di Merlin Chowkwanyun
[1 agosto 2004, dall’Archivio Chomsky]

chomsky1ag.jpgUno studioso ed attivista, che lei spesso ha
citato (e che mi auguro conoscano e leggano sempre più
persone), è Seymour Melman, che più di due decenni fa ha
articolato il concetto di una “guerra economica
permanente”. Cosa definiva in questa maniera Melmanm e come
limita o modella la politica estera di un comandante in capo?

Il termine “guerra economica
permanente” è attribuito a Charles Wilson, dirigente
della GE, che –alla fine della seconda guerra mondiale-
consigliava che gli USA non dovevano tornare a un’economia
civile, ma dovevano intraprendere un’”economia
permanente di guerra”, del tipo di quella che tanto successo
aveva avuto durante la guerra: un’economia semidirigistica,
gestita prevalentemente dai dirigenti delle grandi aziende e
finalizzata alla produzione militare.

Fra molti altri contributi
significativi, Melman ha scritto ampiamente sui dannosi effetti
dell’adattamento dell’economia alla produzione militare
piuttosto che alle necessità civili. La sua analisi è
corretta ed importante, ma ci sono altri aspetti da considerare.
Dopo la seconda guerra mondiale, la maggior parte degli economisti
e dei più importanti uomini d’affari si aspettavano che
l’economia -senza un massiccio intervento governativo del
genere di quello, che durante la seconda guerra mondiale aveva
debellato la Grande Depressione- sarebbe ripiombata nella
depressione. Il New Deal ne aveva mitigato la gravità, ma non
aveva fatto tanto di più. Gli uomini d’affari capivano
che la spesa sociale poteva sconfiggere le catastrofi del mercato
come la spesa militare, ma la spesa sociale aveva un aspetto
negativo: aveva un effetto di democratizzazione e di
redistribuzione, mentre la spesa militare era un regalo per il
capitalista, uno stabile cuscinetto. E il pubblico non veniva
coinvolto. Le persone si preoccupano degli ospedali e delle scuole,
ma se si “è spaventati dell’inferno
esterno”, come raccomandava il senatore Vanderberg, allora si
affolleranno attorno all’ombrello del potere e avranno
fiducia dei loro governanti, quando si arriva agli aerei, ai
missili, ai carri armati, ecc. Inoltre, il mondo degli affari era
ben consapevole che l’industria hi-tech non sarebbe potuta
sopravvivere in un’economia liberista e che “il governo
deve esserne il salvatore”, come spiegava la stampa
economica. Tali considerazioni convergevano sulla decisione di
concentrarsi sulla spesa militare, invece che sulla spesa sociale.
E ci si dovrebbe ficcare in mente che la “spesa
militare” non significa solamente spesa militare. Si tratta
per lo più di ricerca e sviluppo di hi-tech. In effetti
l’intera “new economy” fa molto assegnamento
sulla copertura militare per socializzare rischio e costo e
privatizzare profitto, spesso dopo molti decenni: computers e
sistemi elettronici in generale, telecomunicazioni e Internet,
satelliti, industria aeronautica (quindi il turismo, la più
grossa “industria di servizi”), trasporto in containers
(quindi, il commercio moderno), macchinari controllati dai
computers e un sacco d’altre cose.

Ad Alan Greenspan e ad altri piace affermare
pomposamente che tutto questo è un tributo al grande spirito
imprenditoriale e alla scelta del consumatore sui liberi mercati.
Questo è vero per l’ultimo livello di
commercializzazione, ma di gran lunga meno al livello, di gran
lunga più significativo, della ricerca e dello sviluppo. La
stessa cosa è vera, nonostante i molti pretesti utilizzati,
nei settori industriali, basati sulla ricerca biologica. È una
storia vecchia, ma questi meccanismi per sostenere l’economia
industriale avanzata sono diventati di gran lunga più
importanti dopo la seconda guerra mondiale.

In breve, la guerra economica permanente ha una
funzione economica così come una funzione puramente militare.
Ed entrambe le conseguenze –un’enorme forza militare e
un’economia industriale avanzata-, naturalmente, definiscono
i meccanismi per la progettazione della politica estera, essendo
essa per lo più finalizzata ad assicurare il libero accesso ai
mercati e alle risorse al settore capitalistico sostenuto dallo
stato, contrastando i concorrenti e impedendo cambiamenti in
direzione di uno sviluppo indipendente.

