di Raimon Panikkar
panikkarint.jpg[Nato a Barcellona il 3 novembre 1918 da padre indiano e madre spagnola, Panikkar si è laureato in filosofia, chimica e teologia, ha insegnato fino al 1987 all’Università di California e Santa Monica. Sacerdote, ha ricevuto dalla Chiesa l’interdizione a celebrare la messa. E’ uno dei massimi teologi viventi. Quella che segue è la prefazione che egli ha scritto al testo Il Vangelo secondo Giovanni e lo Zen, pubblicato dalle edizioni Dehoniane di Bologna]

La normale
esegesi cristiana dei Vangeli per lo più è consistita in una interpretazione
degli stessi all’interno del contesto storico della cultura
giudeo-ellenico-romana dei tempi in cui essi furono scritti. Per una corretta
ermeneutica di un testo si richiede la conoscenza del suo contesto e, aggiungo
io, quella dell’intento dello scrittore. Sui Vangeli sono stati scritti migliaia
di libri, al punto che è proprio dall’interpretazione della Bibbia che la
moderna scienza ermeneutica trae le sue origini. Si è venuto formando perfino un
corpus
di interpretazioni della Scrittura, che ha avuto l’approvazione
ecclesiastica e costituisce quella che è chiamata la tradizione
cristiana, una cornice obbligata per ogni interpretazione cristiana che voglia
essere ortodossa.


Mi sta bene! Le Sacre Scritture cristiane non possono
ignorare il corpus della tradizione che le accompagna. Il Sola Scriptura,
piuttosto che un’eresia tipica di un periodo storico di individualismo
moderno
, è un’impossibilità, perché una Scrittura scritta pressoché venti
secoli fa non è sola; strati di polvere l’hanno ricoperta e fasci di luce
l’hanno illuminata. Di più, le nostre stesse lenti hanno uno spessore di due
mila anni.

Parimenti la
tradizione buddista Zen ha prodotto migliaia di libri, e annovera un gran numero
di scuole e interpretazioni diverse, caratterizzati da un tocco esistenziale ed
esperienziale tutto suo. Così fu detto! Ma quando ciò che fu detto viene
udito, allora è questo e quello. Il nostro autore ama dire:
Quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur
(ognuno riceve secondo la
capacità che ha di ricevere).

Per la maggior
parte del tempo queste due branche della sapienza sono vissute indisturbate, in
splendido e placido isolamento vicendevole. Oggi questo non è più possibile.
Nessuna religione può ignorare chi le vive accanto. Noi veniamo come rimbalzati
l’uno contro l’altro; e ogni coesistenza comporta i suoi problemi!

Quando, quasi
mezzo secolo fa, stavo per accingermi a tradurre una parte notevole di Sacre
Scritture Hindu, alcuni amici cristiani mi misero sull’avviso che queste non
avrebbero dovuto essere usate per la preghiera cristiana. Evidentemente si
possono usare i salmi e gli inni anche di origine non-cristiana o pagana; ma mai
e poi mai i Veda! Alcuni amici hindu, sull’altro versante, mi fecero osservare
che un prete cattolico romano non poteva pretendere di capire i mantra
hindu e, strettamente parlando, neppure leggerli, a scapito di profanarli.
Conoscere una cosa è entrare dentro quella cosa; per capire una cosa bisogna
esserne parte in qualche maniera. Solo così si può sperimentare la sua vera
essenza. È certamente corretto affermare che senza fede uno non può capire
adeguatamente un testo sacro. Ma la fede non va confusa con credenza. Io ho
introdotto anche la nozione di pisteuma nella fenomenologia religiosa, in
contrapposizione con il noêma della fenomenologia tradizionale.
Pisteuma
(da pistis, fede) è ciò che il credente crede; noêma
(da nous, mente) è ciò che un osservatore capisce. La
fenomenologia religiosa si incarica di descrivere ciò che il credente crede e
non quello che l’osservatore osserva. Se l’osservatore, un outsider, si
limita a descrive quello che osserva, è certo che non descrive quello che il
credente crede.

La risposta
che io davo ai miei critici era che i Veda appartengono all’umanità e che la mia
ermeneutica (come qualsiasi traduzione) era legittima, a patto che io
partecipassi di quello spirito umano che aveva ispirato la sruti, la
rivelazione vedica. Sorprendentemente, a lavoro finito, fui riconosciuto da
molti pandit come un rsi reincarnato, uno dei saggi che per primi
cantarono i Veda. Come avrei potuto altrimenti, dissero, scrivere ciò che avevo
scritto? Dico questo, per sottolineare insieme sia la diversa reazione
dell’altra cultura, come la sfida teologica del libro di p. Luciano e di Jiso.

