Questa poesia tetra perché teatro, questa poesia che sento mia perché è nostra, questa poesia nuova perché antica, a questa poesia totale rendo grazie.
Alla sua relativa, ignota mancanza di rivelazione, che la lascia oscura, in secondo piano, sullo sfondo, davanti al primo piano di un baluginio di spari, luci psichedeliche, viaggi neuronali. A questa poesia che è performance perfetta: poiché ci mostra l’imperfezione dell’azione. Un big-bang d’autore. L’evoluzione inversa in versi.