coetzeeracconto.gifdi J. M. Coetzee
[John Maxwell Coetzee, nato a Città del Capo nel 1940, è stato insignito del Premio Nobel per la Letteratura nel 2003]

Boston, sulla riva del Lincolnshire è una bella città, scrive l’altro.
Il suo campanile, il più alto di tutta l’Inghilterra, è un punto di riferimento per i naviganti. Boston è circondata da paludi in cui abbondano i tarabusi, sinistri uccelli le cui rauche grida si possono udire anche a due miglia di distanza, come l’eco di una fucilata.

Le paludi qui sono chiamate fen – prosegue l’altro – e ospitano molte specie di volatili: anatre selvatiche, alzavole, fischioni. Per catturarli, i fen-men, cioè gli uomini che vivono in quella zona paludosa, allevano alcune anatre per addomesticarle e farne uccelli da richiamo, detti anche anatre-civetta.
I fen sono distese paludose come ne esistono ovunque in Europa e in tutto il mondo, ma con nomi diversi. Fen è un termine inglese, una parola restìa a emigrare.
Le anatre-civetta del Lincolnshire – è sempre l’altro che scrive – vengono allevate in appositi stagni, e si imboccano a mano per addestrarle. Poi, all’inizio della stagione, si spediscono all’estero, in Olanda e in Germania, dove incontrano altre anatre della stessa specie. E vedendo la loro vita disagiata, in quei paesi ove d’inverno i fiumi gelano e la terra si copre di neve, si premurano di informarle, esprimendosi in un linguaggio che possano comprendere, di quanto diversa sia la vita dalle loro parti, in Inghilterra: le anatre inglesi, dicono, hanno a disposizione spiagge dove il cibo abbonda. Le maree inondano le valli senza incontrare ostacoli; e non mancano i laghi, le sorgenti, gli stagni a cielo aperto o al riparo. C’è poi grande abbondanza di grano, abbandonato sui campi dagli spigolatori; e quasi mai neve e gelo.
Con descrizioni del genere, scrive l’altro, esposte sempre nel loro linguaggio, le anatre- civetta attirano al loro seguito un gran numero di volatili, e per così dire li rapiscono, pilotandoli al di là dei mari. Così, dalla Germania o dall’Olanda li conducono ai loro stagni, nei fen del Lincolnshire. E intanto non smettono mai di blaterare, di subissarli di ciance, e nella loro lingua continuano a decantare gli stagni, spiegando che sono proprio quelli di cui tanto avevano parlato, dove oramai potranno vivere in tranquillità e sicurezza.
Nel frattempo gli adescatori e proprietari delle anatre-civetta si appostano di soppiatto nelle capanne di giunchi costruite all’uopo accanto ai fen, e non visti gettano manciate di grano sull’acqua, subito seguiti dalle anatre-civetta che attirano dietro di sé le nuove arrivate. Così, in capo a due o tre giorni, senza mai smettere di decantare i grandi pregi della vita in Inghilterra, le conducono lungo corsi d’acqua sempre più stretti, verso il luogo in cui sono state predisposte le reti.
A questo punto gli adescatori scatenano i loro cani, perfettamente addestrati a inseguire a nuoto i volatili abbaiando di continuo appresso a loro. Terrorizzate da quelle orrende creature, le anatre cercano di alzarsi in volo, ma si scontrano con le reti tese sopra di loro.
Risospinte così in acqua, sono costrette a nuotare per non perire, mentre la rete si abbassa sempre più sopra di loro fino a chiudersi come il lembo di una borsa. E in quel punto le aspettano gli adescatori, i quali le agguantano ad una ad una. E mentre le anatre-civetta ricevono in premio lodi e carezze, le altre sono immediatamente abbattute e spennate seduta stante per essere vendute a centinaia o a migliaia.
Questa cronaca del Lincolnshire, l’altro la scrive con la sua calligrafia nitida e vivace, servendosi di penne d’oca che ogni giorno tempera con un coltellino prima di riempire una nuova pagina.
A Halifax – è sempre l’altro che scrive – si ergeva, finché non fu soppresso sotto il regno di Re Giacomo I, uno strumento di supplizio che funzionava nel modo seguente: la testa del condannato doveva poggiare sulla trave alla base della struttura, chiamata anche lunetta.
