di Francesco Lato

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Michel Faber — Il petalo cremisi e il bianco — Einaudi, 2003 — pp. 985 – € 18,00

Venti anni per le ricerche e dieci per la stesura. I modelli: Dickens, Thackeray, Trollope e in generale il grande romanzo vittoriano dell’Ottocento. Questo quanto dichiara l’autore, Michel Faber, nato in Olanda e vissuto in Australia, oggi residente in Scozia, dove si è stabilito in una casa cantoniera ristrutturata, a ridosso di una piccola stazione ferroviaria in disuso. Il libro si inserisce in un filone recente che pare incontrare i favori del pubblico anglosassone, da entrambi i lati dell’oceano: romanzi non solo di ispirazione e struttura ottocentesca, ma di fatto ambientati nei luoghi e nei tempi dei classici citati all’inizio.

Soprattutto la Londra imperiale della seconda rivoluzione industriale, col suo mix di positivismo ideologico, atavico classismo, inarrestabile progresso tecnico e degrado sanitario e sociale, quest’ultimo ovviamente riservato agli strati più reietti della popolazione. Il romanzo di Faber dovrebbe essere il primo di tale vecchio-nuovo genere ad approdare da noi.
Si tratta della storia del riscatto sociale di Sugar, rinomata prostituta diciottenne, riscatto che, stanti i tabù dominanti nella rigida società dell’epoca, non può che avvenire in maniera clandestina e con le uniche armi a disposizione, quelle del sesso. Detto in altre parole, si troverà un amante, ricco anche se non ricchissimo, e ne diverrà la mantenuta. La trama è tanto flebile che si poteva riassumere in 200 pagine.
Le rimanenti 800 vorrebbero essere l’armamentario con cui l’autore ci trasporta nella Londra del 1875, con odori, sapori e suoni “autentici”. (Se dipendesse solo dalla quantità di escrementi descritta nel romanzo, si potrebbe anche dire che ha raggiunto lo scopo!) Alcune fonti sono citate neanche tanto velatamente: una guida ai piaceri di Londra che doveva essere alquanto in voga (e che ricorda da vicino quelle sul Puttan-tour de Milàn in giro qualche anno fa); un manuale sulla tecnica di preparazione dei profumi (il riccastro che mantiene Sugar è un industriale in questo campo) e alcuni libelli anti-religiosi. Quello che tuttavia manca clamorosamente, vista la mole a disposizione, è il senso della mentalità dell’epoca, dello spirito del tempo, della trasformazione che avveniva nei cuori e nelle menti nel momento in cui la società iniziava a secolarizzarsi. Una società in cui prescindere dall’esistenza di Dio destava ancora scandalo ma non era più indicibile e veniva detto da uomini che adottavano il punto di vista dell’osservazione scientifica, cosa per noi oggi quasi banale ma che allora doveva essere sconvolgente. Pensiamo ai dilemmi di Darwin, messo di fronte alle discrepanze tra i risultati delle sue ricerche e le proprie profonde convinzioni religiose.
Tale operazione riusciva bene a John Fowles nel noto La donna del tenente francese, dove non per ultima era analizzata la crisi della morale sessuale di fronte ai grandi cambiamenti. Al contrario, Faber non fa altro che utilizzare scene di sesso e descrizioni di organi sessuali come l’unico pepe che gli riesce di escogitare. In questo ricorda molto i romanzi alla Jackie Collins o Barbara Taylor Bradford: Harmony di lusso con sesso esplicito, tante Liala attualizzate agli anni 2000 che si rivolgono alla lettrice donna sessualmente “liberata”.
Curiosamente proprio il comportamento sessuale dei personaggi è del tutto astoricizzato: o non fanno sesso per niente, come Henry, il fratello del protagonista, tormentato dai dubbi religiosi, o sono i soliti vecchi porci, che anelano alle pratiche più umilianti (per la donna, ovviamente). Niente di nuovo sotto il sole, sembra dire l’autore. Ma allora, valeva la pena di scrivere un romanzo storico? Così i personaggi sono sviscerati allo spasimo ma mai si elevano al di sopra della macchietta. L’unico che sembra uscire dallo stereotipo è all’inizio proprio la protagonista Sugar, presentata come una femminista ante litteram e pure delle più arrabbiate e cariche di giusto odio verso il maschio, il maschio inglese e vittoriano. Ma l’illusione dura poco, perché anche lei finisce per agire in base a motivazioni banali e inconsistenti, dettate dal puro desiderio di sopravvivere e soprattutto di salvaguardare quel tanto di lusso appena conquistato. Infine, trattandosi di un libro che vorrebbe avere il respiro dei classici dell’Ottocento, manca totalmente di un finale, a meno che dobbiamo aspettarci un sequel.
Il punto più debole del libro però non è la sua malcelata commercialità. Questo di per sé non è un peccato, anzi. Dove fallisce è proprio nella pretesa di fare letteratura “alta” avvincendo nello stesso tempo come un grande romanziere popolare. Non riuscendovi, si affida al minuzioso reiterarsi di piccoli episodi sempre uguali, mai risolutivi, come in una fiction televisiva. E, come in una fiction, la lettura va avanti ipnoticamente, senza grande piacere ma anche senza troppo fastidio, finché arrivi alla fine e ti dici che, sì, ancora un po’ e ti saresti annoiato davvero.