di Goffredo Fofi
vonnegut.gif[In occasione della ristampa, per Feltrinelli, di Un pezzo da galera, uno dei capolavori di Kurt Vonnegut, riproduciamo un intervento pronunciato da Goffredo Fofi al Salone del libro di Torino nel 1991]

vonnegutpdg.jpgL’umorismo è per Vonnegut qualcosa che l’uomo, e nel suo caso lo scrittore, può ancora esercitare “quando – dice Vonnegut – non c’è più altro da fare”. È una reazione che denota forse impotenza, ma è tuttavia una reazione. Il mondo è nero, la storia è nera, il futuro chissà cosa sarà e cosa ci riserverà. Il passato, “se lo si scruta ben bene – dice Vonnegut – è a cosa che può spaventare di più, poiché porta alla constatazione di come si sia continuato a sperimentare e a tentare l’Apocalisse, di come ci si sia accostati via via alla fine, annunciandola costantemente nei modi più disparati”.

Siamo figli del passato, però la nostra epoca è andata ben oltre ciò che il passato ci ha mostrato. Fino a mettere in forse la stessa sopravvivenza dell’umanità e del pianeta che accoglie questa umanità. Gli storici ed i filosofi più avvertiti hanno persino trovato un accordo nell’indicare il termine che segna il salto di qualità nella storia, l’inizio della nuova era, cioè l’inizio della fine. È una stessa cosa con due nomi e due fronti: si chiama Auschwitz ed Hiroshima. Tutto ciò nella storia collettiva, nell’esperienza del mondo, così pronta a dimenticare e ad andare avanti. Ma ci sono esperienze personali dentro quelle collettive, ci sono censure individuali che lasciano sul singolo un segno indelebile. Sono l’esperienza diretta dell’orrore, della violenza, di ciò di cui l’uomo è capace nei confronti dei suoi simili. Da questa esperienza, le recenti generazioni di una piccola parte del mondo – quasi esclusivamente la nostra, la parte euro-occidentale – sono state preservate senza rendersi conto affatto del loro privilegio e dei costi che questo ha comportato e comporta per tutti gli altri abitanti del mondo. Vonnegut ha vissuto una di queste esperienze ed è sopravvissuto. Ma gliene è rimasto il segno, tutta la sua opera ne è rimasta pervasa. Americano, ventitreenne, prigioniero di guerra dei tedeschi (lui stesso è di origini tedesche), sopravvisse al bombardamento di Dresda, il più immane e gratuito di tutta la Seconda Guerra Mondiale, secondo l’ormai unanime opinione degli storici. Altrettanto gratuito, dice Vonnegut, della seconda bomba atomica, sganciata su Nagasaki. Secondo Vonnegut, infatti, la prima bomba poteva avere un senso: aveva in qualche modo – anche se in un modo folle -una sua logica, serviva cioè a far finire presto la guerra, quindi a risparmiare delle vite umane, non certo giapponesi in quel caso, ma del fronte alleato. Vonnegut ha raccontato in molti romanzi il momento del bombardamento, così come lui lo ha vissuto nello scantinato di una fabbrica di melassa, dove era prigioniero di guerra e dove lavorava per conto dei tedeschi. A Dresda sono morte più persone che a Hiroshima (più di 400.000 persone): è stato un incendio collettivo della città, sono rimasti solo i corpi carbonizzati. E Vonnegut era tra quelli che hanno recuperato i cadaveri per giorni e giorni. Questa storia è al centro del suo romanzo più famoso e più lodato, Mattatoio n.5, ovvero la crociata dei bambini. È dal rimuginio su questo avvenimento, dalla constatazione dell’indifferenza e della dimenticanza collettiva, che è nata la sua vocazione di scrittore. È il bisogno – in un inventore di vicende mirabolanti di un’esausta fantasia quale Vonnegut è – di chiamarsi in causa direttamente, di mettersi in gioco come attore, una voce narrante tutt’altro che impersonale, mai estranea alle vicende che crea, e con le quali spesso e volentieri confronta invece le proprie. Ma come si poteva riuscire a