Il boia faceva saltare lo spinotto che tratteneva la pesante lama, la quale piombava giù tra i montanti di una cornice alta quanto un portale di chiesa, decapitando di netto l’uomo come un coltello da macellaio.
A Halifax c’era però un’usanza: il condannato poteva avere salva la vita se riusciva, nell’attimo tra lo stacco dello spinotto e l’arrivo della lama, a balzare in piedi, correre giù per la collina e attraversare il fiume a nuoto senza farsi riprendere dal boia. Ma pare che non fosse mai accaduto, in tutti gli anni in cui quel marchingegno era rimasto in funzione a Halifax. Quanto a lui (in questo caso non l’altro, ma lui stesso) leggeva queste pagine seduto nella sua stanza, davanti all’estuario di Bristol.
È ormai avanti negli anni, tanto che si potrebbe quasi parlarne come di un vecchio. La pelle del suo viso, bruciata dal sole dei tropici prima che per proteggersi si fosse fabbricato il suo parasole di foglie di palme o palmette, adesso è un po’ più pallida, ma incartapecorita come cuoio vecchio. Il sole gli ha lasciato sul naso una piaga che non vuol guarire.
Il parasole, lo ha sempre con sé, appoggiato in un angolo della stanza; ma il pappagallo che aveva portato con sé è passato a miglior vita.
«Povero Robin! – squittiva il pappagallo appollaiato sulla sua spalla, povero Robin Crusoe! Chi salverà il povero Robin?» Sua moglie non poteva soffrire quel lamentoso povero Robin da mane a sera. «Gli tirerò il collo», diceva; ma non ebbe mai il coraggio di farlo.
Quando lasciò l’isola per tornare in Inghilterra con il suo pappagallo, il suo parasole e un baule pieno di tesori, per qualche tempo condusse una vita abbastanza tranquilla con l’anziana moglie, nella tenuta che aveva acquistato a Huntingdon – perché era diventato ricco. E più ancora si era arricchito dopo aver dato alle stampe il resoconto delle sue avventure. Ma dopo gli anni trascorsi sull’isola, e quelli spesi a viaggiare con il suo servitore Venerdì (povero Venerdì, diceva lamentoso tra sé, anzi quac-quac – dato che mai il pappagallo aveva voluto dire il nome di Venerdì, e non pronunciava altro nome che il suo) vivere da possidente lo annoiava. E a dire il vero, anche la vita coniugale fu per lui un’amara delusione. Sempre più spesso si rifugiava nella scuderia, tra i suoi cavalli, che fortunatamente non cianciavano ma si limitavano a nitrire pian piano quando compariva, tanto per dimostrare che lo conoscevano; e poi se ne stavano quieti.
Di ritorno dalla sua isola, dove fino all’incontro con Venerdì si era abituato a vivere in silenzio, gli sembrava che nel mondo si discorresse troppo. A letto accanto a sua moglie, quel berciare, quel chioccolio infinito gli dava la sensazione di essere investito da un diluvio di ciottoli in testa, mentre non desiderava altro che dormire.
Così, quando l’anziana consorte rese l’anima, osservò il lutto, ma non provò dispiacere. Dopo averla sepolta e aver lasciato passare un po’ di tempo in omaggio alle convenienze, lasciò a suo figlio la gestione della tenuta e andò a vivere in albergo, al Jolly Tar (tar = catrame, ndt) con vista sull’estuario di Bristol. Prese con sé soltanto il parasole dell’isola che lo aveva reso celebre, il pappagallo morto fissato alla sua pertica e pochi oggetti di prima necessità. Da allora, è sempre vissuto solo. Passa le sue giornate aggirandosi nei cantieri e sulle banchine, guardando oltre il mare – la sua vista è tuttora acuta – verso occidente, e fumando la pipa.
