di Giuseppe Genna

primo.gifCasobattisti3-thumb.jpgLe ultime prestigiose tirate ipocrite e violentissime sul caso Battisti ci arrivano da sedi mediatiche apparentemente schierate su opposti fronti: da Porta a Porta, una riflessione piena di nei come il conduttore; da Repubblica, uno dei due nouveau Starski & Hutch, a fare distinguo indegni tra la vicenda di Sofri e quella di Battisti. Tanto per andare per le spicce: penso che la vicenda Sofri e quella Battisti non siano nemmeno due facce della medesima medaglia – qui non c’è medaglia, la faccia è unica, ed è una faccia che manifesta afflizione. E’ la faccia di un’intera nazione, l’Italia, tenuta sotto scacco dai professionisti degli anni che furono, gente che nel privato si vanta di avere vissuto e nel pubblico fa finta di non avere vissuto – in entrambi i casi essendo incapace di dirsi e di dirci cosa abbia eventualmente vissuto. Questa stasi, culturale ed emotiva, condiziona la coscienza collettiva, sottopone quella faccia tragica a un altrettanto tragico amimismo. E’ da più di vent’anni che una generazione, per motivi interni assai differenti l’uno dagli altri, evita di lavorare al riassorbimento esperienziale di un trauma. Da una parte, i pochi fortunati installatisi nei gangli vitali che smistano la linfa della cultura emotiva nazionale; dall’altra, i moltissimi sfortunati che hanno subìto almeno tre mutamenti di paradigma sociale nell’arco di un ventennio – tutti incapaci di risolvere il trauma senza rinunciare al vissuto. Oltre costoro, io – e chi, come me, ha superato da non molto i trent’anni e ha tutta l’intenzione di compiere un lavoro possibilmente seminale sulla storia di sé e del suo paese.

Scrivo queste riflessioni, a caldo, dopo una visione piratesca di The Dreamers, la parodia di Ultimo tango a Parigi con cui Bertolucci ha deciso di deturpare definitivamente il proprio curriculum artistico. Una sorta di visuale borghese, estetizzante, decadente, edulcorata, smaniosa di esserci, su un momento nodale della vicenda europea, cioè il maggio parigino. E, giustapposta a questa storiella che commistiona Buddenbrook e Lando Buzzanca, la coralità epica della rivolta operaia e studentesca. Una riflessione di sconcertante superficialità, da parte di uno che, per l’appunto, quegli anni li ha vissuti. L’empito moralistico, fintopassionale, di un’utopia andata soltanto in seguito alla deriva. La denuncia della spettacolarizzazione con la scena dei due scopatori in strada, che limonano e vedono la tv nelle vetrine del negozio di elettrodomestici, con scene di mobilitazione colossale, per poi accorgersi che i resti della rivolta stanno davvero a dieci metri da loro e non li avevano notati. Scena finale con poliziotti che sembrano tracimare dallo schermo ed ironica citazione della Piaf che “je ne regret rien”.
Chi ha voltato le spalle al proprio passato non sarà la Piaf, ma sicuramente è Bertolucci: consegnare a presente memoria questo documento di fancazzismo pseudovitale e antiesistenzialista appare, oggi, alla luce di quanto capita a Cesare Battisti, estremamente esemplificativo di quanto la generazione che sognò si rifiuta di fare e di sognare oggi. A Battisti sono capitate molte cose, ma in questo momento me ne interessa una in particolare: la gogna allestita da certe testate, che per decenza non nominiamo, quando ha dichiarato che il pentimento non appartiene alla sua cultura personale. In un paese in cui Vanity Fair si permette di uscire con i Vangeli in allegato “per capire e seguire la storia di The Passion di Gibson”, la questione della colpa e del pentimento appare oggi meno centrale di quanto lo fosse negli ipocriti decenni che furono. Il fatto che Cesare Battisti dichiari che la questione non è il pentimento coglie, a mio parere, l’unica autentica centralità dell’oggi italiano, entra nel buco nero del conscio e dell’inconscio collettivo in cui siamo immersi. Uscire dallo schema colpa/perdono equivale a liberarsi dell’idea che, nella storia, e personale e collettiva, sia predominante il pavlovismo immorale dello schema giusto/sbagliato. Significa sottolineare come fare i conti con un passato nazionale non sia scoprire la verità e, quindi, prendere una decisione emotiva. Sarebbe come pretendere da Francesco Cossiga l’orgoglio meritorio – sebbene Cossiga rivendichi le sue azioni, non credo che ne sia propriamente felice. La storia di una nazione non si metabolizza attraverso il giudizio di merito, bensì attraverso il riconoscimento e la capacità di stare emotivamente nell’ambiguità. La cura è sempre superare il trauma senza rinunciare alla storia che produsse il trauma. Non si può emettere una sentenza contro il passato e non lo si può fare a maggiore ragione quando si giudica da tre paradigmi sociali dopo quello in cui avvennero dei fatti.
