di Massimo Cappitti

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[E’ da poco in libreria il n. 22 di Hortus Musicus, che in passato abbiamo più volte definito una delle migliori riviste politico-culturali italiane, per non dire la migliore in assoluto. Per gentile concessione del direttore Roberto De Caro ne riproduciamo l’editoriale, a firma di Massimo Cappitti. Vi si celebra un quinquennio di vita di una pubblicazione anticonformista, ricchissima nei contenuti ed elegantissima nella confezione.]

Ad una umanità liberata dovrebbe toccare, purificata, l’eredità del proprio passato.
Ciò che una volta è stato vero in un’opera d’arte ed è stato smentito dal corso della storia può tornare ad aprirsi solo quando sono mutate le condizioni per causa delle quali quella verità dovette essere cancellata: tanto profonda è in estetica la compenetrazione del contenuto di verità e storia.

(Th.W. Adorno)

È inevitabile che una rivista si interroghi sul frangente storico nel quale le è dato di vivere e sulle possibilità che ha di incidervi e, soprattutto, quando ambisca, come Hortus Musicus, a svolgere una critica radicale dell’esistente, debba riflettere — senza reticenze o indulgenze nei confronti di tradizioni, pur nobili, di pensiero — sulla natura plurale e ambivalente della propria epoca. Il compito di una rivista di questo genere è quello, allora, di passare la propria mano contropelo sul dorso del tempo, di entrare, cioè, in urto con la violenza e la stupidità dilaganti, con la riduzione delle vite a merce, con l’uso generalizzato ed esibito della forza dei racket che governano gli stati.


