di Walter Catalano

Anche questa volta avrei dovuto, come di consueto, scegliere una serie TV di argomento fantastico o fantascientifico, guardarla e scriverne. Inaspettatamente e con qualche imbarazzo, negli ultimi mesi, non sono riuscito, con tutta la mia buona volontà, a trovarne nessuna che meritasse un minimo di attenzione. Molte invece ne ho scoperte una più brutta dell’altra. Ho deciso quindi di infrangere il canone abituale e, invece di soffermarmi sui pregi di una serie “bella”, di compilare una breve classifica di serie “brutte e bruttissime”, serie da evitare prudenzialmente o da frequentare a proprio rischio e pericolo. Una sorta di cartello indicatore come quello affisso nei mercati e nelle botteghe dell’antica Roma dove si leggeva: Caveat Emptor, “Stia in guardia l’acquirente”.

Consapevole del fatto che un’impostazione così categorica sia foriera di polemiche e discussioni senza fine, convengo preventivamente che – tanto per insistere con le citazioni classiche – de gustibus non est disputandum e pertanto ciò che è brutto per me potrebbe essere, non dico bello, ma comunque meno brutto per un altro. In ogni caso, oltre un certo margine soggettivo, sono ugualmente convinto che si possa sempre, a grandi linee, convergere se non sulle sfumature almeno sull’essenza della questione: con volgarissima metafora (dato il tema prendiamo due attori, maschi, per sicurezza…), nessuno mai sosterrebbe che Woody Allen è un adone, né che Brad Pitt è un cesso; i gradi intermedi sono, per fortuna, infiniti.

Seconda puntualizzazione: ho un pessimo carattere, non ho tempo né pazienza, quando mi è capitato – per fortuna non spesso – di selezionare racconti per qualche antologia, la lettura di quelli che avrei scartato non andava mai, ad essere generosi, oltre la prima pagina. Come diceva Julio Cortàzar, grande appassionato di boxe, in letteratura non è possibile vincere ai punti ma solo per knock out: non esiste una seconda possibilità. Così, a maggior ragione, è raro che di una serie “brutta” abbia visto più di una puntata (il cosiddetto pilot), al massimo due: errare umanum, perseverare diabolicum (a questo punto sdiamoci coi latinismi…).

” Non basta per giudicare…” contesterà allora a gran voce l’inviperito lettore. Basta e avanza invece, rispondo io, se non hai tempo né pazienza.

Cominciamo dunque la promenade delle più brutte (serie TV) del Reame.

Al primo posto, sovrana e ineguagliata, la tanto attesa e in proporzione altrettanto catastroficamente deludente Foundation. Tratta dall’epopea forse più amata della fantascienza tutta, l’unica ben nota, con il suo autore Isaac Asimov, anche ad un pubblico generalista di non seguaci del genere. Prodotta da David S. Goyer per Apple TV+ e interpretata da attori anche bravi come Jared Harris (memorabile in Mad Men, The Expanse, The Terror, Chernobyl), la saga viene però cucinata come un polpettone immangiabile, tematicamente semplificata e banalizzata all’eccesso sottraendo tutta la complessità e la stratificazione dell’opera asimoviana, e figurativamente ridotta ad una serie di luoghi comuni abusati fino alla nausea: le solite città del futuro, le solite astronavi, i soliti costumini attillati e luccicanti o scafandri-cimiero minacciosi, i soliti pianeti orbitanti con la musichetta (per fortuna almeno non più An der schönen blauen Donau)… Che palle! (lasciatemelo dire…). La scrittura è farraginosa e involuta, i dialoghi banali, il ritmo esasperante. Insignificanti anche gli attori – perfino il povero Harris mal diretto – e idem la regia, insignificante tutto. Con supremo sadismo la produzione minaccia ben 80 episodi del pastrocchio, io ne reggo a fatica uno solo, il pilot, e ci metto, senza se e senza ma, una pietra sopra.

