di Cesare Battisti

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[Questo testo, datato 30 gennaio 2006, è il primo fatto pervenire da Cesare Battisti dopo l’esilio. Lo abbiamo suddiviso in tre parti. Terminata la pubblicazione, aggiorneremo i nostri lettori sui più recenti quanto vacui tentativi di linciaggio dello scrittore, nonché sull’imminente uscita in Francia del suo nuovo libro, Ma cavale (“La mia fuga”).] (V.E.)

1. Premessa. Quale Verità?

Non ho alcuna intenzione di fornire l’ennesima analisi degli anni di piombo. Non potrei farlo. Perché sono una parte in causa, perché non sono uno storico e soprattutto perché mi è oggettivamente impossibile raccontare una ferita che non si è ancora cicatrizzata nel corpo sociale italiano. Ma se mi avventuro su questo terreno sdrucciolevole è perché dopo che sono fuggito dall’Italia nel 1981, durante i miei ventiquattro anni d’esilio politico e con l’attività letteraria che ne è seguita, ho dovuto continuare a rispondere alle stesse domande: “Perché sei un rifugiato? Come è possibile trent’anni dopo? Che cosa è successo nell’Italia del 1968?”

Cercando di rispondere a queste domande, ho sempre avuto l’impressione di non riuscire a dare la spiegazione giusta. Non riuscivo a formularla bene e sicuramente la mia condizione di rifugiato mi impediva di essere obiettivo. In piena corsa, è difficile vedere distintamente.
Adesso che non ho più nulla da difendere e che nessuno mi fa più certe domande, provo ancora a dare una risposta, consapevole che la natura di questo passato recente è troppo complessa per essere riassunta in pochi elementi. Molti artisti e intellettuali hanno cercato di comprendere e di spiegare questo periodo ma, nonostante il vantaggio dello scarto temporale, hanno tutti fallito. Gli uni perdendosi in contraddizioni, gli altri cedendo alla parzialità. Film, libri, documentari e dibattiti… si è fatto di tutto intorno a questi incomprensibili anni ’70. Ma il rumore sordo di un tassello mancante ci riporta sempre alla questione primaria: “Cos’è questa anomalia italiana del ’68?” Un conflitto le cui problematiche si trascinano, mentre la Storia attende di conoscere le ragioni che l’hanno causato. Perciò, per quelli che vogliono sapere, è necessario confrontarsi con le testimonianze di chi c’era, e credere che costoro si sforzassero sinceramente di guardare i fatti con obiettività. E’ questo che sto cercando di fare. Ma non da solo.
In questa rapida rassegna del panorama politico italiano che partorì, nel seno dell’Europa post-sessantottina, l’anomalia conosciuta col nome di “anni di piombo”, farò riferimento a tre argomenti. Il mio impegno nel movimento degli anni ’70, e il ruolo che vi ha giocato il mio ambiente familiare (una famiglia comunista, militante della prima ora con mio fratello maggiore eletto nelle liste del PCI). Farò soprattutto riferimento ad alcune argomentazioni di autori che non hanno mai nascosto il loro rifiuto netto e determinato delle scelte politiche, armate o meno, operate dalla ribellione che dilagava nelle strade italiane. Tra questi, Pier Paolo Pasolini, Sandro Penna, Mario Tronti. Mi dispiace di non poter citare con precisione le date di edizione dei loro articoli o dei loro discorsi, ma non sono in condizione di procurarmi tali dati. Posso pertanto contare solo sulla mia memoria. Spero che gli interessati possano perdonarmi. Se ho scelto questi autori è innanzi tutto perché ho sempre ammirato la loro capacità critica. E’ anche perché, in virtù delle loro posizioni francamente ostili alla nostra avventura armata, con ciò mi metto del tutto al riparo da ogni tentazione di parzialità.