La scorsa primavera il colpo di stato ad Haiti
ha occupato i titoli dei giornali per quasi un mese, ma una ricerca
sui principali archivi di notizie rivela, da allora, una mancanza
di articoli di approfondimento, salvo che per la recente minore
ondata di articoli sull’indagine USA sulla presunta
corruzione di Aristide. Quali interpretazioni preliminari possiamo
dare sulla copertura generale della stampa USA sulla caduta di
Aristide? E come possiamo collocare quello, che è successo,
nel contesto storico di Haiti?

Come diminuisce la copertura stampa, aumentano le
gravi violazioni ai diritti umani, una cosa di nessun interesse
perché Washington ha conseguito i suoi obiettivi. La copertura
stampa precedente si è attenuta strettamente ai parametri
determinati ufficialmente: la corruzione e la violenza di Aristide
in uno “stato fallito”, nonostante il nobile sforzo
degli USA di restaurare la democrazia nel 1994. Sarebbe stato
difficile trovare anche il più semplice riferimento alla
feroce opposizione di Washington al governo di Aristide, quando
prese il potere nel 1990 nella prima elezione democratica di Haiti,
rompendo il modello del sostegno USA a una brutale dittatura, che
risale alla micidiale e rovinosa invasione di Wilson nel 1915, o
dell’immediato appoggio delle amministrazioni di Bush I,
prima, e di Clinton, poi, ai dissoluti golpisti (prorogando anche
l’autorizzazione all’imbarco di petrolio per loro e per
i loro ricchi sostenitori, contrariamente alle direttive
presidenziali), o del fatto che la nobile restaurazione della
democrazia da parte di Clinton è stata condizionata
dall’obbligo da parte del governo di adottare il programma
duramente neoliberista del candidato sostenuto dagli USA, sconfitto
nelle elezioni del 1990 con il 14% dei voti. È stato subito
chiaro che ciò avrebbe avuto un effetto devastante
sull’economia, e così è stato. Bush II ha stretto
il cappio, ponendo fine, con pretesti fasulli, agli aiuti e facendo
pressione sulle istituzioni internazionali perché facessero lo
stesso, contribuendo così ulteriormente all’implosione
della società. Non meno cinico è stato lo sprezzante
rifiuto da parte della Francia -che prima di Washington ha
distrutto originariamente Haiti- semplicemente di considerare la
richiesta, completamente legittima, di Aristide
dell’indennizzo della scandalosa indennità, che Haiti
era stata costretta a pagare per il crimine di essersi liberata
dalla tirannia e dal saccheggio francese, fonte di gran parte della
ricchezza francese. Tutto questo si è perso, rimpiazzato dalle
lamentazioni su come persino le nostre magnanimità e
nobiltà eccezionali fossero state insufficienti a portare
democrazia e sviluppo ai sottosviluppati Haitiani, anche se adesso
–nel nostro ingenuo ottimismo- ci avremmo provato di
nuovo.

Purtroppo quest’esempio di abietto
servilismo nei confronti del potere non è unico. Ma lo
spettacolo è particolarmente disgustoso, quando lo stato
più potente del mondo schiaccia sotto il suo stivale, una
volta ancora, il paese più povero dell’emisfero, come ha
fatto in un modo o nell’altro per 200 anni, prima col
comprensibile timore di una ribellione, che aveva instaurato il
primo paese di uomini liberi proprio accanto alla porta di uno
stato schiavista, e poi avanti fino ad oggi. È un esempio
deprimente di come una classe di disciplinatissimi intellettuali
possa trasformare persino le azioni più depravate in
un’altra occasione di auto-adulazione.

Recenti film e libri, provenienti dai circoli
istituzionali liberal, mettono a fuoco quasi esclusivamente le
azioni dell’amministrazione Bush all’estero
(l’avventura irakena sulla base di falsi pretesti) e in
patria (il PATRIOT Act, per esempio). Le analisi dovrebbero
includere una maggiora quantità di avvenimenti? e nel caso,
quanto indietro [si dovrebbe risalire]? Esiste davvero una qualche
differenza fra gli anni di Clinton e la gente che è
attualmente al governo? C’è un continuità maggiore
di quella che i recenti lavori suggeriscono?