Al secondo posto un’altra serie prodotta da Apple TV+ che si aggiudica in questo modo la palma, anzi la sola, d’oro della peggiore casa di produzione-distribuzione dell’etere: ribattezziamola “tutto fumo e niente arrosto”. Sto parlando di Invasion, incautamente realizzata da Simon Kinberg e David Weil che nell’illusione di riscattarsi dai vari film degli X-Men sceneggiati dal primo e da brutture come la serie Amazon Hunters (dove perfino Al Pacino sembrava un guitto) realizzata dall’altro, si abbandonano ad un vuoto florilegio compensativo di velleità autoriali e pretese intellettuali. Il bugiardino Apple definisce la serie “travolgente”, ma l’unica cosa che travolge davvero l’improvvido spettatore è solo la noia, assoluta e mortale. Supero infatti io stesso ogni record e non riesco a finire nemmeno il pilot: ho già capito tutto fin dalle prime scene, quando arrivano l’austronautessa giapponese sottotitolata in inglese, la storiella romantica con le lesbiche, la moglie – siriana ma colta – in lacrime mentre guarda dalla finestra il marito che si ingroppa un’altra… Aiuto !  Invasione? E di che? Dopo la scena iniziale nel deserto mi aspettavo, come minimo, Cthulhu. E invece ? Storielline di corna, di amori infranti, di studenti londinesi epilettici e bullizzati, di iperpalestrati soldati afroamericani in crisi d’identità in Afghanistan. Ok, ma non c’erano gli alieni ?  A parte la banalità dei personaggi e delle situazioni – presuntamente esistenziali e colte, a base di immancabili ingredienti come lesbiche innamorate, mercenari burberi benefici, mogli traumatizzate dal compagno fedifrago e, magari chissà, aspirante femminicida, adolescenti fragili alla deriva – cosa c’entra la cornice fantascientifica ? Perché vendere una merce per un’altra, spacciare una soap opera per un fantahorror ? Narrativa di genere per ellissi: sarebbe davvero sofisticata se non mancasse sia il soggetto che il predicato. Già l’inner space ballardiano raccontava l’alienità del nostro mondo, la deriva cosmica del qui e ora, ma senza mai tradire i presupposti dell’immaginario speculativo e soprattutto senza la minima concessione a facili e mielosi sentimentalismi. Una fantascienza priva dei luoghi comuni della fantascienza: qui al contrario restano i luoghi comuni e manca la fantascienza. Budget molto ricco, tra l’altro, ottima fotografia, belle scene, una mega produzione: soldi sprecati.

Al terzo posto ma con un livore particolare da parte mia, perché sono dovuto arrivare all’ultimo episodio – sì confesso: questa l’ho vista tutta – per rendermi conto di che schifezza fosse, Midnight Mass realizzata per Netflix dal turpe Mike Flanagan. Dico turpe perché il regista in genere parte, in molte delle sue opere, sul piede giusto, fa ben sperare e poi inverte la rotta e rovina tutto. Chi mi legge ricorderà forse che avevo parlato positivamente, qualche tempo fa, della sua trasposizione di Hill House, ispirato al capolavoro di Shirley Jackson. In effetti, a parte il finale buonista che snatura completamente lo spleen jacksoniano, mi era sembrata una versione del tutto infedele ma in sostanza rispettosa e tutt’altro che spregevole (certo ben poca cosa in confronto al grande film di Robert Wise Gli invasati, ma un vero capolavoro in confronto al film porcheria, The Haunting-Presenze con Liam Neeson, inutile fare il nome del regista per questioni igieniche): un lavoro complessivamente equilibrato nella destrutturazione di un classico da affrontare sempre con soggezione. Ugualmente mi era piaciuto Il gioco di Gerald, tratto da un romanzo minore di Stephen King tutt’altro che facile da mettere in scena. Se forti dubbi su Flanagan si erano però già prospettati nel finale di The Haunting of Hill House, la seconda stagione The Haunting of Bly Manor, che violenta un iperclassico come Il giro di vite di Henry James, non ha fatto che confermarli e esasperarli. Se Hill House quantomeno conteneva, insieme a una certa dose di paccottiglia, anche momenti validi, una tensione costante e una serie di jump scare notevoli, Bly Manor sprofondava invece nel sentimentalismo trito e nella magniloquenza ampollosa: una storiellina romantica con qualche fantasma, zero paura, zero tensione, zero idee. Il romanzo The Turn of the Screw conta, per di più, una gloriosa e impegnativa tradizione di versioni cinematografiche – fedeli e no – ragguardevoli o comunque interessanti: dal capolavoro di Jack Clayton The Innocents (1961) con un’eccelsa Deborah Kerr, all’insolito prequel The Nightcomers (1971) di Michael Winner con Marlon Brando, fino alla recentissima e a mio giudizio ottima produzione canadese The Turning (2020) di Floria Sigismondi (già video clipper di Marilyn Manson), caratterizzata da una regia e un’interpretazione da parte di attori tutti giovanissimi, di eccezionale qualità – il “caruccio” di Stranger Things Finn Wolfhard, nel ruolo di Miles, l’adorabile Mackenzie Davis già in Black Mirror, come istitutrice, ecc. – e da un’ambientazione contemporanea che, una volta tanto, non stride con il contenuto. Il Bly Manor di Flanagan precipita ovviamente all’ultimo posto: strampalato melò spiritico più che gotico morboso. Henry James e Shirley Jackson sono sommi maestri dell’ambiguità: nel momento in cui si danno i loro fantasmi per “veri”, esterni e non interni, oggettivi e non soggettivi, si è già persa in partenza la scommessa col testo.

