di Daniela Bandini

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Non era prevista la pubblicazione di questa recensione, che riguarda un romanzo di un nostro illustre redattore. La pubblichiamo perché ha un nesso preciso con l’ormai celebre foto (riprodotta nell’articolo successivo) dei prigionieri iracheni nudi e ammassati l’uno sull’altro. In un carcere che, a ben vedere, potrebbe anche sembrare un frigorifero. (VE)

Giuseppe Genna, Non toccare la pelle del drago, Strade Blu Mondadori, maggio 2003, pp.390, €15,00.

Imperlate di gocce di vapore acqueo, scaturite dallo shock termico tra la temperatura esterna e quella interna del frigorifero, appaiono sfavillanti, nella loro confezione, 3 scatolette di carne simmenthal. Non c’è neanche più la seccatura dell’apriscatole e dell’alluminio tagliente che provocava tagli piccoli, ma dolorosi. Sono confezioni rosse, di un rosso scarlatto, però non fanno venire in mente inutili e raccapriccianti spargimenti di sangue: sembrano la sublimazione dell’alimento incorporeo, ricco di ferro, di proteine facilmente assimilabili, di tranquillizzanti porzioni ipocaloriche senza nessun evento brutale alle spalle.

Eppure per ottenere quell’ammasso gratificante e gelatinoso così maledettamente immediato c’è bisogno di carne, di carne fresca. Secondo Giorgio Bocca, nel suo “antitaliano”, L’Espresso del 19/02/03, l’aggressione americana all’Iraq sarebbe mirata “al controllo del petrolio e della cerniera mediorientale in vista di un prossimo scontro con la grande Cina”.
Il nesso c’è. I corpi ancora terrorizzati, ma già morti, dei tre vitellini, che giacciono increduli nel loro sangue, uccisi per scoprire quanto si è disposti a pagare il prezzo del proprio cinismo, assomigliano al gioco sado-maso di un capitalismo invasivo come quello cinese sui mercati occidentali. Siamo la Cina, siamo disposti a sovvenzionare fabbriche di materie prime per la produzione di sorprese per merendine, dei cd a prezzi concorrenziali, degli stereo a prezzi concorrenziali, della maglieria, dell’abbigliamento, della bigiotteria, dell’elettronica, della tecnologia, della coca, a prezzi concorrenziale. Stipati in loculi dove il confine tra lavoro e vita privata non esiste, la manodopera cinese cura e ingrassa quel vitello che prima o poi divorerà.
Il loculo-laboratorio cinese e il viale di Montecarlo, che fisicamente corre sui caveau ricolmi d’oro, divergono in questo: permea l’aria l’effluvio nauseabondo del capitalismo apocrifo dell’uno e sacro dell’altro. Per patteggiare la ripartizione degli utili planetari: per generi che non sono di prima necessità, ma che stanno cambiando l’ordine economico del pianeta. Non si può competere con chi non ha il senso laico dell’esistenza, che è il godimento dei frutti del proprio lavoro, ma molto si può sfruttare l’egemonia millenaria di un potere assoluto dall’impianto economico-culturale pre-industriale, per assoggettare milioni di servi della gleba al servizio dello stato-feudatario. L’occidente visto dai mercati, da Wall Street a Shangai: sonnacchioso, che si inorgoglisce mostrando la ruota delle piume di un pavone sempre più attento al passato, archeologico, classico, democratico, cristiano ma laico, che guarda il mare e per incanto vede apparire la vela di Ulisse, l’Europa che solo ieri recitava le messe in latino, che si interroga sull’etimologia della parola, appare sempre più come il settore “souvenir — zona protetta” di un gioco di simulazione planetario.. A noi la preservazione culturale, la razza souvenir, agli altri il compito di produrre e speculare sul serio.
Nessuna propaganda animalista avrebbe potuto scuotermi come quei vitellini uccisi nello splendido libro di Giuseppe Genna. L’addestramento lo prevedeva: sparargli in mezzo alla fronte, ancora tremanti e disperati, con gli occhi sbarrati, per poi passare all’obiettivo uomo. Che forse è più facile. Per uccidere un uomo le motivazioni sono innumerevoli. Perché è più ricco di te, perché se la sta passando troppo bene, perché è bello decidere la parola “fine” nella vita di qualcuno quando non se l’aspetta, perché è umiliante e gratificante rispettare gli ordini, per non fare la stessa fine, per condividere, respirare l’ansia di potere e ritrovarsi nella stanza dei bottoni. Un cenno d’intesa con il proprio superiore, e tutto si spalanca davanti a te: siamo dall’altra parte. Ma cosa c’è davvero dall’altra parte? La copertura assicurativa del sistema, forse, con i suoi sistemi di persuasione.
