da I racconti dell’arcobaleno (Fanucci Avantpop)
Lo stanzino nero

vollmann.gifPer vedere Virginia entravi in uno stanzino nero con una finestrella che dava su uno stanzino un po’ piú spazioso illuminato dall’alto come lo stanzino nero, che era illuminato da un’unica lampadina arancione in una nicchia e il viso ti s’illuminava, tutto pareva pieno di luce e ti scordavi che eri lí dentro; vedevi solo la bionda Virginia con i capezzoli che spuntavano dalla camicia da notte, ma non la sentivi, nemmeno se incollavi l’orecchio alla buca per le mance; dovevi alzare il telefono nero e parlarci, senza mai staccare gli occhi dal suo viso (lei non smetteva mai di guardarti). Sedeva su una poltrona azzurra di feltro, con una tenda azzurra alle spalle e due pareti rosse ai lati che probabilmente erano finte perché quando il tipo nello stanzino accanto volle parlarle dal suo telefono Virginia le attraversò con disinvoltura da ectoplasma; tornò con la tetta ballonzolante fuori dalla camicia da notte, e poco dopo il tizio all’entrata chiamò per l’ennesima volta: “Virginia!”, lei attraversò la parete e lui annunciò: “Stanza tre, cocca” e un altro uomo si precipitò in un altro stanzino mentre il tizio all’entrata diceva: “Mi raccomando dalle una BELLA mancia cosí potrai darle una BELLA guardata alla passera!” Poi lo sentii tornare alla cassa. “Bene, bene, amico, come ti va?” disse, e la radio suonava. Invitò un’altra ragazza fuori a cena. “Be’, non credo che il mio fidanzato la prenderebbe bene” diceva lei. “Sapessi quant’è grosso, oltre che geloso!” e il tizio all’entrata insisteva: “Be’, mica è un problema. Come ti chiami?” “Noelle” rispondeva la ragazza, inciampando in strada… e Virginia, un tempo laureata in giornalismo, tornò risistemandosi la camicia da notte intorno all’inguine e si mise a parlare con me attraverso il vetro con i suoi occhi tristi, alzando la voce perché non sentivo una parola; pareva intrappolata in una cabina telefonica ad asfissiare lentamente, poi però mi ricordai di alzare il telefono e lei sembrò assolutamente a suo agio, e cosí chiacchierammo per un minuto finché il tizio all’entrata non si stufò e staccò la corrente e tutto piombò nel buio e dal telefono non venne altro che un profondo stagnante silenzio.

Speculazione

vollmannarcobaleno.jpgAnche il fidanzato di Virginia era grosso oltre che geloso. Non voleva che parlasse con me, perciò quando ci vedevamo lei gli raccontava che andava in palestra a perdere qualche chilo. Magari gli dava fastidio che Virginia dovesse esibire giorno e notte certe parti che di solito le donne mostrano solo alle persone che amano, lasciandogli l’esclusiva su ben poche, quindi ci stava male e quello che gli rimaneva non voleva dividerlo con nessuno, come gli uomini in raccoglimento negli altri stanzini, che sussurravano al telefono gustandosela come se fosse uno spettacolo tutto per loro.
O magari era semplicemente un capitalista deciso a farle incontrare gli altri uomini solo dietro un vetro, temendo che Virginia potesse innamorarsi di uno di loro, cosa che avrebbe prosciugato le sue entrate.
Una volta Virginia disse che mi avrebbe chiamato ma non lo fece, perciò tornai di notte nel locale a luci rosse fra gli strilli degli imbonitori e l’insegna del Condor che con i capezzoloni rossi intermittenti avvisava i passanti sulla Broadway: uno se era via terra, due se era via mare, ed entrando vidi le ragazze mezze nude nel loro acquario, le calze a rete che strizzavano le cosce come filo metallico. Qualcuna era bianca, altre di colore, ma tutte mi lanciarono lo stesso sguardo dal vetro, stipate come un banco di pesci che soffocano in una notte afosa quando la pompa dell’ossigeno si sfascia e l’acqua si riscalda, e li vedi muoversi a rilento, intorpiditi, che già cominciano a gonfiarsi. Probabilmente gli stavo antipatico. Virginia mi vide e i suoi occhi s’indurirono.
“Vorrei parlare con Virginia” dissi.
“Un dollaro, Bill” disse il tizio all’entrata. “Virginia!” chiamò. “Stanza uno”.
Virginia entrò molto lentamente e controvoglia. Chiusi col chiavistello la porta del mio stanzino e alzai il telefono.
“Allora, Virginia, come stai?” dissi.
“Bene.”
“Perché non hai chiamato?”
“Il mio fidanzato crede che abbiamo una tresca. Mi dispiace tanto.”
“Digli che ci vediamo mercoledí. Va bene per te alle due?”
Virginia fece sí con la testa e nuotò dagli altri tristi pesci malati.
Ma quando il mercoledí li vidi dall’altro lato della strada decisi di non incontrarli, perché il fidanzato di Virginia era proprio grosso, oltre che geloso.

