di Erminia Mattarelli. Testimoniaza raccolta da Michela di Mieri

Partigiane2.jpgSporgemmo denuncia: volevamo dimostrare che si era trattato di un omicidio e non di suicidio, come sostenevano i fascisti. Così gli fecero l’autopsia: c’era il Dott. Ricci, che era un fascista, ma c’era anche il Dott. Tonini, quello che aveva visitato e curato mio padre la settimana prima e quindi sapeva quali erano le sue condizioni fisiche. Davanti alla commissione ognuno fece la sua dichiarazione: per Ricci, era suicidio tramite impiccagione (ovviamente); per Tonini, invece, sul corpo di mio padre non c’era nessun segno di strangolamento: prima di tutto era appoggiato con i piedi per terra, a conferma che era stato attaccato alla trave già morto. Tonini provò che era stato ucciso barbaramente tra le botte e l’affogamento: secondo la sua ricostruzione gli immergevano la testa in un secchio pieno d’acqua, gliela tiravano su e poi ancora giù ripetutamente fino a che non fosse morto annegato. Aggiunse che se anche non fosse stato ucciso così, sarebbe morto lo stesso da lì a poco, per le gravi ferite riportare: aveva un polmone leso, il cuore aveva ceduto, un trauma cranico non curato ecc…

Alla fine, Ricci fu premiato e fece carriera; Tonini, invece, poco dopo venne bastonato, perse la condotta e fu costretto a fuggire da Molinella, perché si era gravemente compromesso per aver avuto il coraggio di difendere la verità.
La partecipazione al funerale fu permessa ai soli familiari; i compagni che erano venuti non poterono entrare, e gli buttarono, dall’altra parte del muro del cimitero, tanti fiori!
Il nostro avvocato, Mario Bergami, fece di tutto per far condannare i colpevoli; fummo chiamati a deporre parecchie volte e, ricordo, mi incoraggiava sempre a dire tutto. Anche per lui l’iter fu classico: olio di ricino, un sacco di botte e, per concludere, gli bruciarono lo studio. Si rifugiò in Francia, e non sapemmo più niente di lui.
Per mio padre la faccenda finì così, nessuno ne parlò più.
Rimanevano i giorni sempre più duri; il lavoro non lo trovavamo praticamente più: nessuno si voleva compromettere con noi, inoltre nessuno di noi aveva il timbro dell’iscrizione al fascio sul libretto di lavoro, condizione indispensabile per lavorare.
Così, mia madre andò a spigolare il grano fuori dal paese, ma venne riconosciuta da un certo Ballardini, un fotografo che aveva lo studio a Molinella; bruciò tutto il grano da lei raccolto e la picchiò rompendole la mascella con un sasso. Il contadino per cui lavorava la trovò e la raccolse; la tenne nascosta per tre giorni: per noi fu un’attesa disperata perché non sapevamo niente. Ce la riportò avvolta in una coperta imbottita, tutta nascosta lì dentro, così che nessuno avrebbe potuto riconoscerla.
Eravamo disperate… sole, con tanti debiti del negozio da pagare e senza lavoro. I vecchi compagni di mio padre, quelli che l’avevano pregato di tenere il negozio aperto per sostenere chi lottava (dopo la distruzione della cooperativa), non si videro neppure, anzi, ci consideravano traditori perché eravamo diventati comunisti! Solo il Soccorso Rosso si ricordò di noi: ci mandò un pacco con £.5 e una cornice dove poter mettere una foto di mio padre.
Così, ci andammo ad aggiungere alle circa 300 famiglie che in quegli anni lasciarono Molinella.
Argentina si trasferì a Bologna con il suo compagno e la bambina, Giannina, di quasi due anni; vissero nella Manifattura Tabacchi, tornarono a Molinella quando le cose si calmarono. Io e mia madre raggiungemmo Mario nel Lazio.
Laggiù, nell’agro pontino, eravamo in centinaia a bonificare queste terre paludose. Noi emiliani avevamo a nostra disposizione una carovana: ci vivevamo dentro in una ventina, senz’acqua, senza nulla, non era una vita da persone, no! Mia madre era l’addetta alla cucina, Mario era il nostro capo squadra. Vivevamo così, isolati, in mezzo alla miseria, in queste terre malsane che dovevamo dissodare, e ovunque solo malaria e paludi, paludi e malaria. Io la presi in forma abbastanza pesante, e allora giù chinino e chinino ed alla fine guarii, ma quanta sofferenza!
