di Mauro Baldrati

RevenantUn altro film di ambientazione per così dire nevosa è The Revenant, del regista messicano Iñárritu. Lo spettatore di lungo corso, già educato alle immagini con la lettura dei fumetti, non può non evocare Il grande Blek, il trapper biondo che, nel XVIII-XIX secolo, combatteva nel Nordamerica contro “i marmittoni”, i colonialisti inglesi. Il film ha più o meno la stessa ambientazione spazio-temporale, ma con una differenza sostanziale: l’evoluzione del fumetto, la sua iper-umanizzazione. Rispetto a Blek infatti, che era sempre irreprensibile, lavato, stirato, pettinato e sbarbato, qualunque cosa accadesse, il protagonista Hugh Glass, interpretato dal sempre bravo Leodardo DiCaprio, sprofonda in tutti i livelli possibili di sporcizia, di sofferenza, di degradazione, e ne reca abbondantemente i segni. Gli eroi dei fumetti antichi raramente mangiavano, qui Hugh si nutre di carogne, di radici, di pesci ancora vivi, di brandelli di carne cruda, che sbrana come un animale. E se nei fumetti storici l’ambiente era levigato, con grandi foreste pulite e ordinate, nel nostro film i persomnaggi razzolano nel fango, nel gelo, sotto un cielo perennemente cupo, imbestialiti, inseguiti da indiani che non sono per nulla “cool” ma a loro volta brutti, spietati, che cercano di massacrare gli invasori bianchi come questi hanno sterminato le loro famiglie.

Eppure a modo suo anche Hugh è un fumetto. I cartoni, ci hanno insegnato in Jessica Rabbit sono indistruttibili (basta pensare a Vil Coyote). Scendono all’inferno, si sfracellano sulle rocce, ma nella tavola seguente sono di nuovo in forma, puliti, senza un graffio. Cosi’ erano Blek, Zagor, Tex. A Hugh capitano disavventure cosi’estreme che, se non fosse un cartone, non potremmo credere che se la cavi cosi’. Cade nelle acque gelide del fiume in piena, ferito orribilmente, risale fradicio e striscia sulla neve, ma non si congela. Nella scena successiva è gia’ in piedi, asciutto, per quanto lurido e gemebondo. Non è soggetto alle normali leggi della termodinamica. Non muore dopo otto minuti di immersione nell’acqua a zero gradi, come ci hanno spiegato i pastori nomadi del Tibet. E le sue orrende ferite non si infettano, nonostante si voltoli nel fango, addirittua nel ventre di un cavallo morto, nudo, per non morire assiderato.

Ma che c’importa? Il fumetto è fumetto. E nei confronti del fumetto d’avventura non pretendiamo la rispondeza a tutti i requisiti della realtà reale, ma verosimiglianza, stupore, emozioni. E storie semplici, poco arzigogolate. In fondo il fumetto classico è blues, giri di note che apparentemente si ripetono, ma che costituiscono ogni volta una nuova esperienza.

Anche la storia di The Revenant è semplice. Hugh è un trapper, un cacciatore di pellicce con un figlio mezzo indiano, avuto dalla moglie squaw Pawnee, uccisa durante una incursione dei soldati americani. Viene aggredito da una femmina di orso grizzly che lo riduce in fin di vita. E qui va fatta una precisazizone doverosa. La scena, di un realismo impressionante, vale da sola un film. L’ orso è stato creato al computer, non è solo verosimile, ma vero, un prodotto dell’ultima generazione degli effetti speciali digitali. Non siamo dei cultori della tecnologia, ma davvero e’ impossibile restare indifferenti di fronte a una tale meraviglia. Avatar è gia’ stato superato.

Hugh lotta per sopravvivere, negli immensi boschi innevati del Nord Dakota, dove la vita è dura, selvaggia, e non c’è nulla di romantico, ma solo fatica, sofferenza, paura e violenza.

Scorre senza cadute nè momenti di stanca, fino al finale, americano, certo, ma non scontato, quando Hugh rintraccia il trapper assassino che ha cercato di ucciderlo, prima di pugnalare a morte suo figlio.

A differenza del film di Tarantino, che in fondo è un’opera teatrale, The Revenant è un impeccabile racconto di avventura, avvincente, sostenuto da paesaggi magnifici, una tecnica perfetta, con attori di classe, e, lo diciamo senza alcun compiacimento né ironia, batte The Hateful Height tre a zero.

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