Sono
perfettamente d’accordo che un testo sacro debba essere maneggiato con rispetto,
che una certa disciplina dell’arcano sia giustificata e che un certo tipo di
iniziazione sia richiesto per accostare con frutto qualsiasi testo sacro, il che
assurge a un atto liturgico. La democrazia è un buon antidoto alla teocrazia, ma
ha un effetto collaterale rovinoso se distrugge ogni senso di gerarchia. Non è
il mio ruolo qui quello di prescrivere degli antidoti. Dobbiamo rispettare la
tradizione; eppure le tradizioni viventi non sono mummie ibernate. Abbiamo
bisogno del soffio vitale dello Spirito; e non di stare attaccati a tradizioni
senza vita, solo perché esse erano considerate vive in un certo passato (cfr.
Mt. 15, 2 ss.; 23, 25 ss. ecc.).

Proprio qui
sta la sfida teologica di questo libro. L’autore, un uomo di fede, legge e
spiega i Vangeli al di fuori del loro contesto proprio. È ciò
appropriato
? La proprietà intellettuale dei Vangeli non appartiene
forse alla specifica tradizione cristiana? Il contesto storico proprio
del periodo temporale in cui essi furono scritti non è essenziale e normativo?
Qui sorgono due domande. Una filosofica: i Vangeli sono solo racconti
intellettuali e storici? L’altra strettamente teologica: il messaggio evangelico
è essenzialmente legato ai figli naturali o a quelli adottivi di Israele o di
Abramo, come dir si voglia?

Senza alcun
dubbio i Vangeli intendono trasmettere ben più che la semplice informazione
storica e intellettuale. Le prime parole pubbliche di Gesù invitavano alla
metanoia
(conversione), al trascendimento del nous, al superamento
dell’intelletto, anche della struttura mentale del ceppo di Abramo. Se a Paolo
fu ordinato di andare ai gentili, fu solo per addottrinarli nelle maniere
culturali ebraiche o non piuttosto per rendere possibile anche altrove
l’Incarnazione della Parola? L’interpretazione spirituale è più che legittima. E
dicendo spirituale mi riferisco a quello Spirito che soffia dove, quando
e come vuole.

La sfida cui
ho fatto cenno all’inizio, deve essere collocata nella situazione nuova del
nostro terzo millennio. Dobbiamo conoscere i segni dei tempi. E qui trovo
l’importanza di questo libro, insieme con altri studi che cominciano
discretamente ad apparire. Mi sia permesso formulare questa precisa domanda: i
Vangeli fanno riferimento soltanto alla figura storica di un Uomo chiamato Gesù,
oppure parlano fin dall’inizio del Cristo Gesù, che l’arcangelo Gabriele
descrisse come Figlio dell’Altissimo e ai pastori fu annunciato come Salvatore,
Unto e Signore? Certo, il Cristo risorto era il Gesù storico, ma
l’argomento-materia dei Vangeli non è la storia di colui che veniva creduto
figlio di Giuseppe, bensì la preistoria e il racconto del Figlio di Dio
che cammina come vero Uomo, in una particolare terra e in un determinato tempo.
La tendenza moderna per il Gesù storico ha portato in superficie
interessanti caratteristiche di quell’ebreo di paese e
taumaturgo mediterraneo
; ma ha anche distolto specialmente esegeti e
studiosi da quello che è il cuore dei Vangeli, senza per questo dover cadere
nella superstizione. Alessandro il Grande, Gengis Khan e Napoleone hanno
cambiato anche il corso della storia e, come ebbero a dire gli storici
contemporanei, la faccia della terra. Di quale terra? Sono i Vangeli solo
libri storici?

In altre
parole, per ragioni storiche e altri motivazioni che la sociologia della
conoscenza ci aiuta a scoprire, la visione del mondo dei primi secoli cristiani
era ferma a una nozione geografica e storica assai ridotta dell’oikumene:
nessuno oggi oserebbe sostenere che i sei giorni di Mosé erano di ventiquattro
ore o che la terra dei Vangeli includesse anche la Patagonia. Eppure, questa
sindrome di un solo mondo, che equivaleva al nostro mondo, ha
persistito fino ai nostri giorni. Durante i primi secoli cristiani si pensava
che l’Impero romano fosse l’intero mondo civilizzato; la formula urbi et orbi,
che più tardi divenne la formula usata dal Romano Pontefice, era una abituale
espressione latina, che rifletteva la mentalità imperiale: orbis in urbe
iacet
(il mondo intero giace nella città di Roma), e potrei moltiplicare gli
esempi, su su fino a Copernico e alla moderna ideologia globale. Quello
che accade per lo spazio, similmente accade col tempo, anche se non è ora il
caso di fare disquisizioni sul tempo delle aspettative escatologiche o della
risurrezione. Che la rivelazione termini con l’ultimo degli Apostoli è
stata una credenza teologica cristiana senz’altro utile, naturalmente, per
considerare l’Islam un’eresia e i Bahâ’i in errore. Ma disquisendo così noi
restiamo rinchiusi nella cultura del ceppo di Abramo. Come possiamo giustificare
queste nostre estrapolazioni? È il tempo escatologico la fine di una
temporalità lineare?