(Questi paradigmi sociali sono stati molto ben analizzati nello speciale sul 7 aprile curato da Wu Ming 1. E hanno una fenomenologia straordinaria nel brano di Primo Moroni, da L’orda d’oro, che è stato inserito nel libro collettivo Il caso Battisti. Dal paradigma rivoluzione/repressione si è passati a quello pubblico/privato (il cosiddetto “Riflusso”), per approdare poi a quello economicista a cui sta rispondendo la mobilitazione planetaria di questi anni, che tende a introdurre, come linea guida della collettività mondiale, il principio-responsabilità che ebbe in Jonas il suo più alto teorizzatore).
La dichiarazione di Cesare Battisti circa l’inutilità essenziale del pentimento coglie dunque un punto cieco del processo di rielaborazione storica avvenuto in Italia. Ci troviamo di fronte a una generazione che, nei suoi prodotti di produzione quintessenzialmente sottoculturale (oltre a Bertolucci, penso all’ultimo Bellocchio, al Giordana televisivo, ma anche a tanti romanzetti e frittimisti di scrittura paracreativa – roba da supermercato di provincia, insomma…) ha sempre proposto un’unica soluzione al trauma degli anni di piombo: lo schema vero/falso, l’antinomia giusto/sbagliato come canocchiale unico con cui guardare alla propria storia. In più, un corollario emotivo degno di un fotoromanzo: euforia o stanchezza, rimpianto frustrato per una bella stagione andata, pentimento ipocrita o esaltazione fuori bersaglio, epicità degli spari e miseria morale individuale. Pochissimo di memorabile, comunque. Dopo che l’orda d’oro è passata, l’erba ha continuato a crescere. Dopo l’orda d’oro, in mano ci è rimasto L’orda d’oro di Balestrini e Moroni, e poco altro. I residui pericolosi e tossici, quelli sì, sono abbondati: gente che ha pensato di sedersi sul trono della legittimazione per delegittimazione (l’abiura come patentino per l’integrazione nel Sistema), o speculatori delle verità storiche collettive (soltanto così riesco a spiegarmi il voltafaccia di Giorgio Bocca, irriconoscibile oggi, con i suoi atteggiamenti forcaioli, rispetto alle illuminanti citazioni che ricorrono negli articoli di Wu Ming 1 sul caso Battisti).
L’incapacità di superare un trauma, questa cristallizzazione bolsa e assassina, riveste un carattere morale e biologico. Il trauma si cura senza rinunciare alla storia, e sostituendo alla percezione della storia una potente elaborazione creativa. Soltanto l’invenzione, la capacità di riaprire gli spazi dell’invenzione, può porre rimedio a questa assenza di elaborazione a partire da un’esperienza che, comunque la si pensi, qualunque cosa si sia subita o perpetrata, è accaduta. Come avviene nei processi psicoterapeutici, il trauma si supera quando l’io, che è anche ma non soltanto l’inconscio, molla la presa. Poiché la generazione italiana che si vanta e si vergogna di avere vissuto quegli anni proprio non riesce a rinunciare all’io, toccherà elaborare quel trauma a chi non lo ha subìto in tempo reale. E’ per questo che dalla generazione che metto sotto accusa non mi attendo altre opere di rielaborazione culturale di quegli anni, oltre ai libri dello stesso Battisti, ma confido che fioriscano libri scritti da chi è venuto dopo, come La banda Bellini o Costretti a sanguinare di Philopat, Q dei Luther Blissett o La più grande balena morta della Lombardia, l’ultima raccolta narrativa di Aldo Nove, variazione impressionante sulla memoria dei Settanta secondo altri sguardi, altri vissuti.