Nemici

L’auto accostò. Il poliziotto abbassò il finestrino. “Te ne vai pure tu, CAPITO?” ringhiò al magnaccia. Quello lo fissò senza scomporsi. “E tu chi saresti?” disse.
“Ma lo sai con chi stai parlando?” disse la poliziotta, mostrando il distintivo. “Lo sai chi sei?” “Lo sai cosa sei?” disse fra i denti il poliziotto.

La banca elastica

La notte calò sulle facciate dei bar e sui negozietti d’antiquariato del Tenderloin come una bestia scura e pelosa. All’HobNob Bar, fra la Geary e la Leavenworth, giocarono a biliardo grattandosi il sedere finché non si fece tardi e uno di quei cristoni disse: “Be’, buonanotte”. Quelli rimasti si sedettero al bar, si calarono il berretto sulla fronte e fissarono il nulla immusoniti, mentre dalla porta aperta balenavano auto vecchie, auto della polizia, chiome finto-bionde di passeggiatrici che attraversavano stroboscopiche il fulgore dei neon; qualche isolato piú avanti, a sud-est, dopo il Blue Lamp, ti aspettava Dino’s, un locale tiepido e buio col bancone in noce imbottito di pelle sul bordo per appoggiarci il bicchiere e le braccia mentre cercavi di decifrare la topografia delle sue curve lisce come un ligneo litorale lucidato da un oceano d’olio di gomito nell’arco di cinquanta o sessant’anni; il soffitto era piú o meno nello stesso stile “viscere della terra”, che oggigiorno sarebbe costato millecinquecento dollari al metro quadro, come mi aveva assicurato Clive Summers il controsoffittatore; eravamo nel topless bar piú raffinato del Tenderloin. Dino diceva che non tirava piú come diciannove anni prima, ma in qualche modo vivacchiava. Aveva un pianoforte rococò in magazzino e Clive, che era ubriaco, voleva comprarlo per il suo studio. “È tutto arzigogolato, cazzo,” disse Clive “è come se pigliassi e ti aprissi la pancia e vedessi le budella che ti ciondolano fuori”. Alzò il braccio. “Dino!” chiamò. “Ehi, Dino! Lo voglio davvero quel pianoforte.” “Non è in vendita” disse Dino. “Dino, non capisci,” ripeté Clive in tono molto ragionevole “lo voglio davvero quel pianoforte.” “Mio fratello apre un ristorante in Polk Street, proprio di fronte a Lord Jim” disse Dino. “Ce lo metterà per bellezza”. “Va bene, ti voglio fare un’offerta, tante volte gli andasse a buca” disse Clive. “Quanto vuoi?” “Quattromila dollari contanti ed è tuo” rispose Dino. “Lo pagherai quattromila dollari?” bisbigliai all’orecchio di Clive. Lui mi strizzò l’occhio e contemporaneamente accese un fiammifero, rischiarandosi il volto pallido e severo col giallo della fiamma, poi col fugace azzurro del fosforo. “Se un certo affare va in porto” disse Clive “sta’ sicuro che me lo porto via a milleottocento. Cazzo, lo voglio davvero quel pianoforte. Dino! Un’altra birra per me e il mio amico.”
Mi ero scordato di dire che entrando da Dino eri accolto da una donna che ti chiedeva come stavi (le premeva davvero, amici peni), poi ti sedevi al lungo bancone curvo e potevi guardarne un’altra che ballava al rallentatore guardandoti negli occhi e sorridendoti, mentre Dino passeggiava austero su e giú dietro il bancone regolando di pochissimo l’amplificatore; la ballerina allargava le braccia e basculava lentamente i fianchi, si toccava le punte dei piedi, si stirava, e Dino diceva: “Ci siamo, signori, adesso arriva la parte piú sexy!” e la ballerina faceva cadere le bretelle del vestito, lasciandoselo scivolare fino alla vita in modo che i suoi piccoli seni ti guardassero, e ti fissava, sfilava la gamba sinistra dal vestito, poi la destra, cosí vedevi che indossava solo un perizoma nero con un triangolino che delimitava il perimetro della passera rasata, mentre l’elastico nero in mezzo al culo saliva intorno alla vita sottile per riunirsi alla sommità del triangolo nero; e mentre Dino continuava a regolare delicatamente la manopola affinché la musica fosse perfetta e colpisse i timpani con ferme sapienti bacchette di velluto, lei continuava a ballare per te, allungandosi a toccarsi il palmo delle mani riflesse dal soffitto a specchio, girandosi per mostrarti il culo tanto che Clive annuí molto lentamente ed esclamò: “Che corpo! Che bella donna!” e lei ti sorrideva facendoti squagliare il cuore come fosse pazza di te, come se non fosse sicura di sé; voleva per forza la tua approvazione sennò avrebbe pianto, quindi non c’era verso: siccome ti si stringeva il cuore, prendevi un dollaro dal portafogli e lo allungavi a Dino, che lo accettava in silenzio, si avviava verso il piedistallo e lo infilava nel perizoma, e questo succedeva ogni due o tre minuti, tanto che alla fine le cosce della ballerina sprizzavano di dollari fino all’inguine, verdi banconote che Dino aveva infilato in perfetta simmetria trasformandola in una dea alata. Non sottolineerò mai abbastanza la scioltezza, la grazia con cui Dino eseguiva l’operazione, che richiedeva la stessa abilità necessaria per mischiare un mazzo di carte al casinò lasciando tutti a bocca aperta per la naturalezza di un gesto che in realtà è assai studiato; perché se Dino avesse tirato troppo l’elastico, il perizoma sarebbe scivolato facendo vedere la passera, cosa da evitare come la peste, ma se invece lo teneva teso piú di mezzo secondo le altre banconote sarebbero cadute dalle cosce come verdi foglie durante un’assurda gelata finanziaria; ecco perché andava fatto con uno schiocco secco della durata scarsa di un battito di ciglia.