L’amministrazione Bush è
l’estremità barbara e brutale di uno stretto spettro
politico. Di conseguenza, le sue azioni e le sue politiche sono
state oggetto di una critica senza precedenti nei circoli
dominanti, anche in quelli conservatori. Un buon esempio è la
reazione alla Strategia per la Sicurezza Nazionale (SSN),
pubblicata nel settembre 2002, con l’effettiva dichiarazione
di guerra all’Iraq e l’inizio di una campagna di
propaganda governativa di grandissimo successo, che ha portato la
popolazione impaurita al di fuori dello spettro dell’opinione
[pubblica] globale. La SSN è stata subito condannata nel
principale giornale dell’establishment, “Foreign
Affairs”, come una nuova “grande strategia
imperiale”, che è probabile che arrechi danno agli
interessi USA. Altri si sono uniti alla dura critica della
sfrontata arroganza e incompetenza degli strateghi: Rumsfeld,
Wolfowitz, Cheney e compagnia. Ma la critica era molto ristretta,
più preoccupata dello stile e dell’attuazione che della
sostanza. Tipica è stata, sempre su “Foreign
Affairs”, la reazione di Madeleine Albright. Come gli altri,
ha criticato gli strateghi di Bush. Ha aggiunto, correttamente, che
ogni presidente ha una strategia simile, ma non la sbandiera in
faccia alla gente, provocando anche l’ostilità degli
alleati. La tiene, piuttosto, nascosta nella tasca posteriore per
usarla, quando è necessario. Naturalmente, sapeva che la
“dottrina Clinton” era ancora più estremista della
SSN, in quanto dichiarava che gli Usa avrebbero fatto ricorso alla
forza, se necessario, unilateralmente per assicurarsi
l’accesso ai mercati e alle materie prime, senza neanche i
pretesti di “autodifesa” evocati dai propagandisti di
Bush e dai loro accoliti. Ma Clinton presentò la sua dottrina
sobriamente ed è stato attento nell’esecuzione dei suoi
crimini, che sono stati molti, in modo tale che fossero accettabili
per gli alleati e potessero essere giustificati o conciliati con
l’opinione dell’elite, media compresi.

Gli elementi di continuità sono reali e
risalgono molto indietro nella storia. Dopo tutto, le politiche
sono ampiamente radicate nelle istituzioni e queste sono molto
stabili. Ma ci sono anche delle differenze ed anche le piccole
differenze, in un sistema di enorme potenza, possono avere
conseguenze [enormi].

Sebbene le condizioni quotidiane e le
realtà strutturali in America Latina siano in generale
peggiori che negli Stati Uniti, il progresso politico degli ultimi
anni in America latina è esaltante, soprattutto in
considerazione delle disuguaglianze accumulatesi in paesi come il
Brasile. Come valutare questi successi? Vede la possibilità di
una maggiore solidarietà fra gli attivisti americani e le loro
controparti in questi paesi e, in generale, modalità
d’attivismo più globali?

Il Brasile è un caso importante e
illuminante. È istruttivo mettere a confronto i due paesi
più grandi e più importanti dell’emisfero.

Nelle prossime elezioni presidenziali degli USA
c’e una scelta fra due candidati, che sono nati per la
ricchezza e per il potere politico, che hanno frequentato la
medesima università d’elite, che fanno parte della
stessa società segreta, che istruisce i suoi membri allo stile
di vita e alle abitudini dei governanti, e che sono in grado di
concorrere alla presidenza, perché sono finanziati, per lo
più, dai stessi poteri capitalistici. L’industria delle
Pubbliche Relazioni, che sostanzialmente gestisce le campagne,
assicura che si tengano lontano dalle “questioni” (se
non in termini vaghi ed oscuri) e si concentrino sulle
“qualità” (“leadership”,
“personalità”, ecc.). Il pubblico non è
all’oscuro di questa marginalizzazione intenzionale.
All’epoca delle elezioni del 2000, il 75% del pubblico le
considerava per lo più senza senso: questo prima delle truffee
in Florida, della Corte Suprema, che per altro erano cose che
interessavano solo l’elite. Nel 2004, la posta in gioco
sembra essere maggiore e così pure l’interesse, ma
c’è una sorta di continuazione del lungo processo di
disimpegno, soprattutto fra i poveri e fra gli operai americani,
che semplicemente non si sentono rappresentati. Il progetto
dell’Università di Harvard, che monitorizza queste cose,
riferisce che attualmente “il gap di partecipanti [al voto]
fra il quarto della popolazione col reddito più alto e il
quarto col reddito più basso è di gran lunga il più
ampio di tutte le democrazie occidentali ed è
cresciuto”.

