di Franco Pezzini

Il cinema dell-eccessoUna sera di qualche anno fa, probabilmente il 2009, l’amico Max Ferro regista di Io sono un vampiro mi propone di raggiungerlo al TOHorror, dove sarà ospite Jean Rollin. Posto che l’appuntamento al TOHorror è un must per qualunque torinese (e non solo) sia cultore appunto di horror – la scelta di pellicole presentate a ogni edizione è di qualità altissima, e il combustibile di passione impegnato da un’organizzazione di poche persone ottiene miracoli – l’idea comunque di incontrare Rollin mi affascinerebbe. I suoi film, quelli almeno non puramente alimentari (vabbè, gli hardcore), con la loro sghemba poesia surrealista, le vampire trasognate e le donne-bestie su strani sfondi cimiteriali o spiagge bretoni d’inverno sono una festa per la fantasia, eccessivi quanto improbabili, provocatorii, deliranti. Ma l’incontro cade in seconda serata, sono stanchissimo dopo il lavoro e non ce la faccio: col risultato di mangiarmi le mani ancor oggi perché quella sera Rollin si ferma a chiacchierare coi presenti – compreso Max, di cui conosce e ha apprezzato il film – e l’anno dopo morirà, il 15 dicembre 2010, portandosi via un altro pezzetto di quell’incredibile cinema che ha nutrito un’intera stagione di sogni.
Questo ricordo riemerge al trovarmi tra le mani Il cinema dell’eccesso. Horror, erotismo, azione e molto altro nei film dei maestri dell’exploitation di Rudy Salvagnini, Crac Edizioni; o meglio il primo volume, uscito nel 2015 e dedicato appunto alla produzione europea, mentre il secondo ora fresco di stampa riguarda Stati Uniti e resto del mondo (euro 24 ciascuno). Salvagnini, temerario palombaro del cinema di genere, si concede così una nuova ampia opera, dopo quel monumentale Dizionario dei film horror. Dall’Abbraccio del ragno a Zora la vampira (Corte del Fontego, Venezia 2007, aggiornato 2011), non solo di enorme respiro ma – virtù non scontata per un repertoriatore – fornito di ottimi commenti critici.
Con questo Cinema dell’eccesso, Salvagnini ne fa un’altra delle sue: un’analisi a tappeto, criticamente ricchissima, dell’opera dei maestri di quel cinema all’insegna del to exploit, “sfruttare”, nel doppio senso dello sfruttare un tema (da cui i birichini derivati sexploitation, blaxploitation, nunsploitation, eccetera) e di “sfruttare gli istinti più basilari dello spettatore medio” con la spregiudicatezza del caso. Una specie di ipergenere, trasversale ai generi veri e propri (come da sottotitolo: Horror, erotismo, azione e molto altro) e dunque identificabile non tanto attraverso i contenuti specifici, ma da un modo di narrare.
Nel volume sull’Europa troviamo non solo (ovviamente) Rollin e il suo grande avversario/contraltare Jess Franco, ma il cantore inglese dei guasti perversi dell’autorità (preti sessuofobi, giudici fai-da-te…), Pete Walker; il romantico e a suo modo candido Jacinto Molina in arte Paul Naschy (morto a sua volta nel 2009), eroe popolare spagnolo in pelliccia da uomo-lupo in una raffica di film deliziosi; e gli assai meno candidi Norman J. Warren e José Ramón Larraz, il primo (per intenderci) regista di Satan’s Slave, 1976 e Inseminoid, 1981, e il secondo dell’indimenticato Vampyres, 1974, con Marianne Morris e Anulka Dziubinska perdute in un vortice di eros e di sangue. Anche se i percorsi ovviamente sono aggiornati, un sapore vintage di sovversione anni Settanta ammanta l’ottima panoramica di una vaga malinconia sulla distanza.
Ma con il secondo volume Salvagnini si spinge più lontano. Anzitutto negli USA, dove tra la massa dei fantasisti del settore sceglie alcuni nomi eccellenti: il modello di Tarantino, Jack Hill, nella cui ricca produzione basta ricordare la disturbante commedia nera Spider Baby, 1968, con un Lon Chaney Jr. istrionico e crepuscolare; la “Godard dell’exploitation” Doris Wishman, la cui lista di titoli su nudi, nudisti & cattive ragazze la dice già lunga, e che rappresenta un’esplosiva eccezione in un settore saldamente piantonato da registi maschi; e – altra eccezione – la collega Roberta Findlay, che con il marito Michael ha rappresentato un tandem piuttosto esplosivo prima della separazione e della (spaventosa) morte di lui in un incidente d’elicottero. Roberta reggerà per un po’ di anni il timone da sola, lasciando soltanto all’alba della decade Novanta, quando constata che non sono “più rimaste compagnie video cui vendere immondizia”.
Ma anche per il resto del mondo, Salvagnini elegge singole, memorabili esperienze. Il Messico, anzitutto: con il popolarissimo ed eclettico René Cardona (senior, padre e nonno di altri René Cardona registi popolari), tra i maggiori responsabili delle goduriose saghe di horror & wrestling in cui tutti ci siamo prima o poi imbattuti, ma che meriterebbero una frequentazione mirata; e naturalmente il visionario Juan López Moctezuma, autore di quell’enigmatico caposaldo del nunsploitation che è Alucarda, 1978, film barocco e poetico, surreale e affascinante ispirato in parte a Carmilla (anche se il regista muore senza aver varato l’atteso sequel chiarificatore, uno degli unfilmed movie più intriganti di sempre). Poi il Giappone con Teruo Ishii, tra crimini, torture ed eccessi assortiti; Hong Kong con il bizzarro, fantasioso Nam Nai Choi – in realtà noto anche sotto una pletora di altre traslitterazioni o pseudonimi, prima di (letteralmente) sparire nel nulla; le Filippine con l’attivissimo Eddie Romero, in realtà mattatore dell’exploitation sulla scena internazionale; fino al Brasile del provocatore José Mojica Marins, noto per la parossistica epopea del becchino Zé do Caixao.
Come Salvagnini ammette, la base dell’opera è offerta dagli articoli scritti in dieci anni (2000-2010) per “Segnocinema”, anche se ovviamente rielaborati, arricchiti e aggiornati. A mostrare con complicità ma con equilibrio critico le bizzarre virtù di opere dove proprio il pragmatismo dell’assunto dei produttori (un to exploit spudorato, grottesco, vorace) lascia una paradossale libertà a straordinarie figure di registri artigiani. Liberi a quel punto di osare sperimentalmente come il cinema “perbene” non permetterebbe mai.