I pasti, se li fa portare in camera, dato che la compagnia non gli dà alcun piacere: sull’isola si è abituato alla solitudine. Non legge, avendo perduto ogni interesse per la lettura. Ma dopo aver messo per iscritto le sue avventure, quella di scrivere è diventata per lui un’abitudine, e un passatempo abbastanza gradito. La sera, al lume di candela, tira fuori le sue carte, tempera le sue penne e scrive una o due pagine su quell’altro – l’uomo che gli manda i resoconti sugli uccelli-civetta dello Lincolnshire o sul marchingegno di morte di Halifax, al quale può sfuggire soltanto chi riesce, prima che cali l’orrenda lama, a risollevarsi d’un balzo e a scendere di corsa la collina; e su molte altre cose ancora. Da ognuno dei luoghi in cui si reca, l’altro spedisce il suo resoconto: è questa la prima cosa da fare per quell’uomo tanto affaccendato. Quanto a lui, Robin – il povero Robin, come usava chiamarlo il pappagallo – passeggia lungo i bastioni del porto; e riflettendo sul marchingegno di Halifax, getta dall’alto un sasso e rimane in ascolto. In capo a un secondo – anzi, ancor meno di un secondo, il sasso piomba in acqua. La grazia di Dio giunge rapida, ma quella grande lama d’acciaio temprato, indubbiamente più pesante di un ciottolo e ingrassata col sego, non è più veloce ancora? Come riuscire a sfuggirle? E quell’altro, che tipo di individuo è mai? Uno che sfreccia così senza posa su e giù per il regno, da uno spettacolo di morte all’altro (da un massacro a una decapitazione) per poi spedire uno dopo l’altro i suoi resoconti?
Un uomo d’affari, dice tra sé. Mettiamo che sia un uomo d’affari, magari un mercante di granaglie o di pellami; o un fabbricante e fornitore di tegole, di una qualche località come ad esempio Wapping, dove l’argilla abbonda. Uno costretto a viaggiare di continuo per curare i suoi interessi. E magari se la passa bene – ha una moglie che lo ama e non chiacchiera troppo, e gli ha dato dei figli, e soprattutto figlie femmine. Uno che è ragionevolmente felice. E poniamo che all’improvviso questa felicità finisce. Un inverno, il Tamigi tracima e allaga i forni di cottura delle tegole, oppure la concerie delle pelli o i magazzini del grano sono travolti dalle acque. Ed ecco che questo suo uomo è rovinato. I creditori gli si avventano contro come mosche, o piuttosto come corvi, ed è costretto a fuggire da casa sua, da sua moglie, dai suoi figli, per nascondersi nei più miserabili tuguri di Beggars Lane (ndt: via dei Mendicanti) travestito e sotto falso nome. E tutto questo – l’alluvione, la rovina, la fuga, la miseria, gli stracci, la solitudine – è come se raffigurasse il naufragio e l’isola ove lui, il povero Robin, era vissuto per ventisei anni isolato dal mondo e ridotto quasi alla follia (ma a dire il vero, chi può dire che in qualche misura non sia davvero impazzito?).
O magari quest’uomo potrebbe essere un sellaio; potrebbe possedere una casa, un negozio e un magazzino a Whitechapel. Potrebbe avere un neo sul mento, ed essere sposato con una donna che gli vuole bene, non chiacchiera e gli dà dei figli, anzi soprattutto figlie, e tanta felicità – finché un giorno un flagello colpisce la città. È il 1665, il grande incendio di Londra non c’è ancora stato. È la peste che si abbatte su Londra. Di giorno in giorno, di parrocchia in parrocchia, il conto dei morti sale sempre più – ricchi e poveri, poiché il contagio non fa distinzione di status, e tutti i beni terreni del sellaio non bastano a salvarlo. Allora spedisce in campagna la moglie e le figlie, pensando di seguirle a sua volta, ma poi rinuncia. Aprendo a caso la Bibbia legge: «Non tremerai di terrore la notte. Non ti farà paura la freccia che di giorno colpisce, né la pestilenza che si aggira nell’ombra, o la devastazione in pieno meriggio. Saranno in mille a cadere al tuo fianco, e in diecimila alla tua destra, ma tu non sarai colpito».
Ripreso coraggio grazie a quel segno foriero di salvezza, rimane nella città afflitta e incomincia a scrivere i suoi resoconti. Per strada, scrive, mi ritrovai per caso in un assembramento, e nel mezzo di quella folla una donna indicava il cielo: «Guardate, gridava la donna, là c’è un angelo vestito di bianco che brandisce una spada fiammeggiante!» E tutti annuivano guardandosi l’un l’altro e dicevano: «È vero, c’è un angelo con in mano una spada!» Ma lui, il sellaio, non vedeva né l’angelo né la spada. Vedeva soltanto una nuvola di forma strana, più luminosa da un lato, quello su cui si rifletteva lo splendore del sole.
