Riportiamo un intervento di Sandro Modeo, che è uno di cui ci fidiamo, dal Corsera del 12 agosto 2001. Sembra una banale recensione a tre libri, tra cui Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale. Il futuro geopolitico del pianeta (Garazanti, 12,91 euro), opera fondamentale di quel figlio di puttana di Samuel Huntington, uno che, insieme a Kissinger e Brezinski, lo scontro di civiltà non si è limitato a teorizzarlo: ha fatto di tutto perché l’Amministrazione più infame del pianeta arrivasse a scatenarlo. Quelli in cui Modeo scriveva la sua recensione erano giorni di sole che soltanto i poveri di spirito credevano sereni: di lì a pochi mesi, gli attentati alle Torri e al Pentagono, la guerra in Afghanistan, fino all’escalation antiraqena di queste ultime ore. Quando diciamo che ci fidiamo di Modeo, concedeteci del credito: non è un profeta, è soltanto una persona intelligente e preparata.
Accuse liberal: questa America è “no global”
Storici e studiosi del sociale Usa non accusabili di simpatie marxiste smontano dall’interno equivoci e conformismi di teorie ritenute insindacabili: “L’Occidente sbaglia ricette economiche e politiche stimolando non l’intesa, ma lo scontro di civiltà”
di Sandro Modeo
Dopo quello del postmoderno, un altro edificio fantasma comincia a evaporare: quello della teoria della globalizzazione. O meglio, rispetto al postmoderno la globalizzazione patisce lo stesso paradosso: quello di descrivere fatti veri con teorie false e parole sbagliate, col risultato di nascondere i fatti sullo sfondo e dare il rilievo del primo piano a parole vuote come slogan. Se il postmoderno parlava di una realtà allucinatoria (alienazione, invadenza dei media, schizofrenia individuale e sociale) ricoprendola con allucinazioni interpretative (pensiero debole, “fine della storia”, “decostruzionismo”), la globalizzazione si occupa di una ben precisa fase storico-antropologica (la resa dei conti dell’espansionismo economico, territoriale e culturale dell’Occidente rispetto al Resto del Mondo) rivestendola con categorie ritenute insindacabili sia dagli apologeti sia dagli apocalittici, e che vanno dalla “contrazione del mondo” alla “uniformazione culturale”. Per fortuna, molti ormai evitano i conformismi.
Lo mostrano bene, tra i tanti, tre libri di studiosi americani autorevoli; studiosi – va detto con chiarezza data la radicalità delle loro critiche e posizioni – non certo imputabili di simpatie comuniste, ma di rigorosa ascendenza liberal . Il primo è The End of Globalization dello storico di Princeton Harold James, lucido soprattutto su due piani. James da un lato fa piazza pulita del presunto carattere “inedito” della globalizzazione in corso, dato che il processo in realtà inizia col colonialismo cinquecentesco e la fase attuale ha un precedente analogico in quella degli anni Venti e Trenta, sfociata nella Grande Depressione. Dall’altro, smonta l’intrinseca “bontà” della globalizzazione intesa come occidentalizzazione, smentita da molti elementi: dal fatto che “il volume e la volatilità” dei movimenti finanziari confermino la diagnosi marxiana sull’autodistruttività del Capitale; dalla reazione dei popoli non occidentali; e dall’inadeguatezza di organismi internazionali (la Wto) simili “a una chiesa la cui missione non è di eliminare il peccato, ma di renderlo psicologicamente sopportabile”.
Anche se convinto, coerentemente, che le disfunzioni del capitalismo siano medicabili solo dal capitalismo stesso, James aiuta a entrare nella prospettiva-chiave del discorso, illuminata dagli altri due libri, fondamentali, tradotti da Sergio Minucci per Garzanti: Lo scontro delle civiltà di Samuel P. Huntington (ora riversato in economica) e Gli ultimi giorni dell’impero americano di Chalmers Johnson.
Tesi forte di Huntington, storico di Harvard, è che la modernizzazione del mondo (di cui la globalizzazione dovrebbe essere il terminale) non implichi la sua occidentalizzazione, anzi. Dall’Islam al nuovo asse sino-giapponese a molte regioni africane, i processi di urbanizzazione, scolarizzazione e adeguamento scientifico-tecnologico avvengono insieme alla rivendicazione della propria identità etnica, culturale e religiosa. Il che implica numerosi conflitti concentrati proprio sulle “linee di faglia” tra le diverse civiltà. La tanto predicata “transnazionalità” diventa così una chimera etico-culturale prima che economica: al punto che le ricette neoliberiste erette a “destino” della specie – deregulation , privatizzazioni, abbattimento del welfare , mercato senza freni con annessione di transazioni offshore , paradisi fiscali e riciclaggio bancario di denaro sporco – sono respinte più come valori non condivisi che come risposte tecniche inadeguate.
Ma Huntington smonta molti altri luoghi comuni. Dimostra per esempio come si debba parlare, riguardo al peso crescente dell’oligopolio delle corporations , non tanto di “fine” quanto di “crisi” dello stato-nazione, spesso “svenduto” dalla passività-pavidità di molti politici: prova ne sia, in tempi recenti, il contrasto tra un Bush che prende ordini dai suoi elettori (industrie del farmaco e del petrolio) e un Mario Monti che ferma la fusione Honeywell-General Electric. Oppure dimostra come la fine della Guerra Fredda non abbia solo fatto cadere il Comunismo, ma anche aperto la crisi degli Stati Uniti, scongelando tutte le forze antiamericane ibernate dall’impero sovietico.
E qui veniamo al libro scioccante di Johnson, dedicato proprio a questo tema e in particolare ai blowbacks (“ritorni di fiamma”), cioè alle risposte violente a interventi americani e vendute all’opinione pubblica come atti terroristici (vedi gli attentati alle ambasciate americane come contraccolpi all’instaurazione di regimi targati Cia). Johnson – che è stato per decenni in Giappone ed è professore emerito all’Università della California – insiste soprattutto sulle conseguenze devastanti di una politica da Guerra Fredda in era post-Guerra Fredda. Se infatti l’appoggio degli Stati Uniti a dittatori in decine di Paesi asiatici, latino-americani e africani trovava “giustificazione” nel contesto bipolare (anche se genocidi come quello di Cheju, in Corea del Sud, nel ’48, hanno trovato in Occidente un’eco infinitamente minore di quello coevo dei sovietici a Praga), nel contesto multipolare operazioni simili hanno l’unico effetto di esasperare l’antiamericanismo-antioccidentalismo. E non solo per la militarizzazione in sé: fenomeni come la vendita sistematica di armi da parte del Pentagono (spesso con la mediazione degli ambasciatori), l’immunità dei marines nel mondo (dagli stupri di Okinawa alla funivia di Cavalese) e la prosecuzione della politica imperialista “a totale insaputa” dell’opinione pubblica (con conseguente inasprimento dell’intolleranza davanti ai blowbacks ) non fanno che inibire una vera “globalizzazione”, cioè una condivisione di valori e di spazi socio-economici e culturali.
Nei termini di Huntington, il potere coercitivo non può alla lunga sostituire il potere persuasivo. E se l’Occidente non lo capirà in tempo – continuando a scambiare per realismo la propria miopia – l’unica cosa che riuscirà a globalizzare sarà la cultura (l’incultura) del conflitto.
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