di Francisco Soriano

“Senza un’analisi della posizione della donna nel sistema gerarchico e delle condizioni della sua schiavitù, non si possono comprendere né lo Stato né il sistema delle classi su cui si basa”: è questo l’assioma tracciato da Abdullah Öcalan nel pamphlet “Liberare la vita – La rivoluzione delle donne”, scritto dalle carceri sull’isola di Imrali.

L’impegno delle donne curde nel processo di liberazione dei territori occupati e il loro ruolo primario nell’elaborazione politico-teorica del confederalismo democratico trovano origine in una serie di condizioni storiche ricche di interessanti dinamiche socio-culturali. Innanzitutto bisogna ricordare che le donne curde non sono mai state oppresse nei processi di assimilazione dei sistemi politici e di governo all’interno degli Stati: ciò si è verificato sia per la coraggiosa resistenza contro ogni forma di oppressione, sia per la profonda consapevolezza culturale nell’affrontare la lotta per i diritti umani e di genere. In secondo luogo l’universo femminile curdo si è sempre distinto, in prima linea, come un avamposto di combattenti e antesignane della lotta di classe agenti in un’area geografica vastissima che si estende in almeno quattro stati. Il tentativo spesso riuscito di favorire pratiche gestionali all’interno delle loro società, di tipo cooperativistico e confederale, ha riservato alle loro esperienze uno spazio di libertà senza precedenti. La dimensione identitaria delle donne curde si veste dei colori della liberazione, sia nei confronti degli invasori che degli sfruttatori. La ribellione e la monolitica cultura d’appartenenza delle donne curde si sono caratterizzate e distinte da sempre dagli schemi machisti e dominanti del potere, dalle periodiche invasioni dei turchi, dal tentativo puntuale di schiavizzarle e sottometterle al ruolo di semplici oggetti di uso sessuale e riproduttivo, dalle aggressioni disumane da parte dei combattenti dell’ISIS e di altre formazioni integraliste islamiche, dalla violenza delle stratificazioni oppressive di sistemi autoritari succedutisi nel tempo in quei territori. È necessario pertanto ricercare le radici di questa resistenza, tutta al femminile, nel panorama delle lotte di genere e di governo, riconosciuta da tutti fra le più importanti al mondo. La narrazione della storia delle attiviste del PKK è utile per decodificare questa esperienza e renderla comune a tutti. Inoltre è opportuno capire quale e quanta linfa vitale abbia determinato nelle donne curde la visione di una fondamentale teoria della liberazione, in territori come la Turchia e in quelli occupati del Kurdistan, diviso fra stati con una impronta autoritaria, verticistica e, soprattutto, con la peculiarità di essere fortemente caratterizzati da logiche discriminanti verso le donne.

Nel saggio scritto da Öcalan che affronta la questione di genere come elemento ineludibile di affrancamento sociale dalle diseguaglianze e come lotta di liberazione dei popoli oppressi, si introduce il tema del “tempo delle svolte” epocali nella storia delle relazioni fra i generi, definite dall’autore come “rotture di genere”, probabilmente per definirne meglio e con forza espressiva i contorni storici e ideologici: “la storia umana ha assistito a due rotture, e prevedo che in futuro ne vedremo un’altra”. Secondo Öcalan nelle ere sociali precedenti alla “civilizzazione”, la forza organizzata dell’uomo intento a catturare animali e a difendersi da elementi esterni, fu anche la causa che lo condusse a “bramare l’unità del clan familiare”, costruito precedentemente e sapientemente dalla donna frutto e prodotto del suo lavoro emotivo. In questa ottica la conseguente costruzione del clan familiare viene definita come la “prima vera organizzazione della violenza”. Dunque l’uomo è, in questa fase di appropriazione, l’usurpatore, colui il quale “ha saccheggiato” l’economia “originaria” intesa come economia domestica. In questo momento si stabilisce un patto di dominio fra l’uomo forte che caccia e difende e l’anziano, il saggio, il sacerdote del clan. È l’origine della forza organizzata dal proto-sacerdote, lo sciamano: un’alleanza che si concreta nel “patriarcato gerarchico e dominante nella vita sociale ed economica”, che condurrà a tipologie e strategie di controllo delle donne e della società.

