di Alberto Bevilacqua

piaf.jpgA condurmi nel parco di Fontainebleau fu Edith Piaf. Io ero ragazzino. Lei mi confessò che quello era il luogo che la ispirava di più, che più la spingeva ad aprirsi, a confessarsi, anche con se stessa. Raggiungeva spesso il parco, prendeva a camminare da sola e si metteva a cantare: provava, in solitudine, le canzoni che le passavano per la testa e le capitava di improvvisarne di nuove, stordita dal profumo di quegli alberi.
Ricordo, appunto, che conducendomi per il braccio si mise a canticchiare, improvvisare, quel passaggio della Canzone delle guardie svizzere con cui si apre Viaggio al termine della notte, di Louis Ferdinand Céline, uno scrittore che proprio lei mi aveva spinto a leggere, e io ne ero rimasto turbato, affascinato.

«La nostra vita è un viaggio» intonò. «Nell’Inverno e nella Notte / Noi cerchiamo il nostro passaggio / Nel Cielo…». Il cielo, sopra il parco, era già attraversato dalla luce della primavera, un incanto di risonanze luminose, e Piaf cantava l’Inverno e la Notte… Mi confessò che sentirsi fasciata dal verde fiorito di Fontainebleau le procurava un senso di leggerezza, la innalzava al di sopra delle cose, e le cose le diventavano amiche.

A Parigi, invece, si sentiva assalita e la sua mente, il suo stesso camminare, le diventavano pesanti, le insinuavano un senso di infelicità. Le pareva che tutti volessero avvicinarla per saccheggiare la sua biografia per molti aspetti misteriosa e violenta. Le piacevano le citazioni e le similitudini. E ne abusava. Almeno con me. Tornando ossessivamente sulle dolorose esperienze dell’infanzia, le paragonava anche a Ipazia, la bella neoplatonica che faceva scuola ad Alessandria e, un giorno, si sollevò la tunica e mise in mostra il sesso, invitando uno studente a scegliere fra questo e l’insegnamento. Concluse: «Io non sono mai riuscita a scegliere».
Stava già male, ma mi ripeteva: «Tutto deve ancora cominciare». Salvo smentirsi subito dopo, con un cenno alla sua prossima morte: «Diranno di me: ha dato voce a un tempo in cui l’innocenza veniva venduta in piazza, ma il suo piacere non è mai sceso a patti».

Riconosceva che i suoi uomini erano spesso degli aggressivi; tuttavia, di un’aggressività dove degenera l’opposto, la mitezza, quando la realtà la umilia e la combatte. Fece un raffronto fra Céline e Marcel Cerdan, il pugile che aveva amato: lo scrittore si era servito delle parole come Cerdan dei pugni; parole e pugni compensavano intime ferite mortali… A questo esame della sua vita la portava il parco di Fontainebleau, coi suoi barlumi fra il verde fitto, come granelli di sabbia di fuoco, gli alberi che ci svettavano sopra le teste, e il suo sguardo saliva, saliva fino alla loro cima, e lei se ne estasiava, lei che si portava nella voce il buio dei vicoli e il magro sole dei ballatoi delle case povere, quando alle finestre si stendono le lenzuola dei letti appena sfatti.

«Questo parco ha una calma femminile, non credi?» mi chiedeva. «Questo parco ti fa capire che il vero grido non è quello che assorda, ma l’altro perduto nell’atto di averlo: nella bocca spalancata di un muto… È un’immagine che mi ossessiona. Anche quando mi esibisco. Io sto lì, su un palco, e canto, ed ecco che questa immagine mi blocca la gola». E ancora: «Questo parco ha una magia tutta particolare. Ci consente di andare al passo con tutte le cose che abbiamo perduto… La vita, in fondo, cos’è? Siamo salpati talmente in fretta da dimenticarci la nave».

Il parco di Fontainebleau faceva affiorare la poesia sulle sue labbra. Diceva che quel parco avrebbe potuto dipingerlo Max Ernst: «La tecnica che usa è come la mia vita. Molto più color sangue che rosa, le nervature del legno, le venature di una foglia, la grana di un sasso».

