di Franco Pezzini

In Italia si conosce George Eliot – pseudonimo di Mary Anne (Marian) Evans, coniugata Cross (1819-1880) –, tra le massime scrittrici vittoriane, in genere soltanto per i suoi romanzi di critica sociale e politica, di taglio realistico e psicologicamente cesellatissimi: soprattutto Middlemarch (1871-72), ma anche Adam Bede (1859), Il mulino sulla Floss (1860), Silas Marner (1861), Daniel Deronda (1876). Se la scelta di uno pseudonimo maschile non rappresenta in sé una connotazione particolarmente eversiva, l’autrice – nata lo stesso anno della regina Vittoria – vi prende le distanze dai romanzi “per signora” e insieme vela un po’ il suo stato anagrafico, a fronte di una scandalosa convivenza more uxorio con il filosofo George Henry Lewes, sposato con Agnes Jervis ma in regime di coppia aperta. Certo con la sua vita quotidiana anticonvenzionale e per alcuni versi scandalosa, le sue scelte fuori dal coro (per esempio la vicedirezione, da parte di lei donna, di una rivista letteraria progressista come “The Westminster Review” decisamente non piace), le frequentazioni fin dalla gioventù di interlocutori non allineati, George/Marian si dimostra spiazzante: ma si conquista via via progressiva attenzione, fino a esser letta persino a palazzo reale.

Non si tratta senz’altro di una scrittrice associabile alla letteratura fantastica: eppure almeno un’opera, il racconto The Lifted Veil (apparso anonimo la prima volta sul “Blackwood’s Edinburgh Magazine” luglio 1859, l’anno del primo romanzo Adam Bede, e riproposto solo nel 1878) conduce con potenza in quella direzione, e per quanto si tratti di un unicum, presenta caratteri così scintillanti da renderlo un piccolo caposaldo del genere e una straordinaria macchina per pensare. Il velo dissolto (così lo traduce Elisa Morpurgo per Passigli, Firenze 1992) è una festa di qualità stilistica, eleganza e finezza nelle ricostruzioni psicologiche, intelligenza nello scavo interiore e in quello sociale: un testo bellissimo, in qualche modo sperimentale per l’autrice all’inizio della carriera, e che in quel momento sta testando formule diverse (del 1863 sarà per esempio il romanzo storico Romola) per trovare una propria cifra senza rinunciare a temi a lei cari: le difficoltà della vita di coppia, la “simpatia morale” eccetera.

Definirlo, come qualcuno ha fatto, science fiction, sembra eccessivo: ma indubbiamente vi emerge un discorso su tecniche mediche d’avanguardia, nonché sui nessi di causalità, il tempo e i vari punti di osservazione da cui lo consideriamo, gestito da Eliot con straordinaria abilità. Più corretta pare la definizione di racconto gotico, ed è interessante la pubblicazione nello stesso anno di un romanzo realista come Adam Bede: diciamo però che nel Velo dissolto prosegue una riflessione sulla comunicazione umana e la sim-patia attraverso la figura di un narrante dotato di doti telepatiche. Se la parola simpatia è al centro di ogni opera di George Eliot, viene da lei considerata lo scopo vitale dell’arte, e combina sfumature di pietà e compassione in un’accezione simile al nostro termine empatia, Latimer che in teoria potrebbe capire gli altri con particolare efficacia per una sua specifica sensibilità paranormale – una chiaroveggenza combinata con elementi di preveggenza – fallisce invece rovinosamente, e dal conoscere la verità interiore altrui trae solo isolamento. Qualche critico vi ha visto una sorta di test dell’etica della simpatia portato avanti dall’autrice, con il suo forte e onesto senso della realtà; e la telepatia costituirebbe una forma metaforica adeguata per il tipo di trasferimento dei propri pensieri in altri menti attraverso la prosa. Solo George Eliot – si è detto – avrebbe potuto trattare uno spunto sovrannaturalistico in modo non solo tanto realistico, ma così eticamente rigoroso da evidenziare una serie di spiazzanti implicazioni morali e di limiti nella propria impostazione, e da sottoporre poi il tutto al giudizio dei lettori grazie a un testo-laboratorio. Dove il gioco per assurdo provoca verso un intero ventaglio di direzioni.

