di Franco Pezzini

Silvia Bottani, Un altro finale per la nostra storia, pp. 185, € 18,00, Sem, Milano 2023.

“Era questo l’amore degli adulti? un incendio controllato, che si spegne prima di divampare? Siamo sopraffatti dai debiti, dai morti, dalle abitudini ossequiate, dall’infinita serie di traguardi mancati, e quello che possiamo fare, il meglio che possiamo fare è tentare di avvicinarci gli uni agli altri senza farci troppo male”. E invece a volte – la citazione è a metà libro, quasi a suggerirne una dimensione cardinale – ci facciamo male eccome.

Ogni tanto emergono romanzi che, pur nell’evidente profondità, svelano la caratteristica preziosa di offrire chiavi persino ulteriori, macchine per pensare che ci raggiungono nel tessuto vivo del personale e che magari possono aprire insperati ventagli di provocazioni anche sul collettivo. Come è il caso di questo romanzo di Silvia Bottani, Un altro finale per la nostra storia, che inanella una serie di temi in fondo classicissimi (memoria, assenza, amore/desiderio, amore/controllo e relative frustrazioni…) con grande originalità e una scrittura di enorme eleganza – come emerge fin dalla citazione qui in incipit. Un romanzo, nelle sue scelte di interni ed esterni, profondamente legato alla Milano dell’autrice, che si occupa di arte contemporanea – ma con una curiositas eclettica sulla realtà (si avverte) nel suo complesso.

La mnemotecnica di cui si avvale il quarantenne Mauro Massari, “atleta mentale” dai grandi successi nelle gare di memoria, è la cosiddetta, celebre “tecnica dei loci”, in rapporto con un palazzo della memoria che finisce col costituire un elemento ricorrente in tutto il romanzo. Mauro, padre single (la compagna l’ha lasciato) si sta ritraendo sempre più dalla vita, e quelle gare sono tra le sue poche attività aperte al mondo. Tale assottigliarsi in assenza e quasi pura memoria è del resto in rapporto con un evento chiave della sua vita, la sparizione tanti anni prima del suo migliore amico Fabio Cerutti, che sembra svanito nel nulla. Ma a un certo punto, dopo anni, nella vita di Mauro appare Bianca, sorella di Fabio, decisa a scoprire assieme e tramite lui qualcosa dello scomparso (scomparso – notiamo – il giorno del suicidio di Kurt Cobain, data simbolicissima per una generazione). Fabio è morto? Oppure è vivo e ha fatto semplicemente perdere le tracce di sé? E perché? Inizia così una quest – di cui ovviamente non si spoilera l’esito – che condurrà i due a scoprire qualcosa di spiazzante non solo sui rapporti familiari di Fabio e su se stessi, ma a conoscersi e avvicinarsi pericolosamente, e soprattutto a mettere a fuoco quanto desiderio, sentimenti e in generale la stessa memoria siano nutriti d’immaginazione.

La questione centrale del romanzo è in effetti che la nostra memoria costituisca per una parte importante una ricostruzione narrativa, articolata su alcuni eventi chiave interpretati e glossati in modo piuttosto creativo: non ad avallare, si badi, pelosi revisionismi, ma a verificare quanto delle ricostruzioni soggettivamente sollevate sia non solo pertinente a una realtà ma poi sostenibile nel tempo anche sul piano psicologico. Con la possibilità di trovare altri finali alle storie, uscite di sicurezza prima impreviste, diramazioni magari non ovvie ma praticabili per una riscrittura che permetta di vivere. Illuminando, se vogliamo, anche l’alternativa tra un ricordare al passato – da cui infiniti culti dei morti, a colpi di celebrazioni spesso sterili e magari manipolatorie, visto che il morto non può più sollevare il dito e avanzare puntualizzazioni, a imbastirli in bozzoli per una migliore lottizzazione (di dinamiche familiari, ideologiche, economiche… viene da ricordare quanto scriveva il Rastello de I buoni su un certo culto dei martiri) – e quel ricordare al futuro che invece apre vitalmente strade, fa sporcare le mani nell’esistenza, riconosce chi è scomparso (non necessariamente morto) ancora come partner e provocazione viva ai rimasti.