Dai servizi segreti in giù, si spalanca l’inferno. Sono gli uomini del nostro romanzo. Reclutati come sempre ai margini delle ambizioni dei settori di difesa dello Stato, si concedono a chi sa offrirgli i vantaggi dei propri aguzzini: buoni conti in qualche isola Cayman, droga, quella buona, pratiche sessuali non convenzionali, e magari qualche collezione d’autore, perché si sa “l’uomo non vive di sola carne”, deve nobilitarsi con qualcosa che lo elevi dallo stato animale.
Raffiguratevi il nostro protagonista, al quale è stata consegnata per essere docilmente riaccompagnata a casa la moglie di un potentissimo uomo d’affari italiano, che si imbatte con il potere, quello vero. Una moglie dal viso stravolto e reso inespressivo dalle iniezioni di botulino che ne spianano le rughe e ne livellano l’emotività. Si parla degli Agnelli, già nella fase del declino, e degli squali attorno alla villa padronale, pronti a succedere ai defunti. Visibile, accecante, esagerata, folgorante, la Sala del Sagittario. Il nostro uomo viene fatto accomodare all’interno di uno spazio grandioso, armonico e imponente, nel quale un gigantesco ologramma si materializza sotto forma di cavallo imbizzarrito, un San Sebastiano trafitto da spade, per completare una rapida metamorfosi che lo vedrà incarnare una figura muliebre emblema di ogni irraggiungibile perfezione, e infine tramutarsi in un centauro femminile.
Perché la bellezza di questo romanzo è non solo descrittiva, ma contingente. Ci sono tutti i nostri geometri e avvocati, commercialisti e notai, le tipiche ambizioni della provincia del nord-est, di un’Italia con un piede in Europa e l’altro ancora nel Po, l’Italia dei nostri padroni. C’è un intrigo di affari internazionali, che ruotano attorno alla coca, e misteriose morti, omicidi forse, un ritrovamento di corpi inspiegabilmente associati a un fantomatico giro di “carne fresca”.
La mia non pretende di essere una recensione: sono appunti di un lettore che si fa prendere per mano da questo romanzo e che volentieri lo segue. Ho seguito il protagonista nella sua visita al China Down, un palazzo imploso, un’architettura che sprofonda i suoi sette piani nelle viscere della terra, “le pareti in stoffa ricamata, rossa e lucente”: gli acrobati che intessono le loro acrobazie arrampicati come ragni tessitori a fili impercettibili… Lo scempio di uno spettacolo (tra i tanti) a uso e consumo di chi si ciba ed esige a tavola, ogni giorno, carne fresca.
Gerarchie, clan, banchieri, che si permettono prelibatezze gastronomiche pazientemente elaborate con il sadismo più fine. Apparentemente finalizzato al piacere di gustare, sotto la forma del disprezzo più sottile, la spiritualità del sacrificio stesso. Il dominio sulla storia, l’egotismo intellettuale della sopraffazione… Sono tematiche affascinanti, raramente descritte con tanta spietata linearità.
Di fatto col protagonista ci immergiamo nel risvolto di ogni cronaca nera. In ogni paragrafo distratto di lucciole o spaccio, di laboratori marchigiani di tessile clandestini, di giovani scomparsi, il protagonista attende, fiducioso, di iniziare il suo percorso dissacrante. E con lui andremo verso quell’unica forma di allevamento di carne fresca, richiestissimo, che pretende di scalzare la prerogativa divina che distingue il mortale dall’immortale.
Siamo corpi. Più disperatamente desideriamo vivere come entità celebrali, più il nostro corpo reclama un’attenzione fastidiosa. Una malattia, i capelli che si diradano, l’invecchiamento, le rughe, la schiena dolorante, e tutta la nostra intellettualità, nascosta, potenziale, non esponibile, ripiegata nella circumnavigazione del nostro cervello, che non puoi mostrare con la stessa provocatoria esposizione di un seno o di un lifting particolarmente riuscito. Per gli altri siamo corpi: incredibile, ma è così. E questi corpi, questa carne fresca deve continuare la sua esistenza “indipendente” dal nostro modo di intendere l’Io. Almeno questo è quello che vogliono gli occidentali, che sembrano tenerci così tanto…