(…)
Un’estate, mia madre andò a Molinella a pagare i debiti che ancora pendevano sulle nostre teste, e tornò portando con sé la figlia di mia sorella, Giannina, quella nata sotto il terrore delle squadracce fasciste della prima ora.
In settembre Giannina dovette tornare a casa perché cominciava ad andare a scuola, ed io l’accompagnai.
Era l’autunno del 1928. Da quattro anni non vedevo Molinella. Quanta voglia di rivedere la mia gente, quei pochi compagni rimasti, quel piccolo paesino per me così grande!
Così, una volta accompagnata la bambina, rimasi a Molinella in casa di Argentina e non tornai più a Roma, anche perché mia nipote non voleva più farmi andare via e diceva:“ zia, la tua casa è questa, non quella laggiù!”
All’inizio del ’29, tornarono anche la mamma e Mario, che nel frattempo si era sposato con l’Enilde, così ci ritrovammo finalmente tutti insieme, ma in troppi a casa di mia sorella.
Così ricominciammo, piano piano, tutto daccapo.
Io, Mario, sua moglie e la mamma, ci trovammo una piccola casa, e, dalle piccole cose, prima una sedia, poi un tavolo, lentamente ci costruimmo un’abitazione.
Io cominciai in quel periodo a fare il lavoro che avrei fatto poi per il resto della vita: la mondina, in risaia; la mia università. Anche la mamma, nonostante l’età e il suo stato fisico un po’ provato, veniva in risaia. Per arrivare al lavoro si facevano fino a dodici chilometri a piedi; poi otto ore a raccogliere il riso, chine, con le braccia nell’acqua fino al gomito e le gambe negli stivali di gomma, con l’umidità che ti entrava dappertutto e la schiena schiantata; il tutto ovviamente per due soldi. Non esisteva la mensa o un qualcosa di simile. Il pranzo, consistente in un pezzo di pane con del formaggio o una fetta di mortadella, ce lo portavamo da casa; allora però non esistevano il cellophane e tutte queste cose, così quando a mezzogiorno andavamo a mangiare, spesso trovavamo il panino sparpagliato per terra, e le formiche tutte attaccate alla fetta di mortadella che se la mangiavano. Allora, se si era arrivati in tempo, si dava una scrollatina e via, se invece era tutto immangiabile, non si rimaneva comunque mai a digiuno: c’era tanta solidarietà tra noi, donne, mondine, compagne e non, che alla fine qualcosa nello stomaco si metteva sempre.
Sempre nel ’29, conobbi un romagnolo di Conselice, Camanzi Nino, che divenne mio marito. Ci sposammo anche se lo avevano avvertito che sposare una comunista non gli avrebbe portato fortuna; infatti, faticava parecchio a trovare da lavorare, nonostante lui fosse falegname, mestiere sempre molto richiesto.
Così, per vincere la miseria, decidemmo di andare a vivere a Conselice, il suo paese. Nino era un antifascista, ma socialista, per cui esisteva una certa diversità tra noi che si approfondiva giorno dopo giorno; difatti, come arrivammo a casa sua, mi disse: “Adesso che stiamo qui cerca di stare tranquilla e pensa un po’ ai fatti tuoi; vedi cosa succede a fare della politica? Non sei ancora stanca?”. Figurati! Stanca! Tutte le esperienze passate mi avevano fatta maturare ancora, e mettevo sempre più energia in quello che facevo. Conselice, poi, fu proprio la mia università politica: poco dopo il mio arrivo, conobbi degli antifascisti combattenti, Ennio Cervellati, Romagnoli e tanti altri; erano i miei compagni nella lotta clandestina, prima e dopo la caduta del Regime di Mussolini, quando combattemmo nella brigata partigiana “Irma Bandiera”, della VII GAP.
Nino, invece, aveva una gran paura dei fascisti, era normale, quindi, che ci scontrassimo spesso. Io avevo però una grande alleata in casa: mia suocera; lei mi aiutava sempre e mi difendeva anche da suo figlio. Per me era una vera amica e una compagna, e, fino all’ultimo, ci ha unite un rapporto di grande rispetto.
Da mio marito ebbi tre figli, le mie perle: Nara del ’29, poi Paolo del ’33 e l’ultima, Iva, del ’36. Loro crescevano in un ambiente uguale a quello in cui crebbi io. Li mettevo a conoscenza di tutto: vedevano lo scambio delle armi, assistevano alle riunioni (per forza poi, visto che vivevamo in una casa con un solo locale diviso da un telone per ricavarne cucina e camera da letto). Le cose bisogna vederle e toccarle, questo è il modo più sicuro per non crescere nell’errore di un ideale falso.