La successiva ricostruzione che Öcalan compie del periodo che va dal 4000 al 2000 avanti Cristo (fino all’avvento della civiltà sumera), mostra tutta la sua originalità laddove individua i germi valoriali di una forma abbastanza evidente di protocapitalismo: l’inizio dell’accumulazione e dello sfruttamento abbastanza organizzato e sistematico dei propri simili e della donna. Infatti dopo un sostanziale equilibrio fra la cultura della donna-madre e quella dell’uomo-sacerdote (provato dai molti templi e dai testi mitologici dedicati alle dee), in un momento in cui “intorno alla donna non si era sviluppata ancora alcuna cultura della vergogna”, si verifica lo sviluppo di una nuova etica di superiorità e di dominio rispetto al culto della donna e del suo ruolo. È un punto davvero nodale nella storia dell’Umanità, perché rappresenterebbe l’idea e la materializzazione di un’autorità gerarchica ancor “prima dell’inizio della società divisa in classi” e propensa alla prima originaria forma di accumulazione di stampo capitalista. In questa ricostruzione Öcalan mette in evidenza come si genera, inesorabile, il capovolgimento di un sistema: la raccolta e la coltivazione da parte della donna è attività creativa e pacifica che presto viene contrapposta alla caccia e alla difesa, prerogative prettamente maschili che rappresentano autorità, violenza e guerre. Inoltre questo “sviluppo ha costituito il primo uso dell’intelligenza analitica con intenzioni malvagie”, un sistema di appropriazione e sottomissione che man mano si è collaudato ed è divenuto prevalente nel quotidiano. La mutazione dal culto della madre sacra a quello del padre sacro ha definitivamente dato l’occasione all’intelligenza analitica di nascondersi dietro la santità e giustificarne il dominio: le società patriarcali sono diventate “simili a culti”, trasformate in religione intorno all’uomo forte. Con la sottomissione delle donne e la loro riduzione a uno status di schiave, si è preparato il terreno alla successiva schiavizzazione dei bambini e degli uomini stessi, piegati in successione ai fini dell’accumulazione e del potere di pochi.