Non c’è alcun
dubbio che le Sacre Scritture cristiane appartengano al ceppo culturale abramico,
innestato sulla cultura ellenica. C’è da dire qui che questa inculturazione o
mutua fecondazione tra le culture ebraica ed ellenistica, è un fenomeno
precristiano, come testimonia la straordinaria attività interculturale degli
autori dei Settanta nell’Alessandria del III secolo prima di Cristo, che ha
avuto il suo culmine in Filone, pressappoco contemporaneo di Cristo. Ciò che
Filone fece con il giudaismo, divenne modello per i Padri della Chiesa dei primi
secoli. Tuttavia sembra che quel movimento creativo si sia fermato lì, a parte
alcuni cambiamenti accidentali introdotti dalla cultura europea posteriore.
Richiamo questi fatti perché da ben più di mezzo millennio sembra proprio che
l’ascolto
dei Vangeli debba ridursi ad ascoltare gli echi di periodi
passati.

È un fatto che
al di fuori dell’area ellenico-semitica, la Bibbia ebraica suoni esotica,
estranea e qualche volta incomprensibile, per non dire scandalosa. I Vangeli
greci nella loro semplicità sono più congeniali alle altre culture, ma la
teologia susseguente, costruita su di loro, è incomprensibile al di fuori degli
schemi mediterranei di intelligibilità. Devono forse, gli altri popoli del mondo
subire una circoncisione della mente dopo che la circoncisione del corpo fu
abolita dal I Concilio di Gerusalemme? Credo in quel sacramento primordiale di
Jahve con il suo popolo; ma anche qui non possiamo fare estrapolazioni. Il
Giudaismo sta in piedi da solo e non ha bisogno della protezione, meno ancora
dell’assorbimento da parte di una religione nuova che la Sinagoga ha rigettato.
Ma questo non è il luogo per parlare di pluralismo.

La mia
questione non è se i cristiani debbano impiantare dappertutto i semi del
Vangelo, benché mi sorga il sospetto che per taluni inculturazione non
significhi piantare dei semi (simboli), ma far crescere piante (sistemi
concettuali). Nessuna meraviglia che quei semi (semina Verbi) producano
pochi frutti, non perché la terra non è buona, ma perché il sottosuolo è
diverso. Non tutte le piante possono crescere nello stesso suolo e sotto lo
stesso clima. Parlo, invece, di interculturazione, cioè di fecondazione
mutua. La mia questione è se le Sacre Scritture cristiane hanno qualcosa da
dire, in quanto Scrittura religiosa, a popoli che non sono né figli di Abramo,
né nipoti delle culture europee. Dovremmo noi leggere i Vangeli come documenti
culturali interessanti o come messaggi religiosi (spirituali)?

La mia
questione riguarda l’identità cristiana. Vogliono i cristiani mantenere la
propria identità, salvaguardando le differenze (principio di
non-contraddizione)? Oppure sottolineando la auto-comprensione (principio di
identità)?

Entrambe le
risposte, sì o no, sono sensate e del tutto legittime. Per dare una risposta dal
versante cristiano, per decenni ho invocato un II Concilio di Gerusalemme, dal
momento che io non ho alcuna autorità per decidere del destino della Chiesa
cristiana. Questa si trova di fronte a un bivio: deve decidere se la comunità
cristiana è il resto di Israele, il piccolo gregge; ovvero
se ha il coraggio di seguire l’esempio del I Concilio che ruppe con il giudaismo
ed abolì il patto fondazionale di Jahve con il suo popolo (la circoncisione),
liberando
il Cristo kenotico, simbolo universale di risurrezione,
liberazione, realizzazione, salvezza, pienezza, destino della realtà intera. Uso
un simbolismo cristiano molto tradizionale: come Maria, la Madre di Dio (theotokos),
diede la nascita a Gesù e Gesù fece poi il suo percorso di adulto, allo stesso
modo la Chiesa del terzo millennio, quale icona di Maria, partorisce il Cristo
che si incarna nei figli dell’Uomo in modi che non spetta a noi determinare o
persino prevedere. Potrei insinuare di passaggio che se una Chiesa adulta avesse
tagliato il cordone ombelicale con il giudaismo e avesse riconosciuto il valore
indipendente della Bibbia, senza pretendere di averne un’interpretazione più
autorevole di quella giudaica, l’ondata antisemita non sarebbe mai sorta.
L’eredità giudaica del cristianesimo è un dato di fatto innegabile. Per quanto
concise e poco elaborate possano essere queste mie note, non sono marginali:
mirano a mettere in risalto l’importanza di questo libro e il suo rischio, se
mal compreso.