Raggiungere l’orgasmo

Non lontano da Dino c’era un’autentica casa chiusa dove bussavi a una finestra e aspettavi finché una mano non tirava una tenda, dopodiché una ragazza tutta in tiro ti guardava dalla sua scrivania che era accanto a un telefono rosa – sulla scrivania ce n’era uno rosso – davanti a certe scale; ti squadrava da capo a piedi poi annuiva o scuoteva la testa; se scuoteva la testa le tendine si richiudevano istantaneamente, ma se annuiva la porta si apriva per farti entrare e una puttana scendeva le scale sorridendo.

L’etica

Un vecchio barbone su Grant Street non poteva accorgersi della parata del Columbus Day, con tutti i draghi, mostri, tamburini e le cinesine giallo-vestite che suonavano i piatti sul retro dei camioncini; se ne stava seduto su un sostegno per alberi con la testa tremante fra le mani scuotendola ogni volta che i tamburi o i fuochi d’artificio risuonavano nella strada accanto, senza capire quel chiassoso mondo notturno di evviva, di famiglie cinesi che sventolavano bandiere taiwanesi e americane, di orchestre di bambini, e di majorette; era chiuso in se stesso; ma quando gli regalai ventidue centesimi alzò gli occhi, e anche se non mi vide né mostrò di riconoscermi, si mise a contare i soldi senza perder tempo. Tutti siamo ancorati a qualcosa. Quasi tutti siamo ancorati al denaro.

Il matrimonio d’oro

Un uomo disse piangendo alla sua puttana: “Non lasciarmi.”
“Sta’ tranquillo” disse lei. “Non ti lascerò per tutta un’ora.”