Paradossi apparenti

Nota Anders che, ormai, il «meccanismo di omologazione» funziona così bene da apparire impercettibile, inesistente persino, tanto che, per imporsi, non ha neanche più la necessità di adottare «misure speciali». La sua diffusione e pervasività, cioè, renderebbe obsoleto l’uso stesso della forza — che, comunque, presuppone e riconosce l’esistenza, nella società e tra gli individui, di una irriducibile refrattarietà — e vanificherebbe la pretesa di riconoscere una «istanza centrale del comando». I dispositivi di controllo si sarebbero spinti al punto che ognuno, introiettate le «spine» del comando, non può che obbedire automaticamente, come se gli individui, nella loro più intima costituzione, portassero già impresse l’attitudine a conformarsi e la prontezza ad aderire alla seduzione della merce. Aggiunge Anders che «spietato, e perciò terroristico, non è solo ciò che si rifiuta alle nostre richieste, ma anche (e soprattutto) ciò che si presenta in modo così innocuo e confortevole, che ci presenta le sue offerte in modo così dolce, da non farci neanche venire in mente di dire di no, di opporre resistenza o chiedere pietà». Il «totalitarismo del piacere» avrebbe, dunque, reso inutili i campi di concentramento e realizzato in modo più efficace ed economico gli scopi del potere. Anders scrive in una contingenza storica nella quale lo sviluppo — perseguito ostinatamente e ad ogni costo ad Est come ad Ovest — pareva irrefrenabile e senza limiti, né naturali né umani. Da qui la convinzione diffusa che la partita della storia fosse chiusa, che il capitalismo, cioè, potesse abbandonare la forza che aveva accompagnato e contrassegnato la sua vicenda a favore di una violenza più insidiosa e feroce ma meno riconoscibile. Saturata di sé l’intera realtà, questa era diventata conforme e docile ai suoi ordini e agli imperativi congiunti di produzione e consumo.
Sottovalutava, però, il filosofo tedesco il fatto che il dominio della merce fosse, invece, compatibile con l’uso degli strumenti tradizionali della sovranità, che non escludesse, cioè, definitivamente il ricorso alla forza. Anzi, i due dispositivi — l’integrazione attraverso il consumo e l’intervento poliziesco repressivo — lungi dall’escludersi, potevano cooperare efficacemente, integrandosi a vicenda.
Inizia a profilarsi una nuova forma di «potere spettacolare», lo «spettacolare integrato» secondo l’espressione di Debord, «combinazione ragionata» dello spettacolare «concentrato» e di quello «diffuso». Se il primo ha caratterizzato l’epoca della «controrivoluzione totalitaria» nazista e stalinista, raccolta attorno a una «personalità dittatoriale»; il secondo, «incitando i salariati ad effettuare liberamente le loro scelte tra una grande varietà di merci nuove in competizione», ha «costituito quell’americanizzazione del mondo che per certi aspetti spaventava, ma soprattutto affascinava, i paesi in cui le democrazie borghesi di tipo tradizionale avevano potuto mantenersi più a lungo». Lo «spettacolare integrato» ha messo, pertanto, a frutto le peculiarità dei sistemi che lo hanno preceduto, garantendosi, in tal modo, un controllo più ferreo e completo della realtà.
Trascurava, quindi, Anders la capacità del potere di non gettare nulla di ciò di cui si è servito, ovvero la possibilità di tornare a percorrere strade già esplorate, pronte a riaprirsi quando le circostanze lo richiedano. Del resto, Hannah Arendt ammoniva che, in determinate condizioni, la stessa democrazia non esiterebbe ad adottare pratiche estreme già sperimentate dai sistemi totalitari e Bauman, sulla sua scia, ha scritto che i poveri, coloro che non consumano, che si sottraggono, cioè, all’unica forma di identità condivisa effettivamente accettata, possono costituire le vittime per eccellenza. Quando la merce, allora, manchi al suo compito e la sua promessa riveli la sua natura fatua e menzognera, torna attuale l’uso della forza. Democrazia e governo della polizia, guerra e merce non solo, quindi, non confliggono, ma coesistono e collaborano attivamente. Trapassano, potenziandosi a vicenda, l’una nell’altro.
Di questo apparente paradosso consiste la tarda modernità. Esso intona modi di pensiero e sentimenti, permea stati d’animo e comportamenti. La richiesta ossessiva di sicurezza e la difesa, anche violenta, degli interessi di minoranze privilegiate — ideologia che accomuna, indistintamente, Destra e Sinistra — spingono a erigere barriere non solo simboliche, imponendo criteri di esclusione, stabilendo, nel contempo, ciò che è parte del discorso pubblico e ciò che, invece, deve restare escluso, distinguendo, infine, tra vite meritevoli di essere vissute e vite indegne.
La «distribuzione indifferenziata del dolore» opera, ormai, in guerra come in pace. I morti ‘occidentali’ contano più degli altri, hanno nomi e volti, sono parte di una storia e, per questo motivo, appare scandaloso e inaccettabile, ad esempio, che i turisti coinvolti nel maremoto del sud-est asiatico possano essere sepolti nelle fosse comuni. Degli altri, puri numeri e oggetto, al più, di statistica, non ci si cura perché, come qualche cinico commentatore ha osservato, sono abituati, da secoli, a convivere con le catastrofi.
Ancora, la guerra — rivolta, indifferentemente, all’esterno o all’interno contro i cittadini — è divenuta strumento di governo della società. Non più estrema necessità, se mai lo è stata, si presenta come la condizione normale che mobilita e occupa, se non addirittura costruisce, l’immaginario collettivo. Essa infiltra le relazioni sociali e, persino, individuali, ridistribuisce equilibri, fonda e impone nuovi ordini, costituisce il mezzo attraverso cui il capitalismo tardo moderno costruisce legami sociali e predispone le condizioni per potersi insediare dove meglio crede senza ostacoli.
Al contempo, si assiste all’oscena mescolanza, tragica e grottesca insieme, di interventi militari e aiuti umanitari, di richiami alla carità privata e indifferenza etica, di erosione della prossimità e di spettacolarizzazione del dolore e della solidarietà, che rende ormai indiscernibili i confini tra ambiti che dovrebbero confliggere per costituire, invece, un sistema integrato di rafforzamento dell’ordine esistente e di repressione di chi, a quell’ordine, si oppone. Convogli militari e umanitari, generali e burocrati del volontariato — religioso e non — professionisti della violenza e professionisti della carità viaggiano insieme. Dove i primi distruggono, i secondi provvedono alla ricostruzione, imponendo i valori ‘occidentali’: democrazia e mercato, dominio dell’economia e affermazione della razionalità strumentale, meccanismo perverso della rappresentanza e vita al lavoro.