narrare tanta enormità, tanta insensatezza, a narrare Dresda, e con Dresda anche Auschwitz e Hiroshima? Non so quanto vi sia stato di spontaneo e di non riflettuto nella scelta di Vonnegut di rivolgersi, già con il primo romanzo – un libro abbastanza mediocre ed incerto del’52, Player piano, pubblicato in Italia da una piccola casa editrice di fantascienza con il titolo di La società della camicia stregata e mai più ristampato – alla fantascienza ed allo humor. È probabile che questa scelta sia venuta da sé: un personaggio di Vonnegut, cui viene dato da leggere un romanzone “realistico”, si affretta a restituirlo prima di raggiungere la cinquantesima pagina, dicendo alla bibliotecaria che gliel’ha dato: “Grazie, conosco già gli esseri umani”. La descrizione minuta dei loro comportamenti quotidiani è, per Vonnegut, noiosa, non spiega nulla. O, almeno, dopo Dresda, Auschwitz e Hiroshima, non può bastare a chi ha visto in faccia l’orrore nuovo di cui è capace l’uomo e quindi non accetta più il discorso sull’analisi, sulla minuzia, sulla piccola esperienza, se non è rapportato a questo salto di qualità nella storia dell’umanità. Questa materia, pur così importante, non costituirebbe di per sé un argomento tanto originale, se Vonnegut non avesse trovato un modo nuovo di narrarla. Molta fantascienza e tantissima saggistica hanno trattato questi temi, ma Vonnegut ci aggiunge l’ironia. E aggiunge l’enormità all’immaginazione sociologica, segue le lezioni di Swift e degli antiutopisti alla Orwell. Trova, in questo, una certa affinità con opere strane e bizzarre degli anni Sessanta – come Il dottor stranamore di Kubrik o Mash di Altman -, con film o romanzi che hanno cercato di raccontare un orrore di tipo nuovo. Ma questo non gli basta: alla sua ricetta egli aggiunge infatti una fortissima carica autoironica e, ancora, la consapevolezza che l’indicibile, cioè la fine del mondo, l’orrore della storia, non può venire raccontato in modi razionali e tradizionali. Che per farlo occorre sconvolgere anche il modo di narrare, accostarsi ad esso attraverso un diverso rapporto tra reale e fantastico. Se le domande che ci poniamo si possono in definitiva riportare ad una – “Che senso ha vivere in un mondo come questo?” – allora bisogna davvero andare fino in fondo, servirsi magari anche della denuncia dell’esortazione, dell’ironia e dell’autoironia, degli effetti spettacolari e del riso rabelaisiano. Ed anche delle ricette di cucina, dei disegnini e di quant’altro può servire allo scopo di tenere desto il lettore, di provocarlo e sollecitarlo in continuazione, di impedirgli di sedersi sulle pagine, di accettare quello che gli viene proposto come banale. Di far risaltare; invece, da queste cose, un di più di provocazione che solleciti la riflessione, che faccia pensare all’enormità, mettendo però radicalmente in dubbio la validità ed il senso di questo mondo e di questa storia. E allora non servono più le rituali convenzioni narrative, o la sterilità di tanta letteratura modernista. Cerco di immaginare l’iter di Vonnegut rileggendo i suoi primi romanzi, fino a Mattatoio n.5. Contrariamente alla maggior parte degli abitanti delle società cosidette avanzate, che per comprensibili motivi confutano l’esistenza netta del bene e del male e sostengono che la realtà umana ben più complessa (confortati in ciò da oppi e droghe, prime fra tutte la psicoanalisi ed i suoi derivati), nell’opera di Vonnegut compaiono dei veri buoni e dei veri cattivi. “Poiché l’uomo – egli insiste e precisa – è una sorta di combinazione chimica, nella quale prevalgono sostanze chimiche buone o nefaste”. Egli vede ciò più come un gioco del caso che come un gioco della storia. In mezzo a queste personalità buone o cattive c’è la marea dei poveri cristi, quella