di Giuseppe Genna

perdutoamor1.jpgmontalbano1.jpgMagari non interessa granché, ma io ci tengo a parlarne. Intendo della Sicilia: avendo salde radici sicule, vorrei intervenire su una sostanza immaginifica che tracima dall’isola e, a mio parere, segnala uno specifico tutto contemporaneo: il conflitto tra mito e fiction, esattamente proporzionale a quello che si sviluppa tra la deità delle Sacre Scritture e la sua scimmia. Due evenienze che non appartengono a quella che i colletti bianchi dell’accademia intellettuale considerano “cultura alta”. Siccome della “cultura alta” mi frega esattamente quanto della “cultura bassa”, cioè zero al quoto, è senza inibizioni che voglio considerare significative due evenienze della Sicilia nel cinema e nella tv più recenti. Ho assistito all’anteprima di PERDUToAMOR, film scritto e diretto da Franco Battiato. E, come altri nove milioni di italiani, ho assistito a qualche puntata del Commissario Montalbano. Il regno delle due Sicilie emblematizza due generi opposti di rappresentazione: una mitologica e perciò umana (quella di Battiato), l’altra finzionale e antiumana (quella del Camilleri televisivo).

Non sono un critico cinematografico e non dispongo del retroterra culturale che permette raffinate analisi tecniche. Parlo da scrittore che si trova di fronte un sogno e il suo opposto. Le cautele dovrebbero essere molteplici: per dirne soltanto una, sto lasciandomi andare a una tentazione non metodologicamente corretta, che affianca e oppone grande e piccolo schermo. Generalmente, di una simile metodologia, me ne fotto bellamente – mi permetto di fottermene anche qui.
perdutoamor2.jpgPERDUToAMOR è un film che, immagino, irriterà i cinefili e disinteresserà gli spettatori che vanno al cinema per vedersi una pellicola che li catturi secondo standard americanoidi. A me è molto piaciuto. Non tanto perché Franco Battiato è una mia mitologia puberale e sono a tutt’oggi convinto che costituisca un perno fondamentale per comprendere la cultura popolare italiana negli anni Ottanta. Il film di Battiato mi è piaciuto perché rasserena: è la serenità vacua e azzurrina con cui Battiato regista realizza un racconto iniziatico che mi ha colpito. All’inizio, per fare soltanto un esempio, c’è una lezione di buddhismo rigoroso condotta in purissima normalità: un piccolo trattato sull’attenzione e l’autosservazione raccontato attraverso gli insegnamenti di una maestra di cucito alle sue allieve, in un cortile interno di una casa siciliana negli anni Cinquanta. Si sta narrando di una Sicilia fuori dal tempo, in realtà. Una Sicilia esuberantemente verde, carica di intrecci vegetali e onirici, obliqua, magnificiente nel nascondersi e nel mostrarsi, sacrale senza adesione al territorio. E’ l’altra faccia del mito terrestre e del radicamento: non il sangue abbarbicato al suolo, bensì lo spazio di sogno purissimo, rarefatto, con cui l’uomo entra in incantamento per sperimentare l’unico dio che c’è: se stesso bambino, il sé che non giudica e non etichetta, un sé incantato e incantatorio, una realtà molto concreta e vivibile, non retorizzata, non enfatizzata in epica astratta. La Sicilia di PERDUToAMOR non è un amor perduto. Il Perduto Amor di Battiato è quella nostalgia inquieta che, nel momento in cui si esce dall’incantamento e si è preda dell’idea classificatrice (si cresce, si legge, si giudica, ci si forma, si abbandona la spontaneità), spinge a cercare altro: questo altro che si ricorda e che deve averci parecchio innamorato se lo si cerca non sapendo più cosa esso sia in realtà. Lezione più che mistica condotta attraverso il racconto di vent’anni di cultura popolare italiana: dalla secolarità meridionale all’esplosione della musica pop e poi dello sperimentalismo à la Stratos in una Milano travolgente e suggerita per scorci d’autore.