Come madre non ero severa, non picchiavo quasi mai i miei bambini; gli trasmettevo lo stesso affetto che io avevo ricevuto dai miei, e così gli infondevo la fiducia in loro stessi. Gli leggevo dei libri, ricordo ad esempio La Madre di Gorkij e Delitto e castigo, di Dostoevskij, e altri, quei pochi che riuscivo a trovare.
Così si andava avanti negli anni; io continuavo a fare la mondina e ad aspettare il crollo del fascismo.
Nel giugno del 1940 l’Italia entrò in guerra a fianco della Germania nazista; dei primi tre anni di quella che doveva essere una guerra lampo, ricordo solo che la miseria aumentava man mano che il tempo passava, e che io ero sempre in trepida attesa… Poi, un giorno, eravamo nell’estate del ’43, venne a Conselice mio fratello, in bicicletta da Molinella, con un signore così malmesso, e smunto che mi fece una gran pena; Mario mi disse: “Ermina, ti ho portato questo compagno. Ricordati bene che è di un’importanza tale che tu devi difenderlo anche a costo di fare saltare la tua casa”. Per me fu sufficiente, non domandai niente e lo feci entrare in casa. Mentre lui dormiva, era distrutto, preparai da mangiare: andai a comprare quel po’ di carne che mi spettava di diritto secondo la razione, una compagna mi diede un po’ di farina e feci un po’ di sfoglia, così tirai fuori un po’ di minestra in brodo. Quando fu pronto da mangiare, lo svegliammo e ci mettemmo tutti a tavola. Ci fermammo a guardarlo perché la fame che aveva quell’uomo lì, io non l’aveva mai vista. Non metteva la cucchiaiata di minestra in bocca, ma quasi andava col muso nel piatto per fare prima; gli riempivo di continuo il piatto e lui non si fermava. Si mangiò quasi anche la nostra parte: quando se ne accorse chiese scusa e disse: “ho mangiato troppo, ma non so dire da quanto tempo era che non mangiavo una minestra così! Non lo dimenticherò…” Dopo pranzo, venne la sorella di Cervellati, un compagno, la staffetta Saura; io li lasciai soli perché i segreti sono segreti. Un attimo dopo, lei era già uscita e lui cominciò a prepararsi per andare via. Quando ci salutammo mi disse: “ Ermina, ti dico un segreto per dirti grazie e compensarti per l’ospitalità: entro ventiquattro ore Mussolini cadrà!”. Non so, non si possono spiegare certe emozioni; non riesco a descrivere quello che provai… era come una campana che suonava nella mia testa, ero intontita dalla sorpresa e dallo stupore.
Era un segreto, ma lo dissi lo stesso ai miei bambini. Ero costretta a farlo, perché la gioia che avevo dentro dovevo trasmetterla anche a loro.
Il giorno dopo, il 25 luglio del 1943 , la radio annunciò che Mussolini era stato arrestato, l’era fascista era conclusa.
I miei figli erano a scuola, in refezione a mangiare (la scuola dava a mezzogiorno la pasta e una mela), quando si diffuse la notizia. Cominciarono ad urlare di gioia e tutti tiravano le mele ai quadri di quei due mascalzoni del re e del duce appesi al muro, e le maestre non sapevano cosa fare. I miei bambini ripetevano “Noi lo sapevamo! Noi lo sapevamo!”, erano così orgogliosi, ma, per fortuna, nessuno gli ha creduto.
Per quarantotto ore provammo veramente che cos’è il paradiso, però in terra! Sono cose che ti rimangono dentro e non si possono cancellare.
Non pensammo all’odio, né alla vendetta, ai rancori, né all’epurazione o ai tanti progetti elaborati nella clandestinità. Non fu per debolezza, ma per spossatezza; avevamo bisogno di goderci i primi momenti da “liberi”, senza più la perenne paura dei fascisti, finalmente, dopo vent’anni, e di assaporarli fino in fondo. Eravamo tutti giovani, insieme, riuniti in piazza, e cantavamo e ballavamo. L’unica cosa concreta che si fece, fu di bruciare le loro divise lì in piazza, rompere l’insegna del fascio littorio che campeggiava sul portone del Municipio e la statua di Mussolini.
Non potevamo saperlo, ma fu tutta un’illusione, solo un’amara illusione.
Passate queste 48 ore, Badoglio e quell’altro là, il somarello, il Re, dissero “ la guerra continua”. Fu una nuova tragedia, più grande delle altre, perché allora cominciò un periodo di confusione che non prometteva niente di buono, che culminò nell’ 8 settembre del ’43 … quel giorno cominciò l’occupazione tedesca e lo sbandamento dell’esercito italiano.