sorta di innocenti colpevoli, “Abeli” sciocchi e manipolabili, o “Caini” distruttori senza saperlo. Con molta chiarezza e determinazione: per Vonnegut le cosiddette leggi dell’economia conta e contano moltissimo. Secondo lui ci sono pochi che posseggono tantissimo e tanti che posseggono poco o niente. La sua America è molto materialista: i suoi personaggi sono mossi da bisogni primari o anche per lo più, dalla frustrazione dei bisogni indotti e dalla follia che ne consegue. La massa delle complici vittime si aggira sola e disperata sulla faccia del pianeta degli Stati Uniti e si incarna in figure bizzarre e grottesche che estremizzano mal comuni e comuni solitudini. Il motto che in uno dei romanzi più belli di Vonnegut – Comica finale – fa vincere al protagonista le elezioni per la presidente degli Stati Uniti è “non più soli”. Un semplice motto, in un romanzo molto divertente con al centro una invenzione che Vonnegut chiama delle “famiglie allargate”: un computer, cioè, che rende parenti tra loro, per caso e per estrazione numerica, una grande quantità di persone divise in famiglie con nomi di fiori. Cosa che permette a queste persone, da quel punto in avanti, di sentirsi in dovere di proteggere i loro famigliari e, allo stesso tempo, il diritto di venirne protetti. Come svelare tutto questo, renderlo concreto al lettore, in modo che questi lo afferri e sappia allo stesso tempo cosa c’è oggi nel suo presente? La metafisica e la storia, la fisica e la biologia, l’economia, la sociologia, l’antropologia: come dire cosa c’è dietro? E quanto i comportamenti diventino insensati, quando li si guarda da lontano, con distacco, con quella miscela di sdegno e di pietà, di uguaglianza e di lontananza di chi ha visto e sperimentato con i propri occhi di che cosa l’uomo è capace? E alla luce di ciò, vede ora l’assurdo delle strutture che l’uomo si è dato, e dalle quali si fa, schiacciare? Vonnegut parla di un guasto irrimediabile, umano e morale, fisico, materiale, politico, biologico. L’Apocalisse, però, è difficile da raccontare, da mettere su pagina, in una società come la nostra in cui si tende a dimenticarla, a far finta che non sia cominciata. L’Apocalisse, non a caso, l’ha raccontata soltanto la fantascienza migliore. Ma anche la fantascienza corre un rischio dal quale non ha saputo mai veramente liberarsi: il rischio dell’enfasi, della meraviglia, del sogno consolatorio, dell’uscire dal seminato del rapporto con la storia, con i dolori del presente e gli incubi del futuro. Il rischio della spettacolarità gratuita; il rischio delle guerre stellari, se vogliamo. E dunque può essere insensata anche la fantascienza, capace di agire soltanto nel mondo delle fantasticherie, delle rughe, e non affrontare la realtà, non affrontare questo problema che per Vonnegut è centrale. Vonnegut, chiaramente, ama la fantascienza. Anche se l’ha abbandonata, proviene da lì e sostiene che gli scrittori di fantascienza sono le persone più folli, ma ache le più simpatiche. Perché hanno il coraggio di immaginare, di proiettarsi in altre dimensioni, di mettere in discussione la nostra società, la nostra dimensione, la nostra realtà. Però la fantascienza ha finito per annoiarlo, non lo ha interessato più. L’alternativa alla Terra in Vonnegut – e qui forse è uno dei colpi di genio, delle invenzioni più straordinarie di questo scrittore – è un pianeta che si chiama Tralfamador, dove lo spazio ed il tempo sono eterni, ogni minuto li vale tutti, non c’è – nessuna delle regole fisiche o biologiche della Terra. Non ci sono il passato, il presente e il futuro, non c’è la morte, non c’è la storia: un’alterità quasi totale. Tralfamador è importante perché nell’opera di Vonnegut è lì che si rifugia l’autore, che nei libri si racconta sempre, che dice di