A differenza dell’obbrobrio pseudojamesiano invece, Midnight Mass all’inizio prometteva bene: tratto dall’omonimo romanzo del 1990 dello scrittore di fantascienza e horror F. Paul Wilson, ambientato in una piccola isola del nord degli USA, una specie di Nantucket senza memorie baleniere né turisti, e centrato sull’accostamento speculare tra cristianesimo e vampirismo uniti dalla pratica letterale dell’eucaristia e della resurrezione, il testo sembrava aperto a suggestioni molto stimolanti. Tutta la prima parte funziona e incuriosisce, il prete vampirizzato che fa della sua chiesa il centro di diffusione del nuovo culto in cui le promesse del cristianesimo vengono effettivamente realizzate e si risorge non metaforicamente ma dopo essere morti per davvero, rendono accettabili e perfino quasi interessanti, gli abituali chilometrici sproloqui con velleità filosofiche in area esistenzialista cui sarà avvezzo chiunque abbia la discutibile abitudine di frequentare gli esercizi finzionali di Flanagan. Se resta poco credibile che, per quanto su un territorio molto ridotto, l’intera popolazione – tutta Wasp a quanto appare, a parte il simpatico sbirro islamico sia integralmente cattolica e non esistano in zona chiese di differente osservanza (sono tutti di discendenza irlandese?), la descrizione di un microcosmo provinciale ed asfittico, beghino e perbenista (pur se non alla maniera puritana di Hawthorne), rende in modo soddisfacente, mentre i progressivi slittamenti macabri con le ambiguità del sacerdote, le meschinità della perpetua malefica e i rapporti conflittuali tra i personaggi principali, promettono svolte originali. Ma le promesse non vengono mantenute e invece più si procede, più la storia perde colpi e si sfilaccia tra dialoghi sovrabbondanti e noiosi e scene troppo esplicite e truculente che minano l’atmosfera e la coesione dell’insieme. L’ultima puntata è davvero inguardabile e rasenta il ridicolo: tra coretti polifonici e canti catechistici, retorica comunitaria e melassa di buoni sentimenti, palingenetica strage dei reprobi – con remissione dei peccati – e assoluzione dei puri di spirito, la messa di mezzanotte sprofonda definitivamente nella propria ridondanza enfatica e prolissa. Un’occasione sprecata, perché le premesse per tentare un discorso assai più originale e provocatorio, potenzialmente sull’orlo della polemica blasfema, c’erano tutte: sia come – nelle velleitarie intenzioni dell’autore – racconto morale, sia come semplice horror, la storia è un totale fallimento. Poiché, frustrando sempre le mie aspettative, mi ha ingannato per troppe volte, ho un conto aperto con Flanagan: non credo proprio che da ora in poi sprecherò mai più tempo con lui.