Si è detto che Latimer sia uno dei personaggi meno simpatici di Eliot, e probabilmente è vero: certo è un personaggio che soffre acutamente la propria capacità da X-man (double-consciousness o superadded consciousness) come una forma patologica o di disabilità grave. Latimer è oltretutto un artista che non sa creare, ed Eliot forse vi vede una proiezione della propria difficoltà a stabilire simpatia nel rapporto col lettore. L’autrice coglie l’occasione per sperimentare soluzioni narrative nuove: la scelta per lei eccezionale di una narrazione in prima persona maschile a enfatizzare una prospettiva individuale, l’ascolto dei pensieri dei personaggi e il portarne avanti le vicende con ricadute anche formali nelle convenzioni narrative su voce, nessi causa-effetto (quanto influirà Latimer sugli eventi che prevede?) e cronologia. Si è osservato come le visioni del protagonista prefigurino le tecniche del flusso di coscienza – una sorta di confessione finale articolata in flashback che diventano flashforward per la sua preveggenza, nonché ultimo sforzo di chiarire la propria realtà interiore –, qualcosa che prelude al center of consciousness di James. Di fatto il racconto, legato anche a luttuose vicende familiari, verrà considerato più una stramberia che una prova seria, e la stessa autrice lo considera la prova, “not a jeu d’esprit, but a jeu de melancolie”, di una propria non ancora raggiunta maturità artistica. La cupezza generale e la scena finale potente e nerissima lasciano perplesso il primo editore (che consiglia la forma anonima, e preferirebbe stralciare la chiusa) e lettori autorevoli ancora alla seconda edizione: e solo con la seconda metà del Novecento il testo verrà considerato nelle sue oggettive qualità. Certo si tratta di un racconto che torna a interpellare su cosa sia il fantastico, a fronte di uno sviluppo dove molto si gioca sul piano psicologico, e un io narrante almeno poco affidabile delinea tuttavia un quadro sociale e d’ambiente solido e convincente come quelli delle opere realistiche.

Il povero Latimer è (potremmo dire) un uomo senza qualità, psicologicamente fragile, e che si ritiene dotato – a seguito di una seria malattia a Ginevra durante l’adolescenza – di una opprimente abilità extrasensoriale di cogliere pensiero e futuro altrui. La storia inizia in effetti con la percezione della sua prossima morte per problemi di cuore (in data 20 settembre 1850), sa che morirà solo, senza nessuno a soccorrerlo: i due domestici, amanti, hanno litigato e la donna vuol far credere al partner di avere intenzione di annegarsi. Un quadro ironicamente nero, nella tragedia, che idealmente già prefigura le dinamiche di sentimenti grotteschi poi sviluppate nel racconto, visto che ora Latimer si volge indietro a narrare la propria storia. “Non mi sono mai legato in modo totale a un qualsiasi essere umano, e nulla mi incoraggiò a nutrire fiducia nella bontà dei miei simili”: sa bene che pietà o indulgenza si tributano ai morti,

 

Sono i vivi che non riescono a farsi perdonare, è di fronte ai vivi che l’umana carità si blocca, come la pioggia impedita dal duro vento dell’est. Finché un cuore batte, feriscilo, è la tua sola opportunità; finché uno sguardo può rivolgersi a te con umido, timido appello, spegnilo con una gelida occhiata di rifiuto; finché l’orecchio, delicato messaggero dei più riposti segreti dell’anima, può ancora accogliere parole di simpatia, levatelo di torno con dura scortesia, o ironici complimenti, o affettazione di indifferenza; finché il cervello può pulsare scosso dall’ingiustizia, e aspirare a fraterni riconoscimenti, affrettati a schiacciarlo con frettolosi giudizi e paragoni triviali e interpretazioni equivoche. Quel cuore, presto o tardi, si fermerà – ubi saeva indignatio ulterius cor lacerare nequit; l’occhio cesserà di implorare; l’orecchio diventerà sordo; nel cervello ogni desiderio e funzione saranno spenti. Allora potrai dare sfogo ai tuoi generosi discorsi, e rammentare, compiangendoli, tante fatiche e lotte e fallimenti, e concedere i debiti onori all’opera compiuta, giustificando le sue manchevolezze e anzi seppellendole nell’oblio.

 

Come anzi il brano già