essere il Kurt Vonnegut junior di Indianapolis nell’Indiana, di famiglia benestante, con una madre morta suicida, una sorella morta di cancro che gli ha lasciato in eredità i propri figli. Con un fratello che è uno scienziato famoso, con una storia di lavori ed occupazioni diverse dopo il rientro dalla guerra. Ma soprattutto con l’esperienza giovanile immediata dell’orrore, la convinzione che quell’orrore ha rappresentato un avvenimento storico per tutta l’umanità, che diventava un salto nella storia, che era l’inizio della fine. Vonnegut ama rifugiarsi in questo Tralfamador astratto, lontano, diverso. Un’alterità assoluta di un pianeta che non ha niente in comune con il nostro, e che non è rappresentabile e descrivibile in termini che purtroppo anche la fantasia più sbrigliata degli autori di fantascienza del tempo è costretta a seguire, cioè l’immaginazione antropomorfica. Per forza di cose, non riusciamo ad immaginare l’altro – da noi: anche se immaginiamo dei mostri, hanno sempre qualcosa che ci ricorda uomini o piante, animali o esseri dei quali in qualche modo abbiamo esperienza. L’alterità vera è inimmaginabile, credo anche per scienziati più arditi. In Tralfamador Vonnegut si rifugia – mettendosi in salvo da tutte le convenzioni della letteratura e della sociologia – per guardare la terra ed i suoi abitanti con occhi diversi e spalancati. Il protagonista di Mattatoio n. 5 si chiama Billy Pilgrim (il pellegrino) ed è una specie di uomo qualunque che guarda il mondo, lui che, come l’autore, viene dal bombardamento di Dresda, da quest’altrove più altrove di quanto possa consentire ogni immaginazione fantascientifica. E proprio per questo Pilgrim, ed il suo alter ego Vonnegut, possono comportarsi come lo straniero delle Lettere persiane di Montesquieu, possono permettersi “quasi” di ridere (perché la risata è lasciata ai lettori: Vonnegut inventa situazioni estremamente comiche, ma sempre in modo impassibile; sta a noi lettori reagire, e si ride molto spesso, anche se di un riso amaro). Ma, più che ridere, il suo compito è quello di irridere: irridere la nostra incompletezza umana, il nostro annaspare, la nostra distruttività e la nostra autodistruttività, le regole in cui ci siamo stretti da soli: «la grande imbecillità della nostra esistenza». Il compito che egli si dà, facendo finta di non prenderlo troppo sul serio perché altrimenti scriverebbe libri da guru, una delle tante follie del nostro tempo, è metterci in crisi, farci ragionare su noi stessi, ricordarci appunto la nostra insensatezza. E additarci l’insensatezza della condizione umana, la discrepanza tra possibilità e realtà dell’uomo, tra capacità di produrre e capacità di immaginare, di gestire ciò che si è prodotto. Oltre a Dresda, in molti suoi libri Vonnegut insiste sulla frenesia produttiva del dopoguerra e degli anni Cinquanta, anni decisivi, come lui stesso sostiene. E dall’Italia è difficile dargli torto, perché è capitato lo stesso anche da noi: erano gli anni in cui si è cominciato a scambiare massicciamente e spensieratamente il benessere – chiamandolo peraltro progresso – con la distruzione della natura. Questo vale per l’America di Vonnegut, come per la nostra Europa. Dunque la maggior parte dei suoi romanzi ha al centro un disastro. L’immaginaria conflagrazione Marte-Terra nel romanzo fantascientifico Le sirene di Titano, il nazismo visto dalla parte di un traditore che poi non lo è, perché è una controspia, uno che esercita il controspionaggio per conto americano, ma che si perde nella sua recita di imbonitore filo nazista, alla radio tedesca in lingua inglese, per i soldati americani. Ci si perde, perché la recita lo trascina e perché – dice Vonnegut -“noi siamo quello che facciamo finta di essere, sicché dobbiamo stare molto