In un drammatico contrasto, in Brasile
c’è stata una vera elezione democratica. La gente
organizzata è risuscita a eleggere il suo candidato, una
persona che esce dai suoi ranghi, nonostante ostacoli di gran lunga
più consistenti di quelli che ci sono negli USA: uno stato
molto repressivo, la tremenda disuguaglianza, la concentrazione
della ricchezza e del potere dei media, l’estrema
ostilità del capitale internazionale e delle sue istituzioni.
C’è riuscita grazie a decenni di seria organizzazione e
di attivismo di organizzazioni popolari molto significative, il
Movimento dei Lavoratori Senza Terra, il PT, i sindacati e altre
ancora. Queste mancano del tutto negli “stati falliti”,
con forme democratiche che hanno poca sostanza, dove abbiamo delle
elezioni come quelle de novembre 2004.

È anche interessante confrontare la reazione
USA all’elezione di oggi in Brasile con quella di fronte
all’elezione di un candidato moderatamente popolare, con
molto minore sostegno e credenziali meno impressionanti, 40 anni
fa. La deviazione dalla buona forma condusse all’intervento
da parte dell’amministrazione Kennedy, che organizzò un
colpo di stato, compiuto poco dopo l’assassinio [di Kennedy],
che istituì uno Stato di Sicurezza Nazionale neonazista di
estrema brutalità, salutato dai liberals di Washington come
una grande vittoria per la democrazia e la libertà. Oggi una
cosa simile non la si prende in considerazione. In parte, il motivo
è che l’attivismo, intervenuto negli anni, ha portato in
entrambi i paesi a società più civili. Non è
più credibile che la popolazione USA tolleri la
criminalità palese degli anni di Kennedy e di Johnson o che i
Brasiliani capitolino facilmente. Un’altra ragione è che
l’instaurazione di dittature sanguinose non è più
necessario. Non dovrebbe essere un segreto, che i meccanismi
neoliberisti sono ben progettati per restringere al massimo la
minaccia rappresentata dalla democrazia. Fin quando il Brasile li
accetta, il presidente eletto deve rigettare il programma, sulla
base del quale è stato eletto, e seguire gli ordini dei poteri
e degli investitori finanziari internazionali ancor più
rigorosamente del suo predecessore, al fine di “dimostrare
affidabilità” ai padroni del mondo. Uno dei risultati
più importanti di Clinton è stato di definire più
strettamente questi vincoli, al fine di proteggere la ricchezza e
il potere dalla minaccia, che potrebbe effettivamente costituire la
democrazia.

Naturalmente, nessuno di questi [vincoli] è
inciso nella pietra. Negli anni 1980, per la prima volta nella
storia dell’imperialismo occidentale, in reazione ai crimini
reaganiani in America Centrale, si svilupparono movimenti di
solidarietà, che andarono ben al di là della semplice
protesta. Migliaia di persone si unirono alle vittime, per aiutarle
e fornir loro una qualche parziale protezione contro le forze
terroriste di stato e mercenarie, guidate dagli USA, che
devastavano la regione. Cosa ancor più stupefacente, erano
radicati nei circoli dominanti, con una significativa
partecipazione da parte di organizzazioni ecclesiastiche, fra cui
molte cristiano-evangeliche. Da allora questi movimenti si sono
estesi a molte altre regioni, con azioni di grande coraggio e
nobiltà, e con vittime eroiche, come Rachel Corrie. Oltre a
questo, per la prima volta vi sono movimenti di solidarietà
internazionale veramente significativi, con basi essenzialmente a
Sud, ma con una crescente partecipazione dal Nord, di estrazione
sociale e geografica molto differenziata. Fra questi vi sono i
movimenti per la giustizia globale (ridicolmente chiamati movimenti
“antiglobalizzazione”), che si sono incontrati al Forum
Sociale Mondiale in Brasile e in India e hanno dato vita in tutto
il mondo a forums sociali regionali e locali. Queste sono le prime
serie manifestazioni di un tipo di solidarietà internazionale,
che è stato il sogno dei movimenti di sinistra e operai fin
dalle loro origini moderne. Naturalmente, non possiamo prevedere
quanto lontano possano arrivare questi sviluppi. Ma sono
impressionanti e altamente promettenti.