«È un’allegoria!» Gridava la donna per strada. Ma il sellaio, per quanto guardasse, non riusciva a vedere nessuna allegoria. Così il resoconto.
Un altro giorno, mentre passeggia in riva al fiume a Wapping, quell’altro, che un tempo faceva il sellaio ma ora non ha più un’occupazione, nota una donna affacciarsi alla porta di casa sua. E la sente chiamare un uomo che rema in una barca. «Robert! Robert!» L’uomo si accosta alla riva del fiume, prende dal fondo della barca un sacco e lo appoggia a un sasso sulla riva; poi si allontana di nuovo remando. E la donna, col volto segnato da un profondo dolore, scende fino alla riva, raccoglie il sacco e lo porta a casa.
Allora l’altro interpella quel Robert, l’uomo della barca. Questi lo informa che la donna è sua moglie. Nel sacco ha lasciato viveri per una settimana per lei e i bambini: carne, farina, burro. In casa sua tutti, la moglie e i figlioli, sono contagiati dalla peste: perciò, anche se ha il cuore a pezzi, lui non osa avvicinarsi alla casa.
E tutto questo – la donna e Robert, l’uomo nella barca, che si lanciano richiami dalla riva al fiume, e il sacco lasciato sull’argine – certo ha un significato in sé, ma al tempo stesso è anche una metafora della sua propria solitudine, quella di Robinson sulla sua isola, quando nell’ora della più nera disperazione invocava soccorso chiamando i suoi cari al di là dei flutti; o quando raggiungeva il relitto a nuoto, in cerca di rifornimenti.
Altro resoconto di quel periodo sventurato: a Whitechapel un uomo colpito dal contagio, incapace di sopportare oltre il dolore dei bubboni all’inguine e sotto le ascelle che sono i segni della peste, esce di casa urlando e correndo, completamente nudo. Corre così sulla Harrow Alley, e quell’altro, cioè il sellaio, lo vede saltare e impennarsi e fare mille gesti stravaganti, mentre la moglie e i figli lo rincorrono chiamandolo e gli gridano di tornare a casa. E pure quei balzi, quelle impennate sono un’allegoria dei suoi gesti insensati e farneticanti, quando dopo la catastrofe del naufragio e la vana ricerca dei compagni di navigazione, si era reso conto di essere abbandonato, completamente solo su un’isola selvaggia, senza speranza di salvezza.
(Ma cos’altro – si chiede – cos’altro canta in segreto, oltre alla sua desolazione, quel povero afflitto di cui sta leggendo gli scritti?
Chi mai sta chiamando, dal fuoco che arde in fondo al suo essere, al di là dei flutti, al di là degli anni?) Un anno prima lui – Robinson – aveva dato due ghinee a un marinaio per un pappagallo che questi diceva di aver portato dal Brasile.
Benché non all’altezza della magnifica creatura da lui tanto amata, era certo uno splendido esemplare, dalle piume verdi e dalla cresta scarlatta; e molto loquace, almeno a detta del marinaio. Difatti, nella stanza d’albergo dove lo teneva, la zampa legata alla sua pertica con una catenina in caso avesse cercato di volar via, ripetere di continuo «Povero Poll! Povero Poll!» – tanto che alla fine dovette mettergli un cappuccio in testa; ma non c’era verso di fargli imparare anche una sola parola in più – «povero Robin!» ad esempio. Forse era oramai troppo vecchio.
Il povero Poll si affaccia alla stretta finestra e lascia vagare lo sguardo al di là delle alberature, oltre i grigi flutti dell’Atlantico: «Che isola è mai questa – chiede il povero Poll – così fredda e lugubre, la sorte mi ha gettato?Dov’eri Tu, mio Salvatore,quando ti invocavo nell’ora dell’angoscia?».
