Rivoluzioni e miti della società italiana consumista, capitalista e “apologista”, attraverso una variazione del famoso romanzo di Vincenzo Cerami

di As Chianese

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“Oggi il terrore si chiama tecnologia”
Herbert Marcuse.

Siamo stati anni, decenni… pronti ad aspettare forse un’insurrezione, un qualcosa che smuovesse le trame di complotto ordito dietro lo Stato a favore dello Stato, generato nello Stato, chiamato P2 o forse massoneria, che sia una infame medaglia dalle due facce identiche, infilata in bocca, a mo’ di obolo, al putrescente cadavere di una nazione rassegnata, pronta a essere traghettata oltre le proibitive colonne d’Ercole. Verso un altro mondo, un aldilà dove noi altro non siamo che la cinquantunesima stella sul fondo blu notte di una bandiera.


Ma anche se la rivoluzione non è arrivata, o è arrivata solo per gli intellettuali o se si considera la fine del sottoproletariato come un pronostico degno di uno dei misteri di Fatima, allora miriadi di scrittori, registi, saltimbanchi e chansonnier, hanno sbagliato completamente le data e l’inizio di questo fatidico evento, la dinamica di giorni che non sono arrivati o sono stati mitigati (ritardati?) da un feroce rapimento che ha diviso gli animi tra linea dura e strategia della tolleranza, prima di finire, dopo 55 giorni di rabbia, chiusi nel dimenticatoio delle terze di copertina, nel portabagagli di una Reanult R4 rossa, posteggiata in Via Caetani a Roma.
La rivoluzione non è iniziata sulle note di una canzone di De Andrè.
La rivoluzione non è stata innescata dalle frange più escluse di una società imprenditoriale ed edonista, come teorizzava il filosofo Herbert Marcuse. L’idea della rivoluzione e l’eventualità di una rivoluzione a metà, ha creato degli insoddisfatti.
Noi, adesso più che mai alle soglie di un decisivo 2004, abbiamo risolto i nostri guai aggrappandoci all’ottimismo e quindi andando insieme, con Tonino Guerra sottobraccio, a perderci tra gli sconti speciali e gli ergonomici espositori dell’Unieuro e di altri supermarket del tecnologico.

Crepuscolare, atroce…” così scriveva Pier Paolo Pasolini a proposito del romanzo Un Borghese Piccolo Piccolo di Vincenzo Cerami: ed è proprio ripercorrendo, attualizzando, quella storia di morte e dolore delle media borghesia italiana degli anni ’70: categoria che inaspettatamente, almeno nel romanzo, si è ribellata contro le istituzioni fraternizzando con i suoi stessi aguzzini e trucidando chi stava peggio di loro in nome di un archetipico valore filiale; che ho tentato di variare sul tema del consumismo e della parsimonia, nella società attuale. Facendo rivivere, seppur per poco, i protagonisti del celebre romanzo per farli scontrare con la realtà dell’euro e della tecnologia.

Supponiamo che una fredda mattina di dicembre, un giorno dopo aver ritirato la tanto agognata tredicesima, il Sig. Giovanni Vivaldi, impiegato modello dell’ufficio personale, reparto pensioni, di un non precisato e fumettistico ministero, si sia recato assieme al figlio Mario in una delle tante filiali di un tecnologico ministero dell’ottimismo: l’Unieuro, supermarket dell’elettrodomestico alla portata di tutti.
File interminabili, architetture fredde e neon azzurrini, e tanto tempo perso per ritrovare sul fondo del portafogli, perché oggi “la giornata dei pezzi da 100 è il 20 di ogni mese”, quell’euro che consente l’uso di un comodo carrello. Partiti alla scoperta della tecnologia bianca e asettica, Giovanni e Mario Vivaldi avevano intenzione di riuscire a cambiare il vecchio e malandato frigorifero con qualcosa di economico e funzionale, avrebbero fatto sicuramente un regalo a mamma Amalia che era stufa di ritrovare sul fondo del vecchio elettrodomestico strani liquami giallognoli e limoni andati a male. Avevano intenzione di comperare un frigorifero nuovo, ma i due Vivaldi, si persero irrimediabilmente nel reparto Hi – Fi e Multimedia, con la bava alla bocca… Giovanni tra le meraviglie di tanti televisori comandati da una tastiera, di tante macchine da scrivere con schermo incorporato che avrebbero fatto la gioia del caporeparto Spazziani: sempre pronto a lagnarsi dei suoi errori ortografici e del suo uso e abuso di bianchetto. Mario, invece, è perso nel sorriso e tra le pieghe della gonna dall’orlo rigorosamente sotto il ginocchio, di una commessa intenta ad illustrare i vantaggi di un accurata igiene orale facilitata dalle meraviglie del nuovo spazzolino elettrico a tripla testina rotante con dentifricio alla menta piperita già incluso.
Si sarebbero persi, i due Vivaldi, in un dedalo di prezzi accessibili e rigorosamente ratealizzabili, avrebbero scordato il loro legame affettivo, la loro identità di uomini, la parsimonia di un euro lasciato incastrato in un carrello, per vestire i panni dei due consumatori modello, per rincorrere l’ultimo tostapane che non inquina o l’ultimo robot multifunzione da cucina che, a detta del pater familias: “Lavora sodo più di un senegalese, con l’unica differenza che a questo non lo devi fa magnà!”.
Ritrovatisi a metà strada tra il reparto DVD e macchine digitali da caffè, padre e figlio si sarebbero ricordati dopo buone cinque ore del loro frigorifero, avrebbero deciso di prendersi la briga di informarsi sull’ubicazione del reparto di competenza e sull’eventuale costo di un normale frigorifero con un piccolo congelatore incorporato. Ma la strada che conduceva alla realizzazione del sogno di mamma Amalia era ancora ardua: munitisi di apposito depliant multicolor, con prezzi di riferimento, IVA inclusa e immagini puramente a scopo illustrativo, i due Vivaldi, sarebbero riusciti a trovare la strada che conduce dal home theatre al frigorifero, con Mario sperante in una ricomparsa della solare commessina col vibrante spazzolino elettrico in mano.
Se ne sarebbero tornati a casa senza aver acquistato un bel niente, con la macchina piena di depliant illustrativi, per meglio ponderare l’acquisto e con la convinzione di aver speso bene una giornata, di essersi aggiornati su un futuro che finalmente è arrivato.
Mamma Amalia a casa si sarebbe ancora una volta lamentata di un frigorifero che gronda umori putrescenti più di quel cadavere di azienda che quarant’anni prima, in pieno boom, lo aveva assemblato.