attenti a quello che facciamo finta di essere” (il romanzo in questione è Madre notte). Poi c’è Dresda nel Mattatoio n. 5, le catastrofi derivate dalla scienza in Ghiaccio nove, dove uno scienziato inventa una pillolina che fa diventare l’acqua ghiaccio e che, lanciata nel mare, in breve tempo trasforma in ghiaccio tutta l’acqua del mondo e porta alla fine della vita sul pianeta. C’è una strage storica, vera, reale, di scioperanti (avvenuta in America negli anni Venti) al centro del romanzo Un pezzo da galera. C’è la bomba N sperimentale, ancora il nazismo, ne Il grande tiratore. C’è la guerra atomica, il disastro ecologico in La comica finale e in Galapagos, e il Vietnam nell’ultimo libro che si chiama Hocus Pocus. Mentre il terz’ultimo è forse il più fiacco dei romanzi di Vonnegut – tratta delle conseguenze di tutto ciò sull’arte, cercando una spiegazione storica e politica alla stagione del pittura astratta americana nel dopoguerra. Nei confronti dell’arte e dei suoi inganni, Vonnegut ha delle “tirate”, delle frasi che a me ricordano molto le invettive di Tolstoj contro l’arte. Forse, però, si tratta di una convergenza di posizioni che non nasce dalla conoscenza diretta delle opere di Tolstoj. Ci sono infine due libri, che nascono uno dopo l’altro e che vedo anche molto correlati: Perla ai porci, ovvero Dio la benedica signor Rosewater, e quello che io trovo il suo capolavoro, il mio Vonnegut preferito, La colazione dei campioni, ovvero addio triste lunedì (il “triste lunedì” è ancora una volta il lunedì del bombardamento di Dresda). Quest’ultimo è, a mio parere, uno dei romanzi in assoluto più liberi, più affascinanti, anarchici, estremisti che Vonnegut abbia scritto e che la letteratura contemporanea abbia da offrirci. Fu pubblicato nel ’72, tradotto da Rizzoli nel ’73, e mai più ristampato fino a oggi. Perla ai porci, ovvero Dio la benedica è più pacato e lineare, il secondo è invece più scatenato, un’opera aperta nel senso in cui tanti anni fa la teorizzava Umberto Eco. I due formano una specie di strano dittico sulla provincia americana, dove i matti, gli scarti, i perdenti, gli inutili, i poveri, gli emarginati, i reietti e gli sfasati sembrano darsi convegno in una satira della società yankee che parte dalle radici stesse di questa società. Addirittura dal 1492, da quella che Vonnegut definisce una storia di pirateria insensata nei confronti dei veri abitanti dell’America, pirateria di gente rozza e volgare, di gente venuta dall’Europa, che poi ha creato la civiltà americana. Vonnegut dice continuamente che l’America non è diversa dall’Europa. E aggredisce con una virulenza inaudita (se il libro fosse stato scritto in Italia, lo avrebbe portato in tribunale) la bandiera, l’inno nazionale, tutte le sacre istituzioni di quella civiltà che permette l’accaparramento delle ricchezze da parte di pochi, e respinge così tanti nella melma dei diseredati, figliastri – e non figli – delle “stelle e strisce”. Al centro di questo romanzo c’è la città di Midland: “Terra di centro”, proprio il centro del Midwest della sterminata provincia americana. In questa città orrenda – così viene descritta, ma in realtà è molto comune, molto normale – ritroviamo un po’ tutti. “Questo centro – dice Vonnegut – è il buco del culo dell’universo”. In questo libro, a pagina 4, dichiara: “Uno dei modi in cui uno scrittore può regredire e può lasciarsi andare veramente è quello tradizionale dei bambini. Quello di parlare della pipì e della cacca. Allora io vi faccio vedere com’ è fatto il mio buco del culo”. E c’è un asterisco con tante freccine che viene presentato due o tre volte nel corso del libro, assolutamente astratto e non realistico. C’è un rapporto tra tutto ciò e Midland, la città come buco del culo dell’America. La colazione