I ragazzi che erano militari dovevano fuggire, e non si sapeva come fare, perché bisognava nasconderli, dargli dei vestiti civili, un rifugio sicuro.
Quelli che erano in ospedale, li facemmo ammalare noi. La levatrice di Molinella, Elvira Borghesi, mi dette una ricetta stupenda: dare delle olive secche, sia verdi che nere, a questi ragazzi prima della visita militare. Come arrivavano alla visita, cominciavano a fingere di avere un gran mal di pancia. I medici gli facevano una lastra, e vedevano questi bubboni neri, uno diverso dall’altro (accadeva, infatti, che le olive secche non venissero digerite). Gli lasciavamo la loro riserva di olive secche per quando venivano richiamati, e, in questo modo, riuscivamo a rimandare la loro partenza il più possibile, perché i dottori non li dichiaravano idonei.
Anche in questa maniera si formò l’esercito più vero, più sincero: soldati senza divisa né gradi, ma con una consapevolezza tale da capovolgere il mondo! Infatti, molti di quelli che riuscirono a fuggire, si unirono alla lotta partigiana che proprio allora si organizzava per la liberazione armata dal nazi-fascismo; fu una cosa stupenda, benché atroce e terribile…schiaccia il cuore a parlarne, perché non sembra vero. Anche se vado a sbalzi, in qua e in là, ricordo le ore, le date…vivo tutto ancora di nuovo, sento tutto qui, presente, come se fosse oggi.
In quell’autunno, noi, che eravamo stati individuati in quelle famose 48 ore, fummo arrestati in massa dai militi repubblichini. Io fui condannata a pagare £ 2800 come risarcimento per i danni che avevo arrecato al fascismo, perché avevo partecipato alla distruzione della statua, delle effigi e degli altri simboli che per 20 anni ci avevano massacrati.
Io mi feci due giornate di carcere. Con me c’era la mia bambina più piccola, Iva, Luciano Romagnoli, un partigiano, e anche il prete, che era un antifascista. Il nostro carceriere era un elemento, perfido, cattivo, disumano, Alfredo Graldi, comandante delle Brigate Nere di Conselice; il suo aiutante, un maresciallo dei carabinieri che era il terrore, si chiamava Scarso Italiano, ed era proprio scarso: anche questo qui, applicando meticolosamente la legge fascista, bastonava che non pareva umano. Mi interrogarono sul 25 luglio, con domande del tipo: “lei guidava le donne in piazza quel giorno, e cantavate; cosa avete cantato?”, e io, per prenderlo in giro: “viva Garibaldi!”. Presi qualche sberla; Graldi mi picchiò lì, davanti a mia figlia, e lei, poverina, si ribellò: gli diede un calcio nelle gambe e urlava “brisa picèr la mi mama! Brisa picèr la mi mama!” (Non picchiare la mia mamma! Non picchiare la mia mamma!) . A lei avevo raccomandato: “Iva, qual cl’lav at dmandar, te diì sempre ca te an se gninta, diì sempre no, no, no” (Iva, qualsiasi cosa ti chiedano rispondi sempre che non sai niente, digli sempre no, no, no!).
Mi rilasciarono con l’obbligo di racimolare queste 2800 lire; dovevo viaggiare sempre con un foglio fatto da loro: se mi avessero trovato fuori tal orario, fuori dalla tal zona prescritta, sarei stata arrestata. Dissi che sarei andata nel ferrarese, dove nel frattempo si era trasferita mia sorella, e che lì avrei trovato il modo di trovare i soldi.
Invece di andare a raccogliere soldi, feci un’altra strada e altri raccolti: venni mandata dal comando partigiano a Molinella, per congiungermi con le staffette.
Ebbi un appuntamento con il vice podestà di Molinella, Dario Calori, un antifascista: aveva il negozio proprio davanti al comune; poi andai da Sanni Guido, Mazzacurati per un collegamento di lotte.
Passai in queste attività l’inverno del ’43, rimanendo lontana il più possibile dai repubblichini ai quali non avevo ancora risarcito i danni, quindi dovevo ancora scontare la pena.
Tutto proseguì senza grandi scossoni fino al giorno in cui, era la primavera del ’44, con dei partigiani romagnoli, dovemmo dare l’assalto allo zuccherificio di Molinella, perché il movimento aveva bisogno di un po’ di tutto. Naturalmente mandarono me con loro, perché conoscevo a memoria la strada ed il paese. L’azione riuscì, e, oltre a portarci via lo zucchero, disarmammo i soldati della brigata nera che erano di guardia, e prendemmo le loro armi, utilissime in una guerra dove nessuno dava i mezzi per combattere, ai partigiani.