Biografia
piaf2.jpgEdith Piaf è stata la maggiore “chanteuse realiste” francese tra gli anni ’30 e ’60. Il suo vero nome era Edith Gassion e nacque il 19 dicembre 1915. Edith Gassion, si scelse il nome d’arte di Edith “Piaf” (che in argot parigino vuol dire “passerotto”) in occasione del suo debutto, nel 1935.
Di origini sfortunate, la cantante visse la propria infanzia nella miseria dei quartieri Parisni di Belleville. Sua madre era una livornese, Line Marsa, una cantante sposata al saltimbanco Louis Gassion. La leggenda vuole che sua madre l’avesse partorita per strada, aiutata da un flic, ossia un poliziotto francese. Trascorse parte dell’infanzia nel bordello di Nonna Marie in Normandia. Poi ebbe un’audizione al “Gerny”, locale con cabaret e soprattutto la protezione di Louis Leplé e, il suo primo impresario morto misteriosamente qualche anno dopo.
Il suo debutto avvenne nel 1935: con un abito nero fatto a maglia, di cui non riuscì a terminare le maniche, e coperta alle spalle con una stola per non emulare la grande Maryse Damia, incontrastata regina della canzone francese di allora. La sua scalata al successo ebbe comunque inizio a partire dal 1937, quando ottenne un contratto con il Teatro dell’ABC.
Con la sua voce variegata e caleidoscopica, capace di mille sfumature, la Piaf anticipò di oltre un decennio quel senso di ribellione e di inquietudine che incarneranno poi gli artisti intellettuali della “rive gauche” di cui faranno parte Juliette Greco, Camus, Queneau, Boris Vian, Vadim. Quello che colpiva chi la sentiva cantare è che nelle sue interpretazioni sapesse usare di volta in volta toni aggressivi e acidi, sapendo magari passare subitaneamente a inflessioni dolci e venate di tenerezza, senza dimenticare certo spirito gioioso che solo lei era in grado di evocare.
Ormai lanciata nell’empireo delle grandi a cui si deve particolare attenzione, attraverso il suo secondo impresario, il temibile Raymond Asso, conobbe il poledrico genio di Cocteau che a lei si ispirò per la pièce teatrale “La bella indifferente”.
Militante durante la guerra contro la Gestapo, conquistò la Francia nel dopoguerra con “Le vagabond”, “Le chasseur de l’Hô tel”, “Les Historie du coeur”, realizzando anche una tourné negli Stati Uniti, paese che in verità l’accolse freddamente, forse spiazzato dalla raffinatezza dell’artista, che usciva dai canoni consolidati della “belle chantause” impregnata di esotismo. Ma Edith Piaf era quanto di più lontano ci si potesse immaginare da quel modo di porsi e per avvicinarsi a lei e capire al sua arte era necessaria una certa attenzione, uno sforzo che permettesse di andare al di là di dati superficiali. Inoltre, l’universo cantato nei suoi testi era spesso quello degli umili, di storie meste e sconsolate tese ad infrangere tropo facili sogni, cantate con una voce trasmetteva il mondo dell’umanità quotidiana con il suo sconfinato straziante dolore.
Collaboratori importanti che realizzarono questa affascinante miscela, nomi che in definitiva contribuì lei stessa a lanciare nel mondo dello spettacolo, furono personaggi in seguito celeberrimi e irripetibili, come Yves Montand, Charles Aznavour, Eddie Costantine, George Moustaki, Jacques Pills e tanti altri.
Attrice in una decina di films, dopo altri successi tra cui “Milord”, l’intensa “Les amantes d’un jour” e “La vie en rose”. Dopo un periodo di sconforto per la morte in un incidente del terzo marito, il pugile Marcel Cerdan, raggiunse la celebrità mondiale con “Nom, je ne regrette rien”.
La grande cantante si è spenta l’11 Ottobre 1963.