dei campioni, ovvero addio triste lunedì è il punto in cui la pervicacia nel volere straniare il romanzo – che Vonnegut mette in atto in tutte le sue opere – tocca il suo massimo con l’arrivo in scena dello stesso autore-demiurgo, dello scrittore Vonnegut, in un dialogo estremamente aggressivo con il demiurgo massimo, Dio. Ed in polemica con gli scrittori contemporanei, persi tra minimalismo e cincischiamenti manieristici, mentre lui tende ad affermare una sorta di massimalismo umoristico, certamente post-moderno, ma con in più il racconto filosofico settecentesco e il magistero di Swift e di Mark Twain, delle utopie e antiutopie della fantascienza. Vonnegut afferma due cose rispetto al romanzo, che trovo molto interessanti nei confronti del proprio, mestiere: il diritto-dovere di fare il contrario di ciò che fanno normalmente gli scrittori. I quali – dice lui – mettono ordine nel caos, mentre egli intende, almeno con questo libro, portare caos nell’ordine della letteratura. Caos è la vita e la storia, ed il romanzo, se deve rispecchiare quello che è la nostra vita, la nostra società, non può che essere un romanzo di caos. E, contemporaneamente, anche il piacere di realizzare – a mio parere in modo magistrale – quello che tanti scrittori hanno sognato di fare e non hanno osato, o non ci sono riusciti: la valorizzazione delle comparse, il far diventare tutti protagonisti. Il libro, infatti, salta continuamente da un personaggio all’altro: siamo in un bar, passa un cameriere e Vonnegut si dimentica completamente – per recuperarli più tardi -dei suoi personaggi, per raccontarci la storia del cameriere. Poi il cameriere incontra un altro cliente ed entriamo in una nuova storia: un continuo allargamento che, sul piano sperimentale, rende questo libro davvero eccezionale. Il tentativo, dunque, è quello di valorizzare le comparse, non però secondo la legge di Andy Warhol o secondo il sogno per cui tutti possono diventare divi per cinque minuti comparendo in qualche diretta o differita televisiva, bensì per mostrarne la solitudine e l’orrore. Cito il paradosso di Vonnegut: “Perché tanti americani erano trattati dal loro governo come se delle loro vite si potesse disporre come di fazzoletti di carta? Perché, di solito, gli autori trattavano così i personaggi secondari delle storie che creavano”: la vita imita il romanzo. “Una volta capito che cosa rendeva l’America una nazione pericolosa, una nazione infelice di gente che non aveva niente a che vedere con la vita reale, decisi di evitare di scrivere libri. Avrei scritto della vita. Ogni personaggio sarebbe stato importante quanto gli altri, a tutti i fatti sarebbe stato dato lo stessissimo peso, niente sarebbe stato tagliato fuori”. Naturalmente il programma sarebbe in sé paranoide, ed è infatti paranoide in alcuni scrittori europei che lo hanno tentato. Ma Vonnegut non è mai intellettualistico, si guarda bene da spingere lo sperimentalismo sulla via della mera letteratura, perché gli preme molto di più la comunicazione, la sollecitazione nei confronti del lettore. E così si diverte a mescolare, a confrontare, a costruire specchi che lui chiama “falle” aperte su altre dimensioni. A dare dei “doppi” neri a personaggi bianchi, dei “doppi” bianchi a personaggi neri, a troncare un’azione che passa letteralmente di palo in frasca senza perdersi mai. A intervallare digressioni ancora più estranianti, direi “tralfamadoriane”, grazie all’intervento di una delle sue creature forse più note: Kilgore Trout, un delirante scrittore di fantascienza che compare in molti suoi romanzi e di cui Vonnegut ci racconta, attraverso le sue brevi trame. Queste sono tutte di un’assurdità insuperabile, trattano di mondi e di storie impossibili, “estraniano – dice Vonnegut – l’operato del