di Gioacchino Toni

Quello ricostruito da Marco Teatro, La guerra dei segni. Un’altra storia dell’arte (Agenzia X, 2021), è un prezioso universo di segni di conflittualità nei confronti della cultura dominante. Segni che non mancano di riaffiorare, anche a distanza di tempo, nelle nuove esperienze underground o nell’universo culturale mainstream contemporaneo ove i cambi di casacca dei protgonisti si fanno repentini e forse mai definitivi, e in cui le strutture del sistema arte e di costruzione dell’immaginario collettivo si sono aggiornate ed affinate con un affanno che lascia inevitabilmente aperti interstizi e bug che ne possono compromettere il funzionamento.

Sull’onda delle celebri Vite vasariane, anche La guerra dei segni traccia il suo racconto dell’arte, in questo caso esclusivamente figurativa e realtivamente al solo suo underground side, a partire dalle vite dei singoli protagonisti. Se il volume cinquecentesco attorno alle biografie degli artisti sviluppava un’analisi delle modalità espressive succedutesi nell’arco di circa due secoli e mezzo, il libro di Teatro ricorre alle vite dei protagonisti tanto per verificarne ed esplicitarne l’appartenenza all’universo underground, quanto per individuarne i reciproci collegamenti nel tempo e nello spazio.

Ad essere ricostruito è l’ondivago percorso che nel corso del tempo e delle specifiche storie individuali ha visto questi protagonisti dell’universo underground oscillare tra il sistema dell’arte ufficiale e il rifiuto od il disinteresse di farne parte e tra le lusinghe, i respingimenti e le benevolenze ritardate del sistema stesso nei loro confronti.

Quello proposto da Teatro è un percorso reticolare in cui individualità o piccoli gruppi si sviluppano a macchia di leopardo salvo poi intrecciarsi con altre esperienze originatesi altrove per contaminazione o in maniera relativamente autonoma.

Il volume si apre nei garage californiani degli anni Cinquanta, tra decoratori e customizzatori di automobili e motociclette come Von Dutch (Kenneth Robert Howard) e Ed “Big Daddy” Roth che influenzano con le loro estetiche ambiti che vanno ben al di là di quelli motoristici, in un epoca segnata dalla guerra fredda che non manca di investire l’ambito artistico in quanto ingranaggio importante della macchina di costruzione dell’immaginario.

Uno snodo importante è rappresentato dalla scena controculturale e dall’universo psichedelico californiani da cui derivano grafiche innovative. Ad essere presi in esame sono illustratori come Wes Wilson, Stanley George Miller (Stanley Mouse), Alton Kelly, Rick Griffin, Victor Moscoso, Lee Conklin e Jim Franklin. Dal medesimo panorama culturale si sviluppa un’editoria underground, prende il via l’autoproduzione delle prime fanzine che contribuiscono a far circolare grafiche e fumetti di autori come Basil Wolverton, Robert Crumb, Gilbert Shelton, Ron Cobb, Spain Rodriguez, Trina Robbins, Steve Clay Wilson, Greg Irons, Robert Armstrong, Rory Hayes e Richard Corben.

Per quanto riguarda l’underground europeo il volume si sofferma su autori quali Hans Rudolf Giger, Martin Sharp e Alan Aldridge. Lo svizzero Giger, padre dei biomeccanoidi, ha prestato il suo estroso immaginario alla saga cinematografica Alien, oltre che ad aver contribuito, con un suo celebre inserto, a far mettere all’indice negli USA e in UK l’album Frankenchrist (1985) dei Dead Kenedys. Sharp è invece l’illustratore di origine australiana, poi trasferitosi a Londra, artefice dell’avventura inglese di «OZ» e di importanti collaborazioni con il mondo musicale dell’epoca, così come farà Aldridge.

In ambito italiano le origini dell’underground vengono fatte risalire nel volume verso la metà degli agli anni Sessanta attorno a «Mondo Beat», con i lavori di Matteo Guarnaccia, fondatore nel 1970 della rivista psichedelica «Insekten Skete» e del grafico Max Capa (Nino Armando Ceretti), autore nel corso degli anni Settanta di riviste come «Puzz», «Provocazione», «Apocalisse» e «Flashback».

Un rapido cenno è dedicato all’esperienza underground in Unione Sovietica portata avanti da autori come Aleksandr Melamind e Vitalij Komar alle prese con un controllo repressivo difficilmente eludibile.

Il libro passa poi ad indagare una serie di esperienze tra Stati Uniti ed Europa. Primo tra tutti il disegnatore Vanughn Bodé, che non manca di schierare i suoi ramarri contro l’intervento militare statunitense in Vietnam per poi evolvere la sua produzione verso una contaminazione tra fumetto underground e writing. Dunque è la volta di Eric Orr, realizzatore di grafiche per la scena hip hop da cui deriva negli anni Ottanta una fortunata serie di fumetti.