Una che non sapeva perdere

Io e Sebulsky passavamo per Eddy Street, tra la Jones e la Leavenworth, quando una vecchia di colore che oziava contro un muro corse ad agguantarci. I neri lungo la strada ci tenevano d’occhio, i volti poco piú pallidi del buio. “Mi sa che voi due volete levarvi uno sfizio, vero?” disse la puttana. Ci agguantò i cazzi, uno per mano, e li strizzò forte. “Sapeste come sono brava. VADO MATTA per i cazzi grossi.” “No, grazie” fu la nostra risposta, perché eravamo solo mammole sperdute nel Tenderloin. In piú non ci andava tanto di beccarci un’altra malattia. “Non vi piacciono le nere?” piagnucolò lei. Le puzzava il fiato, il bianco dei suoi occhi era ingiallito. “Non ho detto questo” disse Sebulsky, che se ne era sempre infischiato di chi metteva in dubbio la sua bontà. “Allora perché no?” chiese lei. “Guarda che ce l’ho ancora la fica, lo so ancora come si usa.” “Magari stanotte siamo già prenotati” dissi io. “Lo sapete bene che è una palla!” ribatté lei. Cominciammo a camminare. Ci agguantava ancora saldamente per il cazzo. “Dove state andando?” chiese. “Di là” risposi. “Non vi piacciono le donne, eh?” Cercò di farci prendere per mano. “Voi due state insieme, eh?” Continuammo a camminare. “Non GUARDATEMI cosí, brutti stronzi!” ci urlò.
Entrammo in un bar all’angolo e ordinammo due birre a testa. Dopo un po’ arrivò anche lei; andò a sedersi in un angolo e ci fissò con lo sguardo carico d’odio. “Tesoro, se vuoi startene qui devi bere qualcosa” le spiegò il barista. Lei uscí bestemmiando.

Turk Street

Certe volte nei pomeriggi piovosi un uomo di colore si metteva davanti a un negozio su Turk Street e mostrava a tutti una copia di La torre di guardia. La rivista era chiusa in un sacchetto di plastica divinamente impermeabile. Se nessuno si avvicinava chinava la testa e si metteva a leggere la copertina sottosopra, come il piccolo vietnamita che correva per strada raccogliendo pezzi di giornale sporchi e li leggeva avidamente tutti quanti, quasi stesse per apprendere una notizia importante. Una prostituta bionda passò agitando le gambone inguainate nelle calze blu scintillanti. Una bianca senza calze stava appoggiata a un taxi giallo insieme a un gruppo di neri. “Grazie” diceva. “Ne avevo tanto bisogno.” “Grazie a te, piccola” le risposero in coro.
Un nero stava seduto sotto un lampione. Quando un’impiegata bianca coi tacchi a spillo gli passò davanti, disse: “Neanche un sorriso mi fai oggi?” Ma quella continuò per la sua strada.
Di notte Turk Street si tingeva di giallo e rosso acceso, come l’interno di un cadavere. Le luci rosse sfavillavano dagli spacci dei liquori e dai pornoshop. Le insegne al neon riproducevano bicchieri da cocktail e gambe di donna. Entravano in funzione i gialli rettangoli di luce dei peepshow. Camminando sul marciapiede, poteva capitarti d’incrociare una donna mortalmente pallida che piangeva e fracassava i parchimetri con un tubo, mentre gli uomini oziavano e stavano a guardare sotto le ammiccanti luci rosse. Passavano le notti contro i muri illuminati di rosso. Le puttane strillavano: ‘Vieni da me, bello!’ Gli uomini stavano in gruppo con le mani in tasca, le puttane nei bar. A volte quando ti accostavi, ti accorgevi che erano incartapecorite. Oppure erano ancora fresche, ridevano e ballavano infilando monetine nei videogiochi, spandendo eccitazione in una miscela di sudore e profumo. Se uscivi fuori passando sulle pozzanghere di piscio trovavi altre puttane, che ballavano e aspettavano, ma alle loro spalle c’erano sempre gli uomini, che stavano a guardare.

Geary Street

La sera mentre ti avvicinavi al Tenderloin ti prendeva una brutta sensazione, addirittura quando eri ancora a Union Square che guardavi la vetrina di Macy, fra il tram in transito, il lampo di un cartellone pubblicitario e i passi della gente ben vestita che si sgranavano costanti come perle del rosario. ‘Ma quanto mi piace questa piazza!’ gioí un anziano signore brizzolato, e la sua stagionata consorte: ‘C’è un’aria cosí pura!’