creatore”, cioè il mondo così com’è. E il creatore viene chiamato in causa, in questo libro, dal creatore del romanzo: demiurgo contro demiurgo. In Hocus Pocus, l’ultimo romanzo di Vonnegut, troviamo la conclusione di un tema che compariva anche in La colazione dei campioni, ovvero addio triste lunedì. Ne La colazione dei campioni, ovvero addio triste lunedì, Dwaine Uve (il ricco, il padrone) impazzisce del tutto quando legge un romanzo di Kilgore Trout in cui Dio rivela che la Terra è abitata esclusivamente da robot. C’è, però, un unico uomo che vi agisce, che è una cavia di cui Dio studia le reazioni per capire che altro tipo di mondo si potrebbe creare al posto di questo il non-robot è colui che legge il romanzo di Kilgore Trout. Il lettore, dunque, è Dwaine Uve, il quale pensa di essere l’unico umano e che tutti gli altri siano macchine. E si permette di far fuori chi gli pare, perché ormai ha capito che vive in un delirio. In Hocus Pocus Dio decide di chiudere l’esperimento Terra perché è riuscito proprio male, e licenzia l’unico protagonista umano con un semplice “Sorry”. Per inciso il protagonista di Hocus Pocus è un reduce del Vietnam, che dice di aver imparato “come si ride all’inferno”. Riassumo: di tutti i mondi possibili, il nostro unico mondo non è il meno comico. Sicuramente è il più tragico. Volerlo raccontare dopo Dresda si può fare pensa Vonnegut – solo mettendo a repentaglio tutte le regole, i canoni della letteratura. Come si può riuscire a dire l’indicibile, a dire quest’orrore, a raccontare Dresda, Hiroshima, Auschwitz? Vonnegut si pone questo problema come hanno fatto pochissimi altri scrittori. E forse pochissimi sono riusciti ad esserne all’altezza, ad inventare una letteratura che riuscisse a dire l’indicibile, che riuscisse a confrontarsi con questo orrore. Le cose più straordinarie sono forse quelle non decisamente letterarie: i resoconti, le memorie (La memoria di un medico di Hiroshima, pubblicato secoli fa da Feltrinelli e mai più ristampato: un libro bellissimo). Vonnegut, invece, si pone un problema più alto: come fare letteratura con tutto questo orrore? Alcuni filosofi hanno sostenuto che non si possa fare; teorici come Adorno hanno sostenuto che l’unico che si è avvicinato a tanto è stato Beckett, arrivando a dire l’indicibile parlando di vagabondi e di reietti Vonnegut, però, è bisognoso di comunicazione, persuaso di dover servire la società in cui vive (anche se in modo autonomo da ogni credo stabilito), e di contribuire a metter in guardia noi lettori: E così i modelli, le chiavi per cercare di essere all’altezza, è andato a cercarli dove di solito non li si va a cercare, nella cosiddetta “trivial litterature”: la letteratura bassa e di genere, la fantascienza. Ed anche nello humor: l’humor come estrema distanza, come irrisione di tutte le convenzioni, le regole, le basi su cui poggia il nostro mondo. In una inedita, radiosa, estremamente spiazzante combinazione di umorismo e fantascienza. Spiazzante, ma anche molto affabile, perché la qualità di Vonnegut è quella di un grande conversatore (in ciò ha preso molto da Mark Twain). È come un’immensa, lunga cicalata. Riflettendoci sopra, divagando, ma sempre con un atteggiamento non pedagogico, bensì da conversatore. Non all’italiana, ma da “enterteiner”, da attore, come se fosse pagato per divertire il pubblico, ma, mentre lo fa, dice delle cose estremamente serie. Questa è la scommessa di Vonnegut, che lo rende molto americano e molto diverso. Il problema della comunicazione diventa per lui fondamentale. Da cosa nasce il comico, se non dallo spiazzamento, dalla distanza, dall’estremizzazione? E cosa c’è di più estremo della condizione attuale del mondo? Vonnegut ci ricorda la schizofrenia di cui tutti soffriamo, tra il nostro