di Paolo Lago

Diabolik – Ginko all’attacco! (2022) dei Manetti Bros, secondo capitolo della trilogia dedicata dai registi al personaggio di Diabolik, inizia con un’incursione del ‘sovvertitore’ protagonista nella sala del museo nazionale di Ghenf per rubare la preziosissima corona di Armen. Dopo aver messo fuori uso i sistemi di sicurezza della stanza blindata, Diabolik riesce a penetrare all’interno di essa per impadronirsi del gioiello. Il museo del film, che nella realtà è il santuario mariano di Trieste, appare come un geometrico blocco di cemento che si erge al di sopra della città, emblema di un potere granitico ed opprimente. Ma Diabolik riesce a penetrare all’interno del suo “sancta sanctorum” (trattandosi, nella realtà, di un santuario, l’espressione può risultare appropriata). Una volta che il sistema d’allarme si è messo in funzione, i guardiani, accorsi, si trovano paradossalmente chiusi al di fuori della stanza in cui è custodita la corona. Padrone dello spazio più intimo e segreto del potere, laddove esso custodisce i suoi tesori più preziosi, è adesso Diabolik. In un rovesciamento di situazioni, i guardiani sono chiusi fuori e dovranno usare la dinamite per sfondare la stanza nella quale si trova il misterioso ladro. Ma quest’ultimo appartiene inesorabilmente al ‘fuori’ e, non appena le guardie riescono a penetrare nella stanza, Diabolik sta già volteggiando col suo deltaplano sulla città notturna, lontano dalle rigide geometrie del palazzo che, nelle inquadrature notturne dei Manetti Bros finisce per assomigliare quasi ai palazzi della Los Angeles del futuro di Blade Runner (1982) di Ridley Scott.

Al potere rigido e granitico, simboleggiato dal geometrico edificio, Diabolik (ben interpretato da Giacomo Gianniotti, che subentra a Luca Marinelli) oppone il proprio corpo leggero ed etereo, nero ed oscuro, divenuto quasi invisibile nella notte. Rispetto al precedente film dei due registi, adesso, è il corpo del fuorilegge ad assumere peculiari valenze sovversive e non lo spazio (cfr. quanto ho scritto in Diabolik, un’estetica dello spazio sovversiva, su “Carmilla”). In questo secondo capitolo della progettata trilogia, ispirato all’albo n. 16 dell’aprile 1964, sceneggiato da Angela e Luciana Giussani e disegnato da Enzo Facciolo, l’ispettore Ginko (sempre un bravissimo Valerio Mastandrea che, come il personaggio dei fumetti, fuma la pipa e si sposta in Citroën DS), grazie ad un trucco, riesce a violare gli spazi segreti di Diabolik sottoponendo alle dinamiche del controllo tutti gli oggetti in essi presenti. Così, la stessa auto del fuorilegge, la famosa Jaguar, che in precedenza era sempre stata il mezzo imprendibile e misterioso delle sue fughe, finisce, intrappolata e bloccata, sotto lo sguardo dell’ispettore e degli agenti (così come anche tutti i suoi strumenti e i suoi trucchi) mentre la refurtiva accumulata in anni di rapine viene sottoposta ad un’opera di controllo e di catalogazione. Il misterioso tunnel mimetizzato nella montagna e i suoi cunicoli serpentini sono adesso solcati dalle strutture poliziesche del potere che prendono possesso di tutti quei luoghi che prima erano stati il cuore pulsante della sovversione. Ginko e i suoi uomini riescono a penetrare perfino nel luogo dove il fuorilegge costruisce le sue maschere, una vecchia fabbrica abbandonata alla periferia di Clerville. Quest’ultima è uno spazio del ‘fuori’ che lambisce i rigidi spazi cittadini, incapsulati nella geometricità dello stesso ordine borghese che domina anche le fattezze del museo di Ghenf nelle sequenze iniziali. La misteriosa fucina delle mascherature di Diabolik non si trova in lontane periferie ma si materializza appena girato l’angolo di una razionale e ordinata strada cittadina. È al di là dell’ordine ma lo lambisce continuamente, lo sfiora, gli vive accanto di nascosto.

Se i luoghi della sovversione di Diabolik, adesso, vengono occupati e presidiati dal potere, al fuorilegge non rimane perciò che cercare un altro spazio sovversivo nel suo stesso corpo. È quest’ultimo a trasformarsi nell’estremo rifugio resistente da opporre a un potere che lo sta braccando. Non è un caso, infatti, che sulla copertina dell’albo n. 16 al quale si ispira questo nuovo film dei Manetti Bros compaia in primo piano il corpo di Diabolik che cerca di liberarsi dalle catene con le quali è legato, mentre dietro di lui vediamo Eva Kant che sembra quasi guardargli le spalle. Quando le “eterotopie” sovversive del fuorilegge vengono scoperte e catalogate, geometrizzate, imprigionate nelle canalizzazioni controllate dal potere poliziesco, è allora il corpo che si trasforma in luogo, che si trasforma in spazio perché esso, come osserva Michel Foucault, è “il piccolo frammento di spazio col quale letteralmente faccio corpo”1. E se, apparentemente, il corpo, trasformatosi in luogo, potrebbe sembrare il contrario di un’utopia, esso, invece, è in tutto e per tutto “un corpo utopico”: “No, veramente non c’è bisogno né di magia né di fiaba, non c’è bisogno né di un’anima né di una morte perché io sia insieme opaco e trasparente, visibile, invisibile, vita e cosa: per essere utopia basta essere un corpo”2. Ed ecco che all’interno della finzione favolistica e fumettistica creata dai registi, il corpo di Diabolik diventa visibile e invisibile, contemporaneamente luogo e non luogo, utopia che si oppone al grigiore stanziale degli apparati di potere.