Una sezione importante è poi dedicata alla grafica e all’estetica punk con relativi manifesti, locandine, cover di dischi e punkzine. Tra gli autori trattati nel volume vi sono Jamie Reid, autore delle celebri cover dell’album Never Mind the Bollocks (1977) e del singolo God Save the Queen (1977) dei Sex Pistols, Raymond Pettibon, adottato dall’universo punk tanto da essere impiegato nelle cover dei dischi Six Pack (1981) e Police Story (1981) dei Black Flak, Winston Smith, creatore del logo dei Dead Kennedys e della copertina del loro album In God We Trust (1981), oltre che di Insomniac (1995) dei Green Days. Non poteva mancare uno spazio dedicato a Gee Vaucher a cui si devono le grafiche dei radicali e coerenti Crass. Con John Holmstrom e i fratelli Hernandez si giunge poi all’incontro del fumetto con il punk.

Il volume si occupa anche dell’arrivo (ritardato) in Italia delle grafiche e dei fumetti underground statunitensi. Ed a proposito del panorama italiano viene riservato spazio a una serie di autori – Stefano Tamburini, Tanino Liberatore, Filippo Scòzzari, Massimo Mattioli ed Andrea Pazienza – che si intrecciano, a vario titolo, con la vita di riviste come «Combinazioni», «Cannibale», «Re Nudo», «Il Male» e «Frigidare».

Dunque è la volta dell’ambito sudamericano di fumettisti e illustratori, come Héctor Germán Oesterheld, Alberto Breccia e José Muñoz e di autori americani o europei che non disdegnano di operare ricorrendo al détournement di matrice situazionista o, ancora, personalità come Joe Coleman, Keith Haring, Carlos Rodriguez (Mare 139), Jean-Michel Basquiat, A-One (Anthony Clark) e Professor Bad Trip.

Un poderoso capitolo è riservato all’Arte di strada, dal writing alla scoperta dei graffiti da parte del mercato artistico. Per la scena americana vengono approfonditi Cornbread, Phase 2, Super Kool 223, T-KID, Chaz Bojorquez e Twist (Barry McGee), mentre per quella europea si approfondiscono le produzioni di Ateier Populaire, Don Leicht, John Fekner, Futura 2000, Blek le Rat, Speedy Graphito, Miss Tic, Jef Aérosol, LOKISS, Mode 2, Les Nuklé-Art, Banlieu-BanlieuThierry Noir, oltre a quelle proposte dalla scene di Amsterdam e del muro berlinese. Per quanto riguarda il contesto italiano vengono indagati gli ambiti della stencil art, dei serigraffiti, dell’Open Art Studio con Atomo, Swarz, Shah, e, ancora, Giacomo Spazio, Francesco Garbelli, Pao, DeeMO, CK8 e Pea Brain.

Un capitolo è dedicato all’arte di fine millennio con l’underground che conquista le gallerie (e viceversa), esempi di giornalismo illustrato, individualità artistiche e festival organizzati come HIU (dal 1993) nell’ambito dei Centri sociali milanesi e Crack! del Forte Prenestino romano.

Il volume si chiude con una sezione dedicata alla Street Art a partire dalle sue origini, passando per la scena di Bristol, dunque a quella internazionale fino all’Urban art con il nuovo muralismo e la propensione al gigantismo. In questi casi la rassegna avviene a “vernice ancora fresca”, nel pieno di un dibattito ancora acceso. [Su Carmilla:  1  2  3  4]

In conclusione, la grandezza e la forza dell’underground pare oscillare tra due miti estremi: da un lato il suo ostinato perpetuarsi tale in contrapposizione o in sottrazione al mainstream e dall’altro il volersi mantenere alternativa ad esso soltanto a tempo determinato mirando ad anticipare ed incidere sul mainstream e con esso su un ambito sociale e culturale più allargato.

Sospeso tra la volontà di essere un mezzo e quella di essere un fine, di certo l’universo underground, con tutte le sue contraddizioni, nasce da una oggettiva necessità espressiva, una necessità che ha attraversato il secondo Novecento ed è giunta fino ai nostri giorni che ha trovato nel do it yourself – ben da prima che il punk lo esprimesse con consapevolezza – la sua parola d’ordine che ovviamente non risolve, non potendo farlo, le contraddizioni di un sistema da cui non sembra possibile emanciparsi per sottrazione.

È forse nel dare a necessità immediate un soddisfacimento altrettanto immediato che va individuata la portata politica eversiva dell’underground e La guerra dei segni, nel suo tratteggiare un’altra storia dell’arte – non a caso a partire dalle vite dei suoi protagonisti – ne offre una panoramica preziosa.


Estetiche inquiete serie completa su Carmilla

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