Entrando

Sulla O’Farrell, a un isolato dal locale di Dino, di fronte al Bohemian Parking Garage, non girava un’anima e c’era una luce gialla ma i marciapiedi erano in buone condizioni. Due skinhead si facevano lucidare gli anfibi da un nero con aria strafottente. “Ma quant’è simpatico” risero. “Come ti chiami, eh, Sambo?” Se svoltavi la Taylor passando davanti a un enorme cantiere (il cartello diceva che un giorno sarebbe stato il piú grande albergo e centro congressi della costa occidentale) e attraversavi l’ingresso di un altro grande albergo (passò un poliziotto), ti ritrovavi in Ellis Street di fronte al terminal della Airporter. Svoltavi a destra. E di colpo il marciapiede era pieno di crepe, con una pozzanghera puzzolente e tutti quelli che uscivano dal terminal s’incamminavano dalla parte opposta.

Scene buffe

Due uomini in giacca e cravatta litigavano fuori dal cabaret coreano su Eddy Street. “Tu le mani addosso cosí non me le metti!” disse uno. “Casomai fai cosí! Ricordati che sono io il padrone di questo posto.” In Ellis Street c’era uno che storicizzava i fatti con un poliziotto accanto alla sua auto distrutta.
“A quanto vedo” disse il poliziotto “prima le è andato a sbattere sulla capote.”
“No” disse l’altro con pazienza. “Prima mi ha dato una botta in testa.”

Sotto il lampione

Starr ballava all’angolo fra la Leavenworth e Ellis. “Avanti, fatevi sotto!” gridò. “Sono PRONTA! Fatevi sotto!”
“Com’è la vita da queste parti?” m’informai. Oh, quante cose volevo sapere!
“Un inferno, credimi” disse lei. Continuava a dondolare la borsetta nel buio. Le luci gialle la tenevano a testa alta, ma quelle rosse la piombavano in una ridda di rossori intermittenti. Aveva un viso bellissimo. Portava un top rosa da dove i capezzoli si affacciavano a squadrarmi sospettosi. “Devo fare qualcosa,” disse “specialmente quando mi ubriaco. Quando mi ubriaco, divento matta. Devo scoprire una cosa. Mi seguono. Da un momento all’altro mi agiteranno un distintivo sotto il naso, lo so. Ma me ne frego di andare in prigione. Ormai non mi frega piú niente di niente. Lo sai, hanno avuto la faccia di entrare nell’ufficio dei servizi sociali e di comportarsi come se ci lavorassero. Sono entrati a casa di mia suocera a Park Merced senza avere il benché minimo diritto.”
“Starr, posso offrirti una birra?”.
“Ne ho già una, proprio in quel sacchetto sopra il distributore dei giornali. Capito, io so a che punto stanno le cose. Per questo so a che punto sfuggiranno. Ma io vengo qui a lavorare e gli tendo una trappola.”
“Del tipo?”
“Una che ci cascano di sicuro.”
Come ballava imperterrita sul marciapiede! I tacchi alti picchiavano rapidi sul cemento come le leggendarie dita di Scarlatti (“Sicché pensai” disse un sconcertato contemporaneo del musicista “che in quello strumento ci fossero mille diavoli!”), e il bagliore dei lampioni dava ai suoi colori il rigoglio splendente e malato dei funghi incandescenti nella fredda tribolata foresta di notte che la circondava sospirando dalle inferriate e dalle finestre chiuse. Starr era di una bellezza audace. Lí per lí pensai che ballasse per divertirsi, a differenza delle spogliarelliste di Dino, ma poi mi venne in mente che anche lei ci era costretta. Neanche lei si divertiva. Quella notte il mondo la accarezzava per il verso sbagliato, come un amante con mani di carta vetrata, costringendola a una danza da tarantolata, che doveva andare avanti fino allo sfinimento. Quando attraversò la strada di corsa, pensai che non l’avrei piú rivista, invece tornò di nuovo a ballare. “Avanti, fatevi sotto!” gridò. Una vecchia e lunga station wagon risalí lentamente la strada, e un tizio seduto al lato del passeggero abbassò il finestrino e le fece segno di avvicinarsi. “Vaffanculo” strillò lei. “I negri non li sopporto” confidò. (Ma era di colore). “Non li sopporto, quegli stronzi neri. Ho detto lo stesso anche ai punk. Proprio. Stasera ne piglio uno. Ne piglio uno e lo stronco. Aspetto quello giusto, quello che so io. E sarà quello che farò a pezzi.”