Privato dei suoi luoghi sovversivi, Diabolik percorre nella fuga spazi aperti nei boschi e sul ciglio di torrenti impetuosi, fra rocce e pietre: allora, il suo corpo utopico (l’utopia di chi mai vuole arrendersi al potere) sembra fondersi quasi con la natura ostile che lo circonda. Mentre lui ed Eva Kant (sempre interpretata dalla brava Miriam Leone) si muovono agili nelle impervie spazialità del ‘fuori’, l’ispettore Ginko e i suoi agenti sono irrigiditi e impediti. La stessa Eva Kant, per sfuggire alla cattura, si getta nel fiume impetuoso riuscendo quasi a fondersi invisibilmente con lo spazio naturale. I due fuorilegge, infatti, appartengono alla dimensione del ‘fuori’ opponendosi, in tal modo, alle strutture del potere che sopravvivono solamente nel ‘dentro’. Ginko e i suoi uomini – per utilizzare dei termini di Deleuze e Guattari – scovando e occupando i covi di Diabolik, hanno “riterritorializzato” gli spazi sovversivi. Come osserva David Lapoujade, infatti, i due studiosi, in Mille Piani, descrivono un processo secondo il quale “gli Stati imperiali si sedentarizzano su una Terra. Deterritorializzano i territori primitivi per formare l’unità di una terra”3. L’apparato di potere, come gli stati imperiali, si impadronisce del territorio nomadico trasformandolo in spazio sottoposto al controllo. Quest’ultimo, per utilizzare un’espressione dello stesso Lapoujade applicato alla società contemporanea, diviene “un mondo senza fuori4.

D’altra parte, il corpo di Diabolik è invisibile e sovversivo anche in virtù della sua abilissima capacità di mascherarsi, di assumere le più disparate identità. In questo secondo episodio della trilogia, il personaggio sembra prediligere il mascheramento da poliziotto che egli riesce ad attuare nonostante sia stato ‘occupato’ dalla stessa polizia il luogo segreto nel quale costruiva le sue maschere. La dimensione ‘fumettistica’ dell’irreale (e iperreale, si potrebbe aggiungere, nel suo ricalcare filologicamente l’Italia degli anni Settanta) mondo di Clerville crea un vero “paese di fiaba” “in cui si è visibili quando si vuole, invisibili quando lo si desidera”5. È assumendo le sembianze di un poliziotto che Diabolik riuscirà a sabotare il piano apparentemente perfetto dell’ispettore Ginko (ma sulla trama non vorremmo davvero rivelare di più). Il fuorilegge è perciò invisibile mentre è visibile il tutore di quella stessa legge, colui che ne è dentro quanto Diabolik ne è fuori. Come scrive Andrew Culp, uno studioso che rilegge ‘in nero’ il pensiero di Deleuze, citando una frase da Cinema 2. L’immagine tempo, “usciremo dalla logica produttivista dell’accumulazione solo quando si sarà giunti «infine alla scomparsa del corpo visibile».”6. Il “corpo visibile” del fuorilegge è scomparso; visibile è invece il corpo ‘fiabesco’ del tutore della legge, un simulacro che agisce contro quella stessa legge. Perché, in definitiva, sotto la mascheratura c’è sempre il corpo sovversivo di Diabolik che trama contro il potere per mandarlo in tilt, per sottrarre le sue ricchezze accumulate da una logica produttivista, basata su un lavoro incessante, e trasferirle nel suo covo, in uno spazio notturno dove quelle stesse ricchezze servono per soddisfare la logica dell’ozio e del piacere fine a sé stesso.

Il corpo invisibile di Diabolik era entrato in azione anche in precedenza, nella prima parte del film quando, sempre con una mascheratura da poliziotto, aveva attaccato l’elegante teatro, spazio dello spettacolo borghese per eccellenza. In esso, ad assistere al “Balletto smeraldo”, era riunita tutta la ‘società bene’, gli esponenti del potere, mummificati ed estasiati di fronte all’esposizione delle ricchezze accumulate da quello stesso potere che grava sulla ‘fiabesca’ Clerville come sulle grigie strutture dell’Italia degli anni Settanta (nonché di quella di oggi). Diabolik, invisibile e sovversivo, appare diretto verso il ‘fuori’, al di là della dimensione spettacolare, poliziesca, catalogante, geometrica ed inquadrata degli apparati di potere di una società basata sull’accumulo di merci. Al di là e contro qualsiasi inganno che quel potere può ordire contro di lui. Sfugge a controlli e catture, a trappole e inganni, perché il suo corpo possiede già in sé prima quelle stesse trappole e quegli stessi inganni; perché è un corpo invisibile e sovversivo.


  1. M. Foucault, Il corpo utopico, in Id., Utopie Eterotopie, a cura di A. Moscati, Cronopio, Napoli, 2011, p. 31. 

  2. Ivi, p. 38. 

  3. D. Lapoujade, Deleuze. I movimenti aberranti, a cura di C. D’Aurizio, Mimesis, Milano-Udine, 2020, p. 224. 

  4. Ivi, p. 259 

  5. M. Foucault, Il corpo utopico, cit., p. 33. 

  6. A. Culp, Dark Deleuze, a cura di F. Di Maio, Mimesis, Milano-Udine, 2020, p. 83.