Il pensiero sovversivo

Se questa descrizione risponde a verità, allora tanto più evidenti appaiono l’inadeguatezza e l’inconsistenza delle categorie interpretative. Non solo, ancor più manifesta appare la crisi delle discipline accademiche, strette tra «abusive certezze», «separatezze specialistiche» e «pretese autoreferenziali di torri d’avorio artistiche e culturali».
Hortus Musicus ha, dalla sua parte, scelto di «sparigliare», ovvero di proporre una visione della cultura, della politica e dell’arte che non solo rifugga, ma, risolutamente, osteggi «le arbitrarie separazioni chirurgiche dello specialismo accademico» mortificanti la complessità del reale. Contro l’«imbecillità dell’effimero» e la ferocia devastante dell’«oclocrazia», si tratta, allora, di riconquistare al pensiero, che è già una forma d’azione, il rigore etico prima ancora che intellettuale. Occorre, cioè, ricostituire spazi dove prendano agio la facoltà di giudizio e la capacità di pensare in proprio, ossia di sospendere le abitudini ossificate e le stereotipie espressione della «società rispettabile». Sparigliare significa accostare temi, linguaggi e forme espressive in modo inconsueto e irrituale. Le immagini presenti nella rivista, ad esempio, anziché costituire un commento ai testi o semplicemente un loro ornamento, mantengono la loro autonomia e la loro forza espressiva. In virtù di tale forza, esse contribuiscono a ridefinire, a torcere il senso stesso della parola scritta, costringendo i gerghi specialistici a uscire dal loro autismo, a dare ragione di sé e svelare le loro premesse, sempre taciute perché ritenute indiscutibili e quindi ininvestigabili. Da ciò consegue la frantumazione dei cliché e dei «codici standardizzati» e, insieme, l’accento fatto cadere sulla natura plurale dei fenomeni culturali, anche di quelli all’apparenza più rarefatti, dove dimensione storica, politica, etica e atto creativo convivono in una rete di reciproci rimandi, senza che sia possibile rintracciare una gerarchia o una causalità lineare. In questo consiste il carattere sovversivo dell’arte e del pensiero: nel disfare forme ritenute definitive, nel rifiuto di rispecchiare e ribadire le gerarchie sociali, nella volontà di operare affinché scompaiano.
La riproposizione di un punto di vista critico e radicale — extra e antiistituzionale — si alimenta della riflessione storica, della sua attitudine al dubbio metodico, della sua natura corrosiva di ogni ossessione identitaria e capace, in tal modo, di liberarsi da ogni forma di rimozione e reticenza. Analisi, dunque, disincantata ma, per questo, non meno appassionata. Non c’è, pertanto, nessuna patria, neanche socialista, da difendere, nessun fine che giustifichi mezzi infimi o, ancora, complicità mimetiche con il potere e il suo esercizio. Qui passa la demarcazione che separa la ricerca della rivista dagli entusiastici sostenitori del socialismo reale, di stati operai, del comunismo fattosi Stato o la posizione di chi sostenga la conquista dello Stato anziché la sua estinzione. Sayad indica nel «pensiero di stato» e nella sua conseguente naturalizzazione l’ostacolo principale alla sperimentazione di nuove forme di organizzazione politica. Infatti, «la naturalizzazione dello stato, come la percepiamo in noi stessi, opera come se lo stato fosse un dato immediato, come se fosse un oggetto dato di per sé, per natura, cioè eterno, affrancato da ogni determinazione esterna, indipendente da ogni considerazione storica, indipendente dalla storia e dalla propria storia, da cui si preferisce separarlo per sempre, anche se non si smette di elaborare e raccontare questa storia». Interrogare i fondamenti dello Stato significa, quindi, riportarne alla luce il carattere storicamente condizionato e, dunque, non definitivo, rammemorare la violenza originaria che fonda e intride l’esperienza statale. Comporta, infine, la delegittimazione di «ciò che va da sé», ossia il nostro stesso «essere nazionale», quale forma fondamentale di attribuzione di identità.
Per queste ragioni, disertare è opportuno, come è opportuno liberarsi dall’illusione che la macchina statale, guidata altrimenti, possa produrre effetti virtuosi. Se, infatti, si acconsente alla feconda proficuità della diserzione, tanto più mal riposta appare, allora, la fiducia in governi ‘amici’, destinati a ripristinare la correttezza e il rispetto delle regole, per trasformare il paese in un paese normale, terribile e macabra espressione significativa del degrado insieme della politica e del linguaggio. Semmai, al contrario, la normalità va smantellata, svuotata di senso, dal momento che si è rivelata la condizione più propizia per i crimini commessi dagli stati e attivamente appoggiati dalla ‘gente comune’.
In particolare, in Italia, la Sinistra e i sindacati sono stati protagonisti nella e della gestione dei passaggi cruciali che hanno accompagnato la trasformazione del capitalismo, fino a presentarsi come i garanti e tragicamente zelanti custodi della ‘stabilità’ delle istituzioni. Si pensi, ad esempio, alla guerra di D’Alema, alla promozione, attraverso il lavoro interinale, della precarizzazione selvaggia del lavoro o, ancora, all’esaltazione del penalismo e alla conseguente trasformazione della questione sociale in affare di ordine pubblico, oggetto, pertanto, di intervento repressivo. Complicità con le esigenze capitalistiche che segna la storia di quella parte politica da almeno sessanta anni, come ben spiega il Saggio sulla politica comunista di Danilo Montaldi.
Compito ambizioso della rivista diventa, dunque, tornare a discutere delle questioni ultime: tra le altre, il comunismo e la critica della proprietà privata, l’emancipazione dal lavoro, il rapporto tra tempo dell’individuo e tempo storico e la dimensione tragica della scelta, la contraddizione, sottolineata da Adorno, tra «l’assoluta libertà» dell’opera d’arte e il «perenne stato di illibertà vigente nel tutto», per cui «gli irrisolti antagonismi della realtà ritornano nelle opere d’arte come problemi immanenti della loro forma». Si tratta, infine, di ritrovare quella forza critica in grado di opporre all’apparente insuperabilità dell’esistenza la radicale novità che accompagna ogni inizio.