L’accumulo di beni e valore attraverso lo sfruttamento di altri esseri umani, in particolare del prodotto in eccedenza, ha fatto in modo che la pratica si sia consolidata e man mano raffinata in modo sempre più razionale nel tempo. È il momento-culmine in cui l’alleanza-collaborazione fra l’uomo forte, l’anziano esperto e lo sciamano formano uno spazio di privilegi e dominio su tutti. La necessità di accreditarsi un vero potere all’interno della società viene determinata dalla cancellazione della divinità e sacralità della donna, con la narrazione dell’uomo esaltato addirittura come creatore del cielo e della terra. Infatti l’interiorizzazione di questi concetti-elementi rappresentano nel tempo la sedimentazione dell’idea di superiorità e del predominio dell’uomo: “l’intelligenza analitica sviluppò una straordinaria narrazione mitologica per dominare le menti del popolo”. Fu così che l’elaborazione di figure e identità divine, metafora del nuovo potere basato sul dominio degli uomini, rappresentò un nuovo approccio alla natura con dei nuovi poteri pensati nella società. Durante la fase babilonese questo processo si completò con l’ascesa del dio Marduk, che ben si conciliava con il potere assoluto del monarca. Per Öcalan è il momento in cui “è stata raggiunta la soglia della nascita delle religioni monoteiste”. All’interno delle famiglie il padre possiede i bambini e il suo potere cresce con i figli maschi: si impadronisce del potere della madre-donna e si disegna il sistema della proprietà privata, la patria potestas, accanto alla proprietà pubblica dello Stato si afferma la proprietà privata della dinastia. I diritti di paternità infatti non potevano che consentire il passaggio dell’eredità in via dinastica ai soli maschi. È questa la prima totale rottura di genere, un radicale ed epocale cambiamento che ha riguardato il valore della donna nel contesto mediorientale. È questa la cultura che, dal 2000 a. C., secondo Öcalan, si diffonde inesorabile costringendo le donne in una condizione di sudditanza in una società patriarcale dove il potere del maschio veniva “esaltato e reso eroico e ogni cosa femminile sminuita, degradata e denigrata”. La cosiddetta “rottura” avveniva in modo radicale dando origine alla “modifica sociale più significativa mai vista”. Da questo momento, dunque, il cambiamento che riguardava il valore della donna in Medioriente si può definire come rottura o controrivoluzione, perché “nessun contributo positivo allo sviluppo della società viene attuato”. E questo è il punto più amaro in cui si constata un impoverimento, un depauperamento valoriale e culturale con la violenta sottomissione e la successiva esclusione del contributo creativo ed esclusivo delle donne. È quello che Öcalan definisce come una “deriva”, i cui effetti si ripercuotono fino ai nostri giorni, dove il deterioramento dell’area è avvenuto anche perché si è prodotta una società a una voce, quella maschile: “è stata fatta una transizione verso una cultura sociale con una sola dimensione, estremamente maschile”. Da questa situazione si può dedurre quanto, quella che Öcalan ama ricordare come intelligenza emotiva della donna, “creatrice di miracoli, profondamente umana, legata alla natura e alla vita, era perduta. Al suo posto era nata la maledetta intelligenza analitica di una cultura crudele, sottomessa al dogmatismo e separata dalla natura”. È a questo punto che tutta la narrazione mostra il suo lato più affascinante, laddove ci lascia capire quanto la cultura della guerra, della accumulazione, della aggressione, della schiavitù, della discriminazione rappresenti l’antitesi alla intelligenza femminile che, per definizione, è egualitaria e diretta alla “produzione dell’umano e della natura vivente”. La madre finalmente viene rinchiusa, casta, gentile e in attesa, nella casa, pian piano può mostrare a malapena il viso e viene avvolta in veli, prigioniera nell’harem maschile.

Il radicamento dell’autorità patriarcale è finalmente compiuto, grazie al verificarsi di un’alleanza fra amministrazione autoritaria e autorità sacra dello sciamano che ha prodotto alle origini il concetto di gerarchia. L’autorità si identifica e poggia proprio sul rafforzamento della società in classi fino alla sua trasformazione in “autorità statuale”. La vittoria dell’accumulazione e dell’autorità gerarchica finalmente si compie e, in questo processo, è la donna a uscirne completamente sconfitta. Non vi è nulla che lasci pensare a una sorta di determinismo storico riguardo a questi processi che hanno condotto all’autorità come dominio esclusivo dell’uomo, dove una società naturale si è trasformata in società gerarchica e successivamente dimensione di potere statalista. L’affermazione di un dio “singolo e astratto” che traduce i valori e i voleri del patriarcato, è la prova del suo utilizzo strumentale al potere. L’autorità matriarcale della società naturale cerca di resistere, ma la morale patriarcale definisce e struttura la “legittima” accumulazione e sposta l’asse della solidarietà tipica dei clan nella dimensione della proprietà privata, infine incoraggia l’accumulazione in eccedenza per acquistare potere e dominio. In questo modo si determina il deterioramento dell’armonia interna della società. Il sessismo si è dimostrato subito come una logica di potere, un valore fondante, assolutamente funzionale alla logica della divisione in classi della società e l’esercizio del potere. Per questo una strategia di sottomissione ed esclusione delle donne doveva essere la ”casalinghizzazione” della loro esistenza. È questa la più antica forma di schiavitù. Inoltre questo aspetto basilare per il potere gerarchico e autoritario è quello che dà la forma a una società asservita e servile, che basa sul soggiogamento, l’insulto, la violenza, l’insicurezza, “il piangere e mentire” abitualmente, il suo dominio. Il maschio ha sempre considerato le donne come un oggetto soprattutto per le sue aspirazioni e ambizioni personali. Il sessismo non dipende dalle differenze biologiche, ma è una vera ideologia che ha trasformato gli uomini in schiavi: solo successivamente nel corso dei secoli “le due forme di schiavitù si sono intrecciate”.