Lo ripeto, non sono in condizione di fornire dei dati bibliografici. Innanzi tutto, sono un evaso e i bibliotecari hanno un’eccellente memoria visiva. E poi dubito che qui dove sono troverei i documenti che mi interessano. Ma soprattutto non mi va di trovarmi davanti uno scaffale interamente consacrato alla ricchissima produzione di questi autori. Finirei per perdere di vista i miei propositi iniziali passando di titolo in titolo, seguendo gli autori da un’epoca all’altra, dalla parola che dice alla riflessione che interroga. Il piacere della rilettura. Tutto questo è bello e interessante ma non mi faciliterebbe il compito di parlare senza timore e di raccontare tutto ai miei amici lettori. Sappiamo bene che solo quando non ci prendiamo sul serio diciamo una verità che tutti possono comprendere. Per questa ragione, invece di tuffarmi nell’opera della riflessione, considero più efficace mantenermi sui toni più diretti che caratterizzano gli articoli e qualche discorso improvvisato all’epoca da parte di questi stessi autori. L’analisi comportamentale non è il mio campo. Sono un romanziere e mi limito a esplorare i sentimenti. Sono consapevole che non è facile per me affrontare gli anni ’70 con i propositi che ho appena spiegato, ma mi sento più che mai libero di parlare a chi vuol conoscere. Non avrò timore, a beneficio della chiarezza, di ricorrere a discorsi facili e superficiali. Se scelto con intenzione, questo può rivelarsi un formidabile mezzo espressivo, quando si ha qualcosa da dire. A che scopo riempire pagine e pagine di cui l’una non è che la spiegazione dell’altra? Se questa fosse letteratura, scriverei un romanzo al giorno. Io amo scrivere, abbandonarmi alla perversione della scrittura, gioire di un piacere osceno quando agguanto infine la parola che va e viene come una mosca, per strapparle abilmente le ali e tutto quanto eccede la sua primaria nudità. E’ così che voglio affrontare la spiegazione di quest’epoca per condividerla con chi amo e con chi, e sono i più, non ho mai incontrato. Non aspettatevi dunque discorsi eloquenti o asserzioni assiomatiche. Qui non c’è posto per verità indiscusse.
Lasciamo che la Verità alimenti la forza prodigiosa della gioventù o che fori con la sua luce la cecità dei più maturi. Tranne i fanatici che la dispensano continuamente e gli illuminati che la negano per principio, la verità si ritrova spesso disoccupata. Francamente, ho fatto fatica a concepire una società senza verità. Essa è indispensabile. E non si butta la verità nella spazzatura solo perché c’è un bel numero di imbecilli che la vorrebbero Una, Sola, Assoluta e barbuta come Dio. E’ possibile che tre quarti dei viventi non siano mai stati toccati dalla bontà divina, ma chi potrebbe dire sinceramente di non avere mai avuto il proprio piccolo attimo di verità?
Infine, abbiamo tutti gustato quel favoloso momento in cui il mondo ci pareva nostro perché avevamo trovato la nostra verità. Salvo, forse, qualche sfortunato, nato ed “educato” da un guru della piana del Larzac che, poveretto, per toccarla un istante ha dovuto seppellire suo padre. Niente di grave, non c’è età per saltare sulla verità e galoppare con lei il tempo di un giro di un giro del maneggio.
La Verità non esiste ed è questa la sua forza. Un sentimento, delle emozioni, un’idea, essa è tutto questo al medesimo tempo, e si lascia modellare secondo il volere e la necessità di ciascuno. E’ allora che essa smette di essere un’astrazione, che agisce sul soggetto, esiste in lui, ma possiede una forza propria. Certe volte capita che, presa dalla velocità, perda di vista il soggetto della sua esistenza e cada di schianto a terra. Ecco perché talvolta accade di trovare dellaa verità morta un po’ dappertutto, in un libro di storia, tra i petali di una rosa, nel bel mezzo di un codice penale o di una rivista dimenticata su una panchina.
E così, parlando di Verità, vi ho rifilato la prima menzogna.

