di Ottone Ovidi

Non è la prima volta che il regista francese Jean-Gabriel Périot si confronta con la storia europea del secondo Novecento attraverso il riutilizzo di materiale audiovisivo già girato, ma ridefinendolo con nuovi significati, riplasmandolo per nuove chiavi di lettura, stravolgendolo nelle emozioni intime e nella rappresentazione dei rituali collettivi. Un regista-montatore, dunque, che trova il suo spazio d’azione in quello che su «Le Monde» Mathieu Macheret ha definito “il cinema senza videocamera”. Périot ci aveva già provato in occasione del cortometraggio Eût-elle été criminelle (2006), sul castigo delle collaborazioniste nella Francia appena liberata, e del lungometraggio Une jeunesse allemande (2015), dedicato alla storia della Raf tedesca. Con la sua ultima opera presentata a Cannes, il regista-montatore si concede un’operazione più ambiziosa: il racconto della classe operaia in Francia, sia dal punto di vista politico ed economico, che culturale e privato. Il regista utilizza come base di partenza l’omonimo saggio fortemente autobiografico di Didier Eribon (Retour à Reims, Fayard, 2009, pubblicato in Italia da Bompiani, 2017), dal quale seleziona gli ampi monologhi letti da Adèle Haenel che accompagnano le immagini.

In occasione della morte del padre, Eribon torna nella città di origine, in quel nord-est della Francia un tempo roccaforte del Partito comunista e oggi stravolto da crisi economica e deindustrializzazione. Un “ritorno a casa”, dunque, dalla quale Eribon si era allontanato a causa principalmente del rapporto con il padre che non voleva accettare in nessun modo l’omosessualità del figlio. Questo padre, che l’autore non nasconde di aver odiato, diventa esempio paradigmatico dell’universo valoriale della classe operaia e delle sue contraddizioni. Per l’autore, il “ritorno a casa” è il punto di partenza per cominciare a riflettere prima sulle dinamiche della dominazione, della subalternità e sull’evoluzione della famiglia nel contesto operaio francese, quindi più in generale sui cambiamenti della società francese e sulle coordinate politico-culturali del mondo operaio.

Le immagini sono il frutto di un attento lavoro di selezione tra decine di documentari, reportage televisivi d’epoca e documenti privati provenienti da diverse istituzioni tra cui, solo per citarne qualcuna a titolo esemplificativo, l’Institut national de l’audiovisuel, gli archivi Lobster, i Ciné-archives, la Cinémathèque de Bretagne. Vengono inoltre utilizzati anche estratti da alcuni classici del cinema francese, come Zéro de conduite di Jean Vigo (1933), Le joli Mai di Chris Marker e Pierre Lhomme (1962) e Tout va bien di Jean-Luc Godard e Jean-Pierre Gorin (1972).

Sulla scorta del libro, il film tenta di mantenersi in equilibrio tra l’analisi sociologica della classe operaia e del suo percorso di costruzione in soggetto politico consapevole, e l’esposizione del suo immaginario sociale e la sua rappresentazione pubblica. In mezzo, la dimensione privata, familiare, generazionale dei singoli attori. In questo senso, tre possono essere le chiavi di lettura con cui analizzare il film.

La prima, la parabola politica della classe operaia francese passata dal votare comunista al votare per il Front national. Questa parabola è ben evidente nella struttura in due atti in cui può essere suddivisa l’opera. Nel primo atto troviamo la fase costruttiva dell’identità della classe operaia, le sue lotte e la sua contrapposizione al mondo borghese, mentre nel secondo atto viene evidenziata la fase della disgregazione, della crisi economica, del razzismo, del voto all’estrema destra. Il momento spartiacque in questo processo è rappresentato dalla presidenza Mitterand (1981): alle grandi speranze che avevano accompagnato il voto operaio ai socialisti, segue invece l’avvio, con il consenso e il supporto del mondo intellettuale e politico della sinistra francese, della fase neoliberista, a cui si accompagna la “scomparsa” del mondo operaio dal “palcoscenico” della società.

La seconda chiave di lettura è rappresentata dal processo di riavvicinamento di Eribon al suo mondo d’origine. Il film cerca di accompagnare questo processo attraverso la preferenza accordata alla dimensione familiare rispetto alle considerazioni teoriche e filosofiche presenti nel libro. Se da una parte Eribon manifesta più volte la “volontà di comprendere”, Reims rimane un “paese lontano”. Non si percepisce alcuna nostalgia verso quel mondo da cui si era allontanato e che non capiva le sue scelte affettive e i suoi studi in filosofia. Da questo punto di vista, la distanza non verrà mai colmata veramente.

La terza è rappresentata dal rapporto tra la dimensione privata e quella politica. A differenza del libro, Périot si concentra molto sulle figure femminili di questo mondo operaio, schiacciate all’interno di una cultura allo stesso tempo rivoluzionaria e patriarcale, dove le donne hanno i loro ruoli ben definiti da rispettare e che ben presto “smettono di sognare”. A tal proposito, esemplificative le interviste alle donne, operaie e casalinghe, che accompagnano i dialoghi tra Eribon e la madre. Se infatti è fin da subito chiaro che le donne che si alternano sullo schermo e la madre di Eribon siano persone diverse, non si può fare a meno di ritrovare tra di loro una comunanza di emozioni, sentimenti ed esperienze tali da farci immaginare che si tratti sempre della stessa persona.

Nel finale, Périot si allontana dal libro e si concede una forzatura. Il film si chiude infatti con il montaggio di immagini provenienti dalle lotte politiche degli ultimi anni in Francia, dalla Nuit debout al movimento dei Gilets jaunes, da #Metoo a Justice pour Adama, nel tentativo di legare l’attualità alla storia della classe operaia novecentesca. È la parte del film che si presta alle maggiori critiche, come segnalato da Bastien Gens su «Critikat». Questo tentativo di analisi è già presente nelle riflessioni di Eribon, quando tenta di trovare un senso al voto della madre per l’estrema destra: non si tratterebbe di un’adesione reale all’universo valoriale neofascista, ma di una forma di quello che nei paesi francofoni viene definito dégagisme, rivolto a una classe politica ostile e lontana. Il risultato è la convinzione per Eribon che sia presente nel mondo operaio una sorta di “incosciente collettivo”, in grado di condizionarne le scelte pur in assenza di definite strutture politiche di riferimento. Seppure comprensibile nelle intenzioni, questa specifica operazione in Périot risulta però forzata e meccanica. Nonostante ciò, Retour à Reims [fragments] centra l’obiettivo di ripoliticizzare l’esperienza personale, riattualizzando lo slogan del femminismo degli anni Settanta “il personale è politico”, laddove nella nostra contemporaneità “il personale” tende sempre più a coincidere con “l’individuale”.