Il patriarcato si è costruito nei millenni utilizzando le religioni monoteiste e rendendole funzionali al suo sistema di controllo. Secondo Öcalan, “la cultura riguardante le donne sviluppata dalle religioni monoteiste produsse la “seconda grande rottura di genere”. La sessualità viene vista nelle tre grandi religioni monoteiste come un male, talvolta un peccato, e pertanto “costantemente denigrata e sporcata”. Ai nostri giorni sia la cultura cristiana che quella mussulmana hanno determinato un “ostacolo al superamento della società sessista”. Non si può non concordare con Öcalan quando sostiene che l’effetto del sessismo sullo sviluppo sociale ha effetti molto più devastanti di quello che potrebbe essere percepito, perché ha determinato l’obiettiva regressione sui diritti e ha allargato il divario nello sviluppo sociale.

Non bisogna immaginare una società sessista che rende schiave solo le donne, ma una società di sfruttati dove il dominio maschile sottomette anche altri uomini. Molte sono le maschere utilizzate dagli uomini per istituzionalizzare il proprio potere, soprattutto spargendo “bugie mitologiche e punizioni divine”. Uno degli strumenti, ad esempio, è quello dell’onore maschile che l’uomo ha consolidato per controllare, sottomettere e punire, legittimando qualsiasi propria oscenità o crimine nei confronti delle donne. In questa ottica deve essere vista anche la gelosia che l’uomo nutre nei confronti della donna che, in modo originale, Öcalan intravede proprio nella “centralità” del corpo femminile nei confronti di quello dell’uomo, aspetto che deriva anche dall’intelligenza emotiva della donna che prevale su quella dell’uomo. L’intelligenza emotiva “è connessa alla vita, è l’intelligenza che governa l’empatia e la simpatia. Anche quando si sviluppa l’intelligenza analitica della donna, la sua intelligenza emotiva le consente di condurre una vita equilibrata, di essere devota alla vita e di non essere distruttiva”. L’auspicio è l’uccisione dell’uomo, nel senso dell’annientamento del dominio maschile, con una rivoluzione di genere che stravolga cinquemila anni di civiltà fondata sulla divisione in classi in cui la donna è stata strumento e utilità nelle mani degli uomini. Non è inverosimile immaginare una rivoluzione che significherebbe e provocherebbe la liberazione “simultanea” dell’uomo stesso. L’”uccisione dell’uomo” sarebbe la cancellazione del dominio unilaterale, dell’ineguaglianza e dell’intolleranza. Non a caso la libertà delle donne viene concepita in un sistema politico di completa democratizzazione, complessivo e totale egualitarismo.

Le tesi di Öcalan mostrano originalità e forniscono strumenti di analisi sulle questioni di genere. Sono straordinariamente incisive nella definizione di alcune dinamiche che dominano il potere e la violenza, la gerarchizzazione e il consolidamento di classi sociali che tentano di sottomettere e asservire dominando altre donne e uomini. La realtà tuttavia assume aspetti di complessità molto profondi che non possono risiedere soltanto nella questione di un genere separato. Di questo ne parla anche Öcalan mettendo l’accento sulle dimensioni economiche, sociali e politiche delle diseguaglianze in generale. I cambiamenti auspicabili in questo cammino rivoluzionario non possono essere raggiunti soltanto attraverso la critica che i movimenti delle donne con coraggio e abnegazione cercano di incidere nelle proprie società di riferimento: “alla luce di quanto detto, la chiave per la soluzione dei problemi sociali sarà un movimento per la libertà delle donne, l’uguaglianza e la democrazia, che sia basato sulla Jineoloji, la scienza della donna”.