In chiusura dedichiamo qualche riga anche a quelle serie che, partite in grande stile pochi anni fa – e ne abbiamo parlato in termini entusiastici anche su queste pagine – si sono poi, di stagione in stagione, spente ed eclissate con esiti più che deludenti.

La prima e più eclatante è American Gods, dal romanzo omonimo di Neil Gaiman, prodotta da Starz: dopo una fulgida prima stagione che ci strappò parole di sperticata lode, perduti per strada gli showrunner originali Bryan Fuller e Michael Green oltre che l’attrice di punta Gillian Anderson, è precipitata come nave senza nocchiero nell’anomia della seconda stagione, per finire ignominiosamente, recuperato un tal Charles “Chic” Eglee come showrunner nella terza stagione, troncata ex abrupto con un finale posticcio, che poco ha a che vedere col libro e con lo spirito, provocatorio, sarcastico e iconoclasta delle prime dieci puntate, messo lì a casaccio tanto per chiudere in qualche modo uno spreco di soldi, di noiose tergiversazioni e di giri viziosi senza capo né coda. Gaiman deve essersi incavolato parecchio che un progetto tanto promettente sia finito così male. La cosa più bella resta comunque la sigla dei titoli d’apertura: un profluvio psichedelico.

La seconda grande delusione è stata The Handmaid’s Tale: pur potendo contare su una base solida come i romanzi di Margaret Atwood (Il racconto dell’ancella del 1985 e il seguito del 2019, I testamenti) e sull’interpretazione di un’attrice straordinaria come Elisabeth Moss, la serie – dopo la prima eccellente stagione – non è decollata e si è attestata sulla fioca ripetizione delle stesse situazioni e degli stessi elementi visivi. Dopo aver fatto parlare di sé, ricevuto premi, influenzato l’opinione pubblica, è finita in soffitta, ripiombata nell’anonimato, giungendo in sordina alla quarta stagione: per quel che mi riguarda non ricordo se ho interrotto la visione alla fine della seconda stagione o se ho visto anche la terza, il che è già commento sufficiente.

Ovviamente mi sono soffermato solo sui casi più clamorosi della shit-parade trascurando gli esempi minori per non annoiare il lettore con elenchi troppo lunghi. Difficile dedurre una teoria generale della serie brutta. In linea di massima potremmo forse azzardarci a sostenere che i difetti si rivelino già in fase di scrittura: un progetto nasce male, con un numero troppo esiguo di idee per reggere il lungo respiro di più stagioni intere (The Handmaid’s Tale); un altro si prefigge un compito troppo ambizioso e non ha i mezzi narrativi né figurativi per ottemperarlo degnamente (Foundation), oppure ce li ha per un tempo limitato ma li perde o li spreca mancando di una personalità creativa forte che dia una coerente indicazione stilistica (American Gods); oppure ancora è viziato dalle velleità “autoriali” di personalità troppo narcisiste che perdono il senso della misura e delle proporzioni perseguendo una visione solipsista al servizio del proprio ego e non della storia che si vorrebbe raccontare (Invasion, Midnight Mass). In più, spesso, a queste mancanze si aggiungono le scelte sbagliate sul piano della scenografia e del casting (Foundation), oppure se queste risorse ci sono, non bastano a compensare le falle di regia e di sceneggiatura (American Gods, Invasion), o ancora rinserrano asfitticamente la storia in un cul de sac (Midnight Mass, The Handmaid’s Tale).

 Evidentemente l’attuale non è un buon periodo per la fantascienza e il fantastico, almeno in televisione. Non che, in altri generi almeno, manchino cose notevoli in cui gli ingredienti non vanno sprecati e la ricetta funziona: segnalo in particolare The North Water, produzione avventurosa inglese a base di velieri tra i ghiacci e di baleneria ottocentesca in stile Moby Dick, tratta dal bel romanzo di Ian McGuire Le acque del nord. Sul giallo-noir invece The Serpent, ispirato ad un caso criminale realmente accaduto negli anni ’70. Almeno qui, buona visione…