 
* * *
 

Non so se
l’autore abbia inteso avventurarsi fin qui; certo è che io trovo in ciò che
scrive una profonda empatia con le questioni che ho sollevato. È evidente che
del contenuto di una prefazione è responsabile chi la scrive. Tuttavia mi preme
sottolineare che la decisiva sfida teologica che fa capolino nell’opera
dell’autore è la stessa che qui io ho appena abbozzato. Soltanto di un abbozzo
si tratta e niente più, come si addice in questo contesto.

In realtà,
l’autore che cosa sta facendo? È una domanda legittima! Non sta forse
presentando una figura di Gesù alla luce di una cultura e religione straniera,
in modo che sia significativa tanto per il buddista come per il cristiano? Così
facendo, i Vangeli, come illuminati da una nuova luce, rivelano aspetti nuovi
dell’Uomo Gesù: quindi nuovi significati per i cristiani e contemporaneamente
messaggi che parlano anche a quelli che si trovano fuori dei confini della
Chiesa visibile.

Ma altri, al
contrario, si domandano se l’autore non stia forse travisando l’immagine di Gesù,
che dopo tutto non era un guru orientale. Cerca forse, si chiedono, di smussare
gli aspetti acuminati della spiritualità Zen, per adattarli a un pubblico
occidentale? E se togliendo la polvere dei secoli finisse per buttare via
autentici tesori della tradizione cristiana? Serve mai a qualcosa l’eclettismo?
Anche queste sono voci da ascoltare!

Uno dei miei
critici mi scrisse una volta che al posto di cristianizzare l’induismo, che era
quello che avrei dovuto fare, stavo induizzando il cristianesimo, il che
era una eresia. Ho gentilmente risposto che il cristianesimo era vivo grazie
alle simbiosi operate con la Grecia, Roma, l’Europa, la Modernità e simili.
Perché dovremmo fermare il vento, meglio, la brezza dello Spirito? Uno Spirito
che fa muovere tutte le cose e che millenni fa ha spazzato via il sogno umano di
una sola lingua universale, come riferisce l’episodio della torre di Babele
narrato nella Genesi.

I problemi
ingigantiscono. Non traviserei forse l’immagine di Napoleone, se ignorassi la
storia europea che lo precede e lo assimilassi a Tipu, il Sultano dell’India
Meridionale, suo contemporaneo? Entrambi erano grandi guerrieri e personalità
straordinarie, entrambi hanno pronunciato frasi memorabili. Ma se li isolassi
dai rispettivi mondi storici favorirei la comprensione di questi due capi
politici? Il Gesù storico è davvero il giudeo della Palestina occupata di due
mila anni fa, così come Hui-neng, il sesto Patriarca, è un’altra figura storica
del VII secolo. Detto ciò, ancora ci domandiamo: ma lo Zen e i Vangeli sono solo
documenti storici?

L’etnocentrismo
ebraico è perfettamente comprensibile. Jahve è il Dio di un popolo, il suo
popolo che Egli ha difeso contro i suoi nemici. Ancor più è comprensibile la
tragica grandezza di tale popolo che visse nella diaspora, senza armi e spesso
senza potere, circondato da gentili non sempre troppo gentili. La sua
unica speranza era stata la protezione del suo Dio. L’inizio della Lettera
agli Ebrei
esemplifica quanto fosse drammatico il dilemma dei primi
cristiani ebrei. Non c’è dubbio che secondo la Lettera, i Profeti che
Jahve aveva inviato al suo popolo fossero solo ebrei. Immaginare che l’autore
della Lettera avesse potuto sognare altri profeti, di altre tradizioni,
come ho fatto io, non è storicamente corretto. Ma la Lettera va avanti e
parla del Figlio (di Dio) che frantuma i particolarismi degli Ebrei. Questo
Figlio è creatore dei mondi, splendore di Dio e substrato di
tutte le cose per il potere
della sua Parola. Da una parte è scritto
che questo Figlio è più grande degli angeli, per cui la sua gloria e
potere, non vi è dubbio, non sono limitati ai figli di Israele. Dall’altra si
può capire anche l’orgoglio presente in tutta la Lettera, per il fatto
che l’apparire storico di quel Figlio — apparizione storica che a sua volta era
stata iniziata dalla figura di un non-ebreo, di Melchisedech – sia strettamente
connesso al popolo ebreo, nonostante le dure requisitorie dei profeti circa
l’infedeltà di quel suo popolo. Jahve avrebbe potuto fare come un padre
che castiga i suoi figli. Ma non è corretto utilizzare le dure parole dei
profeti ebrei contro il popolo di Israele, per denigrarlo dal di fuori o per
difendere l’interpretazione cristiana; così come non è corretto invocare lo
scandalo della Croce
per difendere gli insegnamenti cristiani, come se lo
scandalo non fosse tale anche per i cristiani stessi. È chiaro che non sto
parlando della teocrazia secolarizzata del moderno Stato di Israele.

