di Mauro Baldrati

Questa serie danese è puro cinema underground. Anche il regista kult Nicholas Winding Refn sembra un film maker uscito dai primi anni Ottanta, o un William Burroughs del terzo millenio: elegantissimo, con un volto tardo adolescenziale, parla un inglese perfetto, ma durante le riprese è sciattissimo, scamiciato, con una coperta avvolta sullo stomaco (forse per problemi gastrici?). E’ famoso per utilizzare attori non professionisti, che valorizza con la sua tecnica rarefatta, composta da lunghissimi silenzi, facce inespressive, maschere di un mondo morto, ferocia raggelante come il corpo privo di temperatura di un cadavere.

La storia è ambientata in un luogo segreto che potrebbe essere il sottosuolo di una qualunque enclave degradata della società globale umana. Degradata, ma non post apocalittica, con rovine e ruderi e strade desolate. Gli interni sono lussuosi, ordinati, certamente impersonali e poco accoglienti, illuminati da luci crude, con ombre cupe, colori sgargianti caricati di contrasti violenti. Tutte le altre scene sono girate in un bosco, sotto un cielo perennemente nuvoloso, malinconico, o forse spietato, come lo è il popolo che abita questo mondo sotterraneo dove regnano il male, l’egoismo, lo schiavismo.

Ma attenzione: il cinema underground è indifferente ai gusti del pubblico mainstream. Non prova la tentazione di corteggiarlo per averne i favori. Raramente si abbandona ai facili compiacimenti. Va per la sua strada, e richiede una particolare disponibilità dello spettatore, che lo apprezza per quello che è, oppure lo rifiuta. Copenhagen cowboy non è un crime, né un thriller e nemmeno un’opera distopica di SF. Non è per tutti. Se lo spettatore non accetta la sfida, fa meglio se rinuncia già al primo episodio.

La storia è semplice, in bilico tra la narrativa materialista e contenuti onirici supernatural. La protagonista, Miu, è una sorta di reincarnazione di un cowboy, risorto a Copenhagen, forse dopo essere stato rapito dagli alieni. Piccola, magrissima (l’attrice che la interpreta, Angela Bundalovic, è anche una ballerina), recita per tutto il film tenendo le braccia lungo i fianchi, o nelle tasche della tuta colore azzurro elettrico, confezionata dalla costumista con lo scopo di ricreare una mise da super eroina. In effetti così è stato qualificato il suo personaggio in diverse recensioni, ma è una forzatura. Miu è una guardatrice e ascoltatrice, i suoi grandi occhi vagano per l’ambiente, sui volti degli altri personaggi. Si muove in una sorta di rallenty esasperante, e se parla, lo fa dopo lunghi silenzi. Anche per rispondere a domande semplici tipo “come ti chiami?” impiega manciate di secondi che potrebbero irritare in maniera insopportabile lo spettatore che soffre del complesso del “lento”.

Miu è il fulcro del film, il cuore bradicardico a trentacinque battiti, l’eroina che passa indenne da varie vicissitudini pericolose. E’ stata comprata da un bordello di giovani donne balcaniche, che vivono insieme in un sotterraneo in attesa di essere affittate a clienti portatori del più bieco maschilismo-patriarcale. Regna incontrastata la crudeltà dei padroni, che non esitano a picchiarle anche per un minimo errore. Ma non c’è disperazione, si cerca di sopravvivere come se quella fosse l’unica realtà possibile.

Ma Miu non si tocca. E’ come un fragile, prezioso calice di cristallo. Ha fama di essere una “moneta portafortuna”, ovvero dispensatrice di gioia e benessere. Tutti la vogliono. Tutti hanno un problema, un desiderio.

Riesce a fuggire, e inizia la migrazione nei vari livelli della giungla sotterranea; sprofonda nella follia criminale, viaggia sugli inserti onirici e la visione di fantasmi. Lavora per le varie mafie, è ospitata da una donna orientale, Mor Hulda, che gestisce una specie di ostello collegato a un allevamento di maiali, che grugniscono e urlano continuamente. E anche i personaggi che vengono feriti e torturati urlano come i maiali, con la stessa voce animale.

Ma anche qui, arrivati nel centro dinamico della storia, è doverosa una precisazione: elementi horror sono presenti, ma senza squartamenti o esibizione di organi interni. Non è nello stile del regista. La cupezza dell’omicidio c’è tutta, ma senza abbandonarsi al romanticismo splatter.

Mor Hulda, che sembra proteggerla e nasconderla, è succube, o schiava, di un altro orientale che pare un boss della Yakuza, dai modi calmi e quasi gentili, ma che nascondono in realtà la più estrema crudeltà. Costui sequestra la figlioletta della donna, per punirla di un tentativo di fuga – ma fuggire dove? Il mondo esterno sembra non esistere.

La donna è disperata. Inizia quindi l’opera di Miu per restituire la bambina alla madre. Il suo animo è buono e generoso, ma non esita a trasformarsi in una killer spietata, assassinando il braccio destro di un grottesco avvocato che lavora per le mafie, infilandogli un sottilissimo ago nel cuore (una scena che strappa un brivido).

Durante il viaggio nei livelli dell’abiezione e della violenza incontriamo anche una straordinaria famiglia di vampiri serial killer cannibali, la cui entrata in scena sembra propedeutica a una seconda stagione della serie. L’attore non professionista che interpreta il rampollo, Nicklas, ha una perfetta faccia da ufficiale delle Totenkopf SS mentre dà il colpo di grazia alle vittime appena fucilate. Viene incaricato dai genitori di eliminare Miu, perché conoscono i suoi non meglio definiti super poteri e la temono. Ma chi può eliminare Miu, che scopriamo essere anche una formidabile combattente di kung fu? Nicklas viene massacrato di botte e gettato nella fossa dei maiali. Si salverà, ma orribilmente mutilato. E ridotto come un invalido, con una maschera di cuoio sul volto sfigurato, deve risvegliare la sorella (interpretata dalla figlia del regista), che è l’unica in grado di batterla. Ma non basta. Miu non è “solo una”, è tante”. Per cui l’unica possibilità è chiamare “i Giganti”.
E qui termina la prima stagione.

L’aspettiamo.
Interessante la colonna sonora, pezzi di elettronica martellanti che ben si collegano con le immagini. E anche il filmato del backstage, con interviste col regista, gli attori, la costumista, i truccatori, le sceneggiatrici, le scene delle riprese, dei trucchi scenici e dei combattimenti. (Su Netflix)