2. Il potere democristiano.

Non voglio risalire troppo a monte, ma mi è impossibile affrontare gli anni di piombo senza dire due parole sulla Democrazia Cristiana. Un partito che, dopo la fine della seconda guerra mondiale, ha governato l’Italia senza interruzione per mezzo secolo.
Bisogna sapere che negli anni ’20, lo Stato fascista di Mussolini era fondato sulla piccola borghesia e sulla classe contadina che nutriva aspirazioni borghesi. E’ su questa stessa base elettorale che si è venuto a creare lo Stato democristiano alla fine della seconda guerra mondiale. Molto prima, quando l’ex socialista Mussolini aveva tentato la prima reale unificazione del giovane stato italiano, questa piccola borghesia e questi pii contadini formavano un mondo unito, fondato su una stessa morale e una medesima retorica. Questo universo, ben ancorato al suo contesto culturale, non produceva necessariamente dei valori negativi. Esprimeva un modello di vita senz’altro criticabile ma almeno reale. In seguito, strappato al suo contesto e proiettato brutalmente in una dimensione nazionale, darà vita al discorso negativo e repressivo che fu alla base del successo mussoliniano prima e della Democrazia cristiana poi.
I Democristiani (DC, partito nato dal giorno alla notte per opera delle forze alleate al fine di impedire l’avanzata dei comunisti oltre la cortina di ferro) hanno sempre assicurato di non avere niente in comune con i fascisti del passato. Se ciò era vero da un punto di vista formale, le stesse basi della loro politica contribuivano a smentirlo. Dopo la legge riguardante l’amnistia, approvata da Togliatti, il capo del PCI di allora, i più insigni rappresentanti del popolo non dovettero fare altro che barattare la loro camicia nera con una camicia bianca dal colletto inamidato. Mentre l’amministrazione pubblica sbiancava i prefetti manganellatori, il potere centrale metteva in prima fila qualche “umanista” (come De Gasperi, pilastro della DC) per coprire e riciclare gradualmente i più fedeli collaboratori del vecchio regime. Alcuni di questi collaboratori resteranno alla testa del governo italiano fino agli anni ’90. Questi cambiamenti di casacca, corroborati dall’inesauribile finanziamento degli USA, ha permesso loro di prendere il potere e in tal modo di fare onore all’infame accordo di Yalta. Il regno democristiano non era un blocco omogeneo con un progetto chiaro che avrebbe fatto dell’Italia un Paese libero e solido. Soltanto la loro versatilità politica e la loro formidabile capacità di muoversi tra le alleanze più disparate ha permesso loro di restare al potere fino all’alba del XXI secolo. E tutto ciò malgrado la forte opposizione della sinistra. Ecco la cosa veramente impressionante.
Con il Paese ormai nelle proprie mani, si sono creduti imbattibili. La loro schiacciante potenza elettorale negli anni ’50 e l’appoggio incondizionato del Vaticano li portarono a perseguire, sotto le sembianze di una democrazia formale e l’apparenza di un antifascismo verbale, una politica ereditata dal periodo fascista in cui venivano mantenuti i privilegi corporativi mascherati da una sorta di populismo double-face: uno sguardo all’Europa del futuro e l’altro, mai confessato, rivolto alla “necessità” di uno stato democratico di polizia.
Forte di una base elettorale inesauribile imbottita di falsi valori, il potere democristiano estese audacemente la sua rete clientelare e criminale, lasciando da parte gli scrupoli ogni volta che ne valeva la pena. Grazie alla garanzia del Vaticano, questo stato di cose sembrava acquisito e definitivo. In qualità di partito che esprimeva gli interessi della piccola borghesia, la DC nutriva un profondo disprezzo per la cultura, percepita come un fenomeno praticamente inutile e spesso pari a un germe di sovversione. Così, a causa della loro fin troppo evidente arroganza, della corruzione divenuta regola di Stato e delle loro potenti organizzazioni mafiose, nel giro di qualche anno i democristiani si ritrovarono come il Re nudo. Il loro elettorato si era disperso e il Vaticano, l’eterno alleato, non aveva più argomenti per contenere da un lato le stragi di Stato e dall’altro le orde della nuova generazione insorta. A questo punto ci troviamo nel bel mezzo degli anni ’70. I democristiani, senza mai ammetterlo pubblicamente, sono ormai coscienti che il loro potere storico e concreto non coincide più col potere reale. Però tengono duro, cercano una soluzione.