di Daniela Bandini

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Simona Vinci, Brother and sister, Einaudi Stile Libero, 2004, pp. 116, € 8,50.

Grande conoscenza dell’infanzia, dell’adolescenza, della tenerezza e della sopraffazione, in questo breve romanzo di Simona Vinci. Una piccola perla da infilare nella collana delle nostre letture disparate, che ci regala una sensazione di approfondimento. L’infanzia di tre fratelli, due quasi maggiorenni e l’ultimo molto più piccolo, alle prese con il trauma più grande, la perdita prima del padre e poi della madre. Con i loro occhi, cedendo alla tentazione di evitare il confronto con i dettagli spietati della realtà, indaghiamo la quotidianità stravolta dal destino: solcare l’orma psicologica dei traumi senza lasciarne traccia.


La casa di campagna, già povera, diventa poverissima, con il frigorifero rotto e le provviste che mancano, e la convinzione, la volontà ostinata che tutto dovrebbe continuare almeno così come è sempre stato, se non migliorare. Di genitori adottivi, di assistenti sociali, di ambienti protetti non ne vogliono sapere: “Ci bastiamo”, credeteci. La loro unione è l’unica ragione per la quale valga la pena crescere e continuare a camminare sull’onda della trasparente visione delle giornate, dalle cadenze irreali, a volte risolutive a volte tutte da inventare, aggrappandosi l’un l’altro in una sorta di identità collettiva.
Tutto il romanzo si svolge nell’arco di una notte. “C’è la luna piena. Una luce azzurra intorno alla casa, sopra i dorsi degli animali selvatici in rapida corsa attraverso i campi… Un mondo azzurro e ondeggiante simile a quello dei documentari subacquei…” E in quella notte accadranno molte cose e non accadrà nulla, esattamente come succedeva a noi da bambini. Credevi di avere fatto esperienze straordinarie e di straordinario c’era solo il fatto che le avevi fatte per la prima volta, o con una persona diversa. La “straordinarietà” degli accadimenti dell’infanzia è tutta qui: la percezione sensoriale dilatata nell’affrontare a ogni pié sospinto chissà quale rivelazione, votarsi a un dio per un sorriso benevolo, interiorizzare parole e suoni attribuendo loro significati sovrannaturali e decisivi.
L’ancora del realismo è ancora lontana dall’essere gettata nel fondo del mare tempestoso dell’infanzia e dell’adolescenza. La storia “normale” di questi tre bambini della provincia di Bologna mi fa riflettere a con quanto snobismo consideriamo gli eventi distanti da noi, con il progredire dell’età. I tre protagonisti della storia sembrano piccoli kamikaze, e a loro modo lo sono. Travolti dal dolore vero, quello che non ti fa versare neanche una lacrima, che ti lascia annichilito nel tentativo di rielaborare una tua coscienza, inventano un nemico per affermare la loro unicità.
Penso ai bambini dei campi profughi, quelli asserragliati nella paura di non farcela, dalle notti piene di sogni spezzati, di tristi, laceranti ricordi intorno a sé. Nel romanzo della Vinci c’è un particolare, il più feroce: è il camice da lavoro della madre, che lavora alla Despar, con il cartellino e il suo nome che dondolano nell’attacapanni dell’ingresso ogni volta che una corrente, o la porta, o un piccolo urto lo smuovono. Ve lo ricordate l’odore dei vostri genitori? L’odore degli abiti da lavoro. Impregnato da tutto quel sudore e quelle responsabilità del farci crescere “senza farci mancare nulla”, quell’odore che ci intimoriva e ci rassicurava, nonostante tutto. Un odore di sacrificio.
Quel camice a ricordarci che tutto è cambiato, che la malattia e la morte hanno trionfato su quel ridicolo orpello che ostinatamente ciondola ancora. E ripenso a quei bambini, alle parole che trasudano giorno e notte ingiustizie subite e funerali di borgata, dove gli abiti da lavoro o un piccolo regalo mai più utilizzabile gravitano nel rancore e nell’azzardo del riscatto. Non è una questione di “capire una mentalità”, è questione di età. Vendicare un disonore, reale o presunto, è senz’altro un sentimento più potente a 15 anni che a 40.
Questi tre fratelli, che la morte comunque interiorizzano, come tutti i bambini, vivono questo apparente paradosso: la morte come un evento naturale. Perché questo è, secondo me, l’aspetto peculiare di tutta la vicenda. L’affannosa ricerca di concretezza o, al contrario, di una esasperata isteria esistenziale è per allontanarci da quello spettro, a suo modo, da quella visione “naturalistica” del corpo che è il suo disfacimento.
La paura della morte è un processo evolutivo, non dimentichiamolo. Potente come l’autoconservazione, nell’infanzia (soprattutto quella rurale), il sacrificio del coniglio o della capra, come lo sgozzamento del maiale, la morte improvvisa del cane o l’eliminazione dei cuccioli, è alla stregua della dipartita dell’anziana nonna che tutti si sono stancati di accudire. E’ normale.
Forse è questo il solco, il divario immenso che ci spinge a non poterci identificare con i bambini: il loro esclusivo rapporto con la morte. Che li porta a esserne terrorizzati come minaccia incombente e ad accettarla come fatto inevitabile. Di kamikaze adulti, oltre i 30 anni, ce se sono ben pochi. Di bambini che, invece di provare pietà per la morte della madre, provano il rancore sordo per una partenza che poteva rimandare ce se nono tanti. “Se ne è andata perché non ci voleva più bene”, perché poteva anche fare diversamente, pensano. E l’eutanasia, questo precetto disseminato di intransigenze etiche non è affatto lontano dalla mentalità dell’infanzia e dell’adolescenza, perché manca “la paura”. Manca quell’empatia necessaria a considerare gli accadimenti come potenziali boomerang. Gli eventi accadono, tutto qui. Riflessioni…