A tarda notte, un uomo ubriaco fradicio (questo pure è un resoconto dell’altro) si addormenta sotto un portone a Cripplegate. Passa la carretta dei morti (siamo sempre nell’anno della peste) e i vicini, credendolo ormai senza vita, lo caricano insieme ai cadaveri. Di sosta in sosta, la carretta arriva alla fossa comune di Mountmill e il monatto, il volto fasciato per proteggersi dalle esalazioni, afferra l’ubriaco per gettarlo nella fossa. Quello si solleva, stordito, e incomincia a dibattersi. «Dove sono? – chiede. – Stai per essere sepolto con i morti», risponde il monatto. «Ma allora – dice l’uomo – allora io sono morto?» E anche questa storia è una metafora del naufrago sull’isola.
A Londra, molti continuano a badare alle proprie faccende credendo di star bene, e sperano di farla franca. Ma la peste è entrata in segreto nel loro sangue – scrive quell’altro – e quando l’infezione raggiunge il cuore muoiono di colpo, come colpiti dal fulmine. Questa è una metafora della vita stessa, di tutta quanta la nostra vita.
Prepararsi a dovere. Bisogna prepararsi a dovere alla morte, per non rischiare di essere colpiti senza preavviso. Di questo lui, Robinson, si era dovuto rendere conto quando un giorno, sulla sua isola, scoprì l’impronta di un piede umano sulla sabbia. Un’impronta, cioè un segno: il segno di un piede, di un uomo. Ma voleva dire molte altre cose.
«Tu non sei solo», diceva quel segno. E diceva anche: «Per quanto tu possa spingerti lontano sui mari, per quanto tu ti nasconda, dovunque sarai scovato».
Durante l’anno della peste, scrive l’altro, molti, in preda al terrore, hanno abbandonato tutto: casa, moglie, figli, per fuggire il più lontano possibile da Londra. Una volta passata la peste, costoro vennero dovunque accusati di viltà. Ma si dimentica, scrive quell’altro, che tipo di coraggio ci voleva per affrontare la peste. Non il semplice coraggio del soldato che impugna un’arma e carica il nemico. Era come caricare la morte stessa sul suo cavallo esangue.
Ora, anche quand’era al meglio delle sue capacità, il pappagallo – il più amato dei due, quello dell’isola – non aveva mai detto una sola parola che non gli fosse stata insegnata dal suo padrone. Com’è possibile allora che quell’altro – pur essendo una specie di pappagallo, e neanche tanto amato – scriva non meno bene del suo padrone, o magari meglio? Perché ha una penna davvero forbita, su questo non c’è che dire. Caricare la morte stessa, sul suo cavallo esangue. Quello che sapeva far lui, per averlo imparato alla sala conti, era fare calcoli e fatture, non costruire frasi. Caricare la morte stessa sul suo cavallo esangue! Lui non ci avrebbe mai pensato. Una frase del genere poteva venirgli in mente solo nei momenti in cui si abbandonava completamente a quell’altro. E quanto alle anatre, agli adescatori, agli uccelli-civetta: che ne sapeva lui, Robinson, di queste cose? Nulla, prima che l’altro incominciasse a mandargli i suoi resoconti.
Le anatre civetta del Lincolnshire, il marchingegno di morte a Halifax: cronache di un periplo, un grande giro della Gran Bretagna che l’altro sembra aver intrapreso. Altra metafora: quella del suo periplo, della sua esplorazione intorno all’isola, sulla piroga che si era costruita.
Grazie alla quale aveva conosciuto anche il lato più lontano dell’isola, scosceso, oscuro, inospitale, dove da allora in poi aveva sempre evitato di andare. Forse in futuro, i coloni che approderanno sull’isola potranno esplorarlo e stabilirvisi – ed ecco un’altra metafora, il lato oscuro dell’anima e la luce.
Quando le prime bande di plagiari e di imitatori si avventarono sulla storia della sua isola per infliggere al pubblico le loro versioni contraffatte della vita del naufrago, gli facevano l’effetto di un’orda di cannibali che si accanivano sulla sua stessa carne, sulla sua vita; e non si fece scrupolo di dirlo. «Quando mi difendevo dai cannibali che cercavano di atterrarmi per arrostirmi e divorarmi, aveva scritto credevo di difendermi contro quell’atto in quanto tale. Non mi venne in mente, aveva scritto, che quei cannibali prefigurassero una voracità più diabolica, avida di azzannare la sostanza stessa della verità».