Insomma, la
tensione si avverte fin dall’inizio. La Bibbia, come libro religioso appartiene
indubbiamente alle tribù di Israele; ma le Sacre Scritture cristiane, fosse
anche come semplice libro religioso, non appartengono a nessuno in particolare.
Il Cristianesimo non è una religione etnica, e questo è il mio punto. Non era
ovvio all’inizio. Che diritto abbiamo di pensare che il messaggio di quell’ebreo
trascenda i confini della Giudea e della Galilea? Non si fece forse discepolo di
Giovanni il Battista per percorrere il sentiero della conversione del cuore?
Ricalco: del cuore. Non fu forse anche lui un giovane rabbino che pensava
di essere stato mandato solamente per il popolo di Israele, per cui ci fu
bisogno dell’amore di una madre per il suo bambino per frantumare quella sua
rigida ortodossia (Mt. 15, 22 ss.)? Non crebbe anche lui in sapienza (Lc.
2, 51)? Non fu forse rigettato dal proprio popolo e crocifisso fuori della Santa
Città, come non a caso i cristiani della prima generazione sottolineano? E
soprattutto, non dovette risuscitare il terzo giorno? Eppure in Cristo non ci
sono né giudei, né greci, né schiavi o liberi, e neppure uomini o donne (Gal. 3,
28). I Vangeli non sono la storia di Gesù, l’ebreo; sono invece i racconti di
Gesù, il Cristo, cioè il Risorto.

Il
Cristianesimo non è una religione del Libro, bensì della Parola. La parola ha
bisogno di essere ascoltata. C’è una certa ironia nel fatto che la divina
Provvidenza abbia disposto che noi di fatto non conosciamo una sola frase di
Gesù. Tommaso d’Aquino sostiene magnificamente che Gesù non avrebbe dovuto
scrivere alcunché, altrimenti il suo messaggio vivente si sarebbe convertito in
mera dottrina (Summa teol. III, q., 42, un. 4).

Sto riportando
il discorso a quanto ho detto all’inizio. C’è un profondo e, oserei dire, per
molti un disturbante problema, già nell’intento stesso di questo libro. È
comprensibile che coloro che si sentono investiti della responsabilità di
custodire la purezza della dottrina, non si lascino convincere facilmente dalle
buone intenzioni di quei teologi che vanno oltre le frontiere stabilite. È una
situazione analoga a quella della donna siro-fenicia: le disquisizioni in cui
manca l’amore creano confusione, se non danno. Voglio dire che non dobbiamo
accostarci al problema dialetticamente, cioè dottrinalmente. Le parole di
vita eterna
sono concesse gratuitamente a quelli che ne hanno sete vera. Per
i dotti e i ricchi è più difficile. Noi non possiamo, naturalmente, né ridurre
il cristianesimo a una dottrina, né eliminare dalle Sacre Scritture il loro
contenuto mistico, senza con ciò trascurare la stessa dottrina. L’unico
messaggio che il Cristo risorto instilla in noi è quello della pace e del non
avere paura.

Lo dico in
maniera più accademica. Stiamo assistendo alla crisi del mito che ha prevalso in
occidente: il mito che una sola cultura sia sufficiente per abbracciare l’intera
gamma dell’esperienza umana. In base a tale mito re, imperatori, papi,
presidenti, governi ed eserciti, in buona fede, hanno
fomentato il progetto di unificazione politica, religiosa o economica del mondo.
Un nome passato del progetto è stato colonialismo; ora ha preso altri nomi:
globalizzazione, etiche globali, scienza universale e simili. Ora, il mito è in
crisi, se non in procinto di crollare.