Il conflitto di classe più aspro in Occidente
è tutto sommato ristretto al settore degli affari con un alta
coscienza di classe, che è spesso del tutto franco a proposito
dei suoi obiettivi, e che comprende molto bene quello, che le sue
pubblicazioni chiamano “il rischio che sta di fronte agli
industriali con la crescita del potere politico delle masse”.
Ma mentre riscuotono un gran successo nei settori dominanti di
potere negli USA e negli altri paesi industriali, non sono più
invulnerabili come lo sono stati in momenti comparabili a questo
per trionfalismo, nel passato.

Un tropo di questi giorni sostiene che il mondo
accademico è troppo “liberal”, “di
sinistra”, “radicale” ecc. Qual è il suo
giudizio su questa interpretazione e sullo stato del mondo
accademico in generale?

Devo ammettere che ho un’irrazionale
avversione per la parola “tropo”, come per altre
affettazioni moderne. Ma vincendola, questo “tropo” non
merita commenti. Posso accettare l’accusa che i media sono
“troppo liberal”. Queste accuse non sono del tutto
false. Per motivi veramente buoni, i sistemi dottrinali cercano di
focalizzare l’attenzione sulle “questioni sociali e
culturali” e in questi ambiti è in gran parte vero che i
professionisti (il mondo accademico, i media) siano
“liberal”, cioè, che abbiano un profilo simile a
quello dei dirigenti d’azienda. In gran parte la stessa cosa
è vera, quando ci spostiamo ad argomenti, che riscuotono molto
interesse fra la popolazione, ma che sono sistematicamente esclusi
dall’agenda elettorale e sono messi ai margini della cronaca.
Prenda, ad esempio, quelli che vengono ingannevolmente chiamati
“accordi per il libero commercio”. Godono di un
sostanziale consenso da parte dell’elite e in generale sono
criticati dalla gente, così che la loro analisi critica
–o persino la semplice informazione- deve essere in larga
misura nascosta, talvolta in maniera eccezionale, ben documentata.
Il mondo degli affari è ben consapevole di ciò. Gli
oppositori di queste versioni di integrazione economica, fondate
sui diritti degli investitori, hanno un’”arma
decisiva”, si è lamentato il Wall Street Journal: la
gente è contraria. Pertanto si devono escogitare diversi
mezzi, per tenere segreta la loro natura e per attuarli senza che
la gente se ne accorga. Lo stesso è vero per molte altre
questioni. C’è, ad esempio, un ampio accordo sul fatto
che il principale problema interno siano i costi crescenti della
sanità, all’interno del sistema più inefficiente
dell’intero mondo industrializzato, con le spese pro capite
più alte e i peggiori risultati sulla base di standards
comparativi. Le ragioni sono ben comprese dai professionisti: la
privatizzazione, che impone enormi inefficienze e costi, e
l’immenso peso dell’industria farmaceutica.
Regolarmente i sondaggi mostrano che il grosso della gente è
per qualche tipo di sistema sanitario nazionale (nell’ultimo
sondaggio, ho visto, è l’80%), ma appena se ne fa cenno,
la stampa “troppo liberal” lo lascia cadere come
“politicamente impossibile” (New York Times). È
vero: le compagnie d’assicurazione e l’industria
farmaceutica sono contrarie; e con l’effettiva erosione della
cultura democratica, pertanto, non ha importanza quello che vuole
la popolazione. La stessa cosa vale di solito anche per le
questioni internazionali. Per quanto si possa generalizzare, penso
che c’è poca differenza fra il mondo accademico e gli
altri settori delle classi professionali e dirigenti.

[traduzione di Giancarlo Giovine]