Ora però, dopo ulteriore riflessione, nel suo cuore si sta insinuando una certa amichevole comprensione per i suoi imitatori. Perché ora gli sembra che in tutto il mondo esista solo una manciata di storie; e chi vietasse ai giovani di saccheggiare i più anziani li condannerebbe a rimanere perennemente in silenzio. Ad esempio, nella narrazione delle sue avventure sull’isola racconta come una notte si destò terrorizzato, convinto che il diavolo gli si fosse sdraiato addosso sotto le sembianze di un enorme cane. Si alzò d’un balzo, afferrò un coltellaccio e incominciò a menarlo per aria a destra e a manca per difendersi, mentre il povero pappagallo che dormiva accanto al suo letto lanciava grida allarmate. Solo molti giorni dopo si rese conto di non aver avuto addosso né un cane né un diavolo, ma di essere stato vittima di un attacco di paralisi passeggero; e sentendosi incapace di muovere la gamba, si era convinto che su di essa si fosse accovacciata una qualche creatura. L’insegnamento da trarre da quest’episodio sembra essere questo: qualunque afflizione, compresa la paralisi, viene dal diavolo, anzi è il diavolo stesso; per cui chi è colto da una malattia è visitato dal diavolo, o da un cane che lo incarna, o viceversa; e questa visita è raffigurata dalla malattia, come nella storia della peste narrata dal sellaio; perciò chi scrive storie sull’uno o sull’altra – sul diavolo o sulla peste – d’ora in poi non dovrebbe essere trattato con leggerezza da mistificatore o da ladro.
Quando, anni fa, decise di mettere nero su bianco la storia della sua isola, scoprì che le parole non gli venivano. La penna rifiutava di correre sulla pagina, persino le dita erano rigide e refrattarie.
Ma poi, di giorno in giorno, passo dopo passo, acquisì il mestiere dello scrivere. E quando arrivò a descrivere le sue avventure con Venerdì, nel Nord, sotto la morsa del gelo, le pagine si susseguivano con facilità, senza quasi bisogno di pensare.
Questa passata facilità del comporre lo ha purtroppo abbandonato.
Quando si siede al tavolino, davanti alla finestra che dà sull’estuario di Bristol, ora più che mai sente le dita intorpidite e la penna come uno strumento estraneo.
Chissà se a quell’altro riesce più facile scrivere? Le storie che narra – di anatre, macchine di morte, Londra sotto il flagello della peste – hanno un bell’andamento, abbastanza scorrevole, come del resto quelle che lui scriveva in passato. Magari lo avrà giudicato male, quell’omino azzimato dal passo veloce col mento segnato da un neo. Forse, in questo stesso momento se ne sta seduto solo solo in una qualche stanza d’affitto in questo vasto regno, e intinge ripetutamente la penna nel calamaio, assillato dai dubbi, dalle esitazioni e dai ripensamenti.
Come raffigurarsela, quella coppia: lui e l’altro? Il padrone e lo schiavo? Oppure due fratelli, due gemelli? Due compagni d’armi? Oppure avversari, nemici? Come chiamarlo, quell’anonimo compagno con cui condivide le serate e talora le notti, assente solo durante il giorno, quando lui, Robin, percorre le banchine ispezionando i nuovi arrivi, mentre quell’altro galoppa in giro per il regno, intento alle sue ispezioni?
Nel corso dei suoi viaggi, gli capiterà mai, a quell’altro, di fare una puntata a Bristol? Vorrebbe tanto poterlo incontrare in carne ed ossa, stringergli la mano, fare un giro con lui sulle banchine, ascoltare il racconto delle sue visite nell’oscuro nord dell’isola, o delle avventure che affronta nel mestiere di scrivere. Ma teme che quest’incontro non avverrà mai – non in questa vita. Se gli venisse chiesto in cosa si somigliano, lui e quell’altro, li descriverebbe come due navi che veleggiano in direzioni opposte – una verso est, l’altra verso ovest. O meglio come due marinai che faticano sul sartiame di due diverse navi, l’una diretta ad ovest e l’altra ad est. Le navi si incrociano fianco contro fianco, abbastanza vicine per un richiamo. Ma la mareggiata è forte, una tempesta incombe; gli spruzzi d’acqua fanno stringere gli occhi, il cordame brucia le mani – e così i due si sfiorano senza riconoscersi, talmente presi da non riuscire neppure a scambiarsi un cenno di saluto.