Quindi i tre romagnoli, che erano nel gruppo con me, tornarono in Romagna, io rimasi a Molinella ancora un giorno, perché dovevo fare degli altri giri.
Le autorità nazi-fasciste iniziarono immediatamente le indagini sui fatti dello zuccherificio. La serva del segretario del fascio di Molinella, Matilde Mariani, era una spia nata, una carogna, era sempre sulla strada a guardare i fatti degli altri; mi conosceva bene, e aveva visto che avevo fatto quel giro qui, quel giro lì, dov’ero andata: così mi denunciò, ed io venni identificata.
Il giorno dopo partii da Molinella carica di zucchero, uova, salsicce, vestiti, documenti, ordini e armi, che mi avevano dato per gli antifascisti di Conselice. Quando arrivai a casa, dopo mezz’ora, appoggiai sulla madia tutto questo ben di Dio: non potevo mangiare di quel cibo, non era mio; gli ordini e le armi, le nascosi nell’armadio lì in cucina. Dopo di che andai in bottega a prendere la razione che mi spettava, per fare la cena.
Era una sera che pioveva, e, come arrivai nel negozio, mi raggiunge mio figlio Paolo e mi disse “mamma, ven ban a cà ca iè i fascesta che ien là chi cazen praria incosa” (Mamma, vei a casa ché ci sono i fascisti che buttano tutto per aria!) . Mi venne la pelle d’oca, e pensai: “ Se fuggo metto a repentaglio la vita dei miei figli e dalle lettere che ho sigillate possono risalire a troppe informazioni; e poi dove vado?”. Allora feci come niente fosse, dissi alla bottegaia: “vengo dopo a prendere la mia roba” e corsi a casa. Come arrivai vidi che mi avevano ribaltato tutto, però l’armadio era ancora chiuso; così, un pò rincuorata, mi rivolsi con gentilezza a questi “signori”: “ Ragazzi, avete trovato quel che cercate?”. Mi risposero di no, allora io “guardate che ho un bel salotto rosa dietro casa, se volete vedere..”. Il bel salotto era poi la cantina, ma era una scusa che mi serviva; difatti, quando fummo lì davanti, dissi: “oh! Ho dimenticato le chiavi in casa, aspettatemi qui che vado subito a prenderle”. Ritornata indietro, invece di prendere la chiave della cantina, spostai le armi da dentro l’armadio, e le misi dove avevano già cercato, là sotto ai materassi. Tornata da loro, aprii la porta della cantina: rimasero un po’ delusi, c’erano solo degli stracci. Gli dissi “non volevo che vi rimanesse il dubbio di non aver cercato bene”. Mi risposero: “Non abbiamo trovato niente, però lei, signora, deve venire con noi lo stesso”. Così mi arrestarono di nuovo.
In caserma ritirarono fuori la storia dei danni e che non li avevo ancora pagati. Volevano sapere come mai, nonostante quel mucchio di roba da mangiare sul tavolo, io andassi alla bottega a prendere la razione, che era ben misera. Dovevo essere sempre pronta alla risposta, così mi inventai: “Io sono sarta, e porto i vestiti ai contadini. Spesso non hanno soldi, e così mi faccio pagare in generi naturali, questo però non vuol dire che debba lasciare lì la mia razione che mi spetta di diritto”.
Non so se mi credettero, fatto sta che quella notte rimasi dentro.
Il mattino dopo, mi comunicarono la condanna: un anno di campo di concentramento in Germania, per i fatti dello zuccherificio e perchè mi ero già esposta e sapevano che ero partigiana. Tutti quelli che arrestarono con me furono condannati alla stessa sorte: il lager. Con me furono più indulgenti perché avevo tre figli, così dovevo scontare un anno solamente, per gli altri la pena era a tempo indeterminato. Una parte di quelli che fecero partire li uccisero, e buttarono i cadaveri dentro al Po.
A noi rimasti, diedero un permesso di ventiquattro ore per tornare a casa e salutare i familiari, dopodiché saremmo partiti.
Era il 4 aprile del 1944.

(3 -FINE)

[Per sapere come procurarsi il libro di Erminia Mattarelli, di cui abbiamo pubblicato appena la quarta parte, si guardi la premessa alla seconda puntata. Seguirà a breve l’introduzione al volumetto. Questi nostri stralci sono dedicati alla faccia di Giampaolo Pansa.] (V.E.)