Serotonina del impiegato medio del nuovo millennio, fumo di incenso negli occhi di una civiltà assetata di informazioni: la tecnologia, invasa come una divinità ancestrale, i commessi della celebre catena, che dagli schermi TV, coalizzati come se facenti parte di una segreta e cospirante corporazione, con la virilissima soundtrack de Il Gladiatore in sottofondo, dove le parole d’ordine sono cortesia e disponibilità, urlano in coro, con le pupille dilatate e il braccio alzato: “Chi sta meglio di noi! Chi sta meglio di noi!”. E’ una visione destabilizzante, degna del miglior squadrismo, simbolo di una involuzione dell’umanità: delle masse piegate a idolatrare meccanismi complessi, che portano un benessere fittizio poiché assicurano il corretto svolgimento di taluni specifici servizi indipendentemente dalle ripercussioni e dalla reale utilità che questi hanno su di noi. Il più grande peccato di apologia resta il fatto di aver usato gli stilemi di un periodo prettamente legato al culto del funzionale, preannunciato dall’elogio della tecnica futurista, l’aver propinato l’alienazione dei sentimenti umani messi al servizio del miglior tostapane e dello schermo più piatto possibile. Alla ricerca di un appoggio intellettuale, di un consenso, i cervelloni del settore marketing e pubblicità della grande catena mettono al soldo il poeta e sceneggiatore Tonino Guerra, immemore forse delle fantomatiche e virtuali partite a tennis del suo Blow- Up, che ci appare bonario, col telefonino incollato all’orecchio, pronto a raccontarci un po’ della sua vita spicciola e a farci pensare che, uscito dall’Unieuro, lui: intellettuale rampante ma dalle parole bonarie, levi la divisa di consumista dell’ottimismo per darsi a una vita dedicata a uno stoico accontentarsi, a una rassegnazione che è anche la peggior nemica dell’uomo (rassegnazione che con gli ultimi spot è diventata anche sessuale), che ha impedito lo svolgersi di una rivoluzione su larga scala, che ha generato borghesi piccoli piccoli a caccia di vite schematiche e pronti a impugnare la spada per difendere il microcosmo della famiglia.
Se il disfacimento di una certa cultura del reciproco aiuto c’è effettivamente stato, è passata sicuramente attraverso gli stand delle grandi compagnie rivenditrici di servizi acquistati a loro volta da altri servizi. Compagnie che farebbero pensare a un villaggio globale abitato da tanti uomini ad una dimensione, da tanti borghesi piccoli piccoli, che si appagano con un nonnulla.
Adesso, in questo ottimismo di inizio secolo, che giustamente è il sale della vita, io non riesco a distinguere ciò che è falso da ciò che è vero: vedo solo la rassegnazione dettata dall’appagamento dato da alcuni servizi funzionanti, un telefonino che manda miriadi di messaggini, un autoradio che ti permette di sapere quante bombe hanno sganciato oggi su Baghdad per poi trasmettere in stereofonia la reboante Bombs Over Baghdad, sulle note degli Outcast. Morto l’umanesimo, ci resta solo lo stesso ottimismo “a malincuore” che trasuda dalle parole del discorso di fine anno del presidente Ciampi… mi spiace ma non riesco a intravedere, nelle masse che si accalcano per trovare lo sconto dell’ultim’ora nel supermarket della tecnologia dell’ottimismo, quella Bergsoniana umanità che: come una grande armata a cavallo, galoppa in una carica travolgente capace d’abbattere i più tremendi ostacoli, forse anche la morte.