Certo, le ricostruzioni memoriali valgono quel che valgono, come denuncia a un certo punto la riscrittura di una pagina con minimi ma avvertibili scarti da quanto prima presentato: a suggerire la potenziale fallacia e comunque la libertà almeno in dettaglio di una ricostruzione alla cui precisione pure terremmo. Ma si torna alla dimensione narrativa della memoria: e in fondo il tu della seconda persona su cui è costruito tutto il romanzo, come un dialogo con una quasi-amante, offre il linguaggio del testimone inaffidabile. Impossibile dunque mettere davvero la mano sul fuoco rispetto a quanto narrato in soggettiva da Mauro.

Se poi i personaggi principali muovono qui tutti nel segno dell’assenza – quella conclamata di Fabio, quella progressiva di Mauro, un’altra più discreta di Bianca che ama fotografare quasi a caso per cogliere la fuggevolezza delle cose, e sa allontanarsi in modo inatteso (ma assenti sono anche, in modo diverso, i familiari di Fabio) – è inevitabile riflettere su come si tratti di una condizione con cui ci rapportiamo quotidianamente. Esperienze come il lockdown hanno assottigliato fin troppi rapporti al mero piano virtuale, di assenza fisica: i dati sui suicidi del periodo sono rimasti nebulosi, le politiche dichiaratamente per far fronte a crisi, pandemia e guerra ci hanno lasciati tutti più evanescenti, prigionieri di ricostruzioni spesso imposte a suon di telegiornali (e magari in balia di tentativi goffi o pelosi di ricostruzioni alternative) e recuperare una dimensione di presenza effettiva alla vita è oggi spesso più faticoso e meno ovvio. D’altra parte le antiche formule sapienziali del memento mori assumono oggi sempre più la connotazione tutta laica di un prefigurare il mondo dopo di noi – figli e partner (di vita, di lavoro…) che sanamente si autonomizzano e si smarcano dal nostro fantasma, attività che chiudono, lavori che restano interrotti. Quanti libri sono frutto del penoso rimestare nei cassetti di uno scomparso, tentando di ricostruire voci che ormai ci vengono negate?

Ovvio, c’è un’alternativa, rappresentata dal losco zio – insediato in una casa-museo che è quasi l’antitesi del palazzo della memoria di Mauro – che l’autrice si è divertita (ha ammesso) a immaginare un po’ come Mario Praz. L’unico anziano di famiglia a non biasimare la scelta di Fabio, a cui aveva passato la grammatica simbolica per quel gesto, e a intuire i retromotivi di lui e degli altri protagonisti: ma si tratta di una comprensione meramente cerebrale, visto che della memoria fa un sostanziale e sprezzante oggetto di potere sugli altri, mentre la persona del nipote non gli interessa. È un altro modo, in sostanza, di vivere il ricordo.

Fabio è sparito, un’intera famiglia lo archivia nel passato distrutta dalla sua scelta (ecco il tema del dolore – magari devastante, sensi di colpa annessi – quando per fedeltà a noi stessi facciamo esplodere le attese di chi ci vuol bene), Bianca invece vorrebbe capire e cerca l’amico più caro del fratello. Uno sciamano della memoria che però si trova incapace di offrirle un vero aiuto. Anche perché Fabio non è solo l’Assente perfetto, su cui indagare con appropriate mnemotecniche. È anche – in modi diversi – il Desiderio, strappato come Ganimede verso qualche Altrove. E se la memoria è fatta, in fondo, della stessa stoffa dell’immaginazione, legittimo chiedersi se il medesimo materiale non sostanzi anche desiderio e amore, in un intreccio dove tutto si tiene insieme e il nostro continuo narrare & narrarci (perché le cose importanti si raccontano, magari nel linguaggio vicario e mascheratissimo della letteratura, che offre fictio per dire la verità) risponde forse anzitutto a quell’urgenza. Cercando sollievo alle ferite inferte dai nostri desideri e contraddizioni, dalle frustrazioni, appunto dai sensi di colpa. E allora la memoria rende evidente una dimensione di sentimenti ed emozioni che se eruttano dovranno trovare poi composizione, almeno a sollievo fisico e psicologico, in attesa di scrivere con calma un altro finale.

Tagged with →