modo di vivere (e persino di pensare, di desiderare) e le nostre paure motivate, i sotterranei sensi di colpa di chi non è ancora del tutto robot. Per ciò che abbiamo contribuito a fare di questo pianeta, e per il modo in cui abbiamo accettato e accettiamo stragi e distruzioni. La nostra incapacità di vedere, capire e controllare ciò che produciamo, per il nostro aver venduto – per il piatto di lenticchie del consumismo – una primogenitura che ci dava ben altre possibilità e responsabilità. “Vonnegut affronta l’irrealtà in cui viviamo” avrebbe detto Elsa Morante, che pure ha tentato su altri versanti una letteratura al passo con quella che è la vera tragedia finale. La parola “irrealtà”, che forse è al centro dell’opera della Morante, torna spesso anche nell’opera di Vonnegut. Ricordo che Vonnegut fu anche grande amico di Heinrich Boll: si sono conosciuti semplicemente perché Boll aveva letto Mattatoio n. 5, ed era dall’altra parte della barricata (era un soldato tedesco, mentre Vonnegut era un soldato americano). Si sono scritti, si sono capiti e conosciuti, ne è nata un’amicizia che ha prodotto, pare, un epistolario molto bello ma mai pubblicato. Anche Boll è uno scrittore che, con un tocco e su un versante diversi, ha affrontato lo stesso problema dell’irrealtà del mondo attuale, della volontà di reagire a questa realtà da cui siamo dominati. Ricordo come molte cose del progetto vonnegutiano facciano pensare a Bunuel e al suo modo di giocare col paradosso per dire cose serissime. Ad esempio il discorso sul cibo nel film Il fantasma della libertà, dove mangiare insieme è considerato un atto osceno mentre defecare insieme è un atto di grande civiltà (un procedimento che parte dai mondi alla rovescia classici, di ispirazione contadina), è paragonabile con il finale de Il fantasma della libertà, in cui lo struzzo guarda uno scontro tra la polizia e alcuni manifestanti di cui, ovviamente, non capisce niente. Tutto il film è fatto come se fosse ripreso dallo struzzo, da una – distanza non umana. Probabilmente è così: solo dalla disperazione può nascere un umorismo al passo con l’Apocalisse in atto. Ma la vita non finisce e si può anche morire singolarmente con dignità, come Vonnegut mostra attraverso alcuni dei suoi personaggi. Oppure vendere cara la pelle, lottando fino all’ultimo con i propri miseri mezzi. “Esisteva un pianeta – racconta ancora Kilgore Trout – che si chiamava Lingo 3, dove viveva un popolo di automobili che finì per estinguersi per aver avvelenato l’atmosfera. Fece però in tempo a lanciare qualche suo abitante – qualche automobile – sul pianeta Terra”. E ovviamente la storia ricominciò, e con le automobili cominciò la fine della Terra. Non è male – credo – ricordare questa assurdità comica in una città come. Torino, ed anche all’interno del Salone, dove una merce in realtà non molto diversa dalle altre come il libro (perché anch’essa può rappresentare un superfluo in qualche modo inquinante) celebra i suoi trionfi. Mentre rari sono gli autori le cui opere abbiano un senso nei confronti di tutti questi problemi, che muovano in direzione contraria alla irrealtà che ci inghiotte e ci aiutino a ripensare al mondo e a noi stessi. Tanti anni fa Leslie Fidler, autorevole critico americano, scrisse un saggio su Vonnegut che fu l’inizio del suo successo critico. Vonnegut era già un autore molto letto quando Fidler lo ha valorizzato, contribuendo alla sua scoperta da parte dei critici. Questo saggio si intitolava La divina stupidità di Kurt Vonnegut: una divina stupidità che rinuncia agli artifici della tradizione letteraria intellettuale perché li vede inadeguati, e cerca strade diverse. Il mio intervento di stasera, se dovesse avere un titolo, credo sarebbe La molto saggia provocazione di Kurt Vonnegut.