La Sicilia di Battiato è l’India: un’India shankariana vista con occhi sudamericani. Colombiani, per la precisione: è un’adolescenza che Garcìa Marquez iscriverebbe nella sua Macondo quella che Battiato illumina con una luce per nulla abbagliante, aprendo porte strane e metafisiche: in una scena che mi ha colpito si entra in un canneto verdissimo e fitto, in soggettiva, insieme a tre bambini; li vediamo intorno a una pozza d’acqua oscura, appoggiati a una staccionata improvvisata; parlano – al contrario, un backward masking bellissimo, che si avvicina alla sequenza più onirica di Papillon; la camera inquadra poi le irregolarità dell’acqua. Sembra di entrare in un labirinto surreale e reale al tempo stesso: diverticoli e svolte improvvise, scene staccate di netto e connesse soltanto da una serenità di sguardo dal di fuori. Non è una Sicilia olografica: è una Trinacria del sogno infantile, stato perpetuo che investe la veglia e la sussume in una sostanza ozonata e luminosa e ombrosa (tra l’altro, esplicitamente, la questione dei “momenti di veglia” viene affrontata a più riprese e accennata dalla voce pastosa e incrinata di Sgalambro).
montalbano2.jpgContro questa Sicilia, si schiera quella cartolinistica, inesistente, falsissima, radiosamente crepuscolare che gli italiani hanno subìto assistendo alla veterofiction di Montalbano. Una Sicilia rabberciata tra la valle del Noto e fantasmatici dintorni Vigatesi; ecco, proprio una Sicilia vigatese: si sa, Vigata non esiste anche se vorrebbero farla esistere. Una Sicilia fintamente comunitaria, spaccata in due: i terroni nobili e i terroni stronzi. Un gattopardismo che non conserva nulla della verità gattopardesca. Chiese e rovine esposte a una luce ocrata, gioielli di secolarità supposta, case sul fronte del mare che ricollocano il litorale di Cefalù alla latitudine di una Miami per borghesi parlemitani. Ville sontuosamente decadenti, campi di grano pettinati dal vento e acconciati da un sole maturo. Un macrospot della proloco. Nulla di differente rispetto all’inganno della pubblicità del riso Scotti, quando l’omonimo testimonial Gerry canta le lodi delle suo riso (che non è suo) facendo vedere un campo di grano e dicendo “Questo è il mio riso”.
La fiction è finta. Ciò che è finto non sempre inganna, ma la fiction inganna sempre e comunque. La fiction si oppone alla storia: la storia è una storia di storie, che nascono da esperienze e azioni ed emozioni e sogni di un’umanità che attraversa il divenire; la fiction assomiglia a una storia, ma non nasce da alcuna umanità. La Sicilia decalcomanica di Montalbano non nasce da alcuna esperienza: è astratta, sordidamente astratta in quanto irradia la malizia spottistica dell’inganno. La storia di storie è il mito vissuto da un’umanità che nasce invecchia e muore e si perpetua nella tragedia e nella commedia di un tempo protratto; la fiction è una parodia della storia umana, tutta asservita a un vecchio sogno del Potere, che è quello di non farci sognare per tenerci tranquilli e imbambolati, tubi digerenti che pappano il pop corn della loro funebre semivita, catatonica, catodica, cazzutissima.
La Sicilia di Battiato è un’esperienza del sogno che ha attraversato lo sguardo di un’infanzia sicula e mitologica, vera, storica, una coincidenza miracolosa che capita all’artista, quando fa incrociare la storia dell’umanità con la specola di se stesso. La Sicilia di Montalbano (come, del resto, il grano meridionale dell’ultimo Salvatores) è la cattiva imitazione di quel sogno: cattiva non tanto perché è di qualità discutibile, quanto perché esprime il male, che è l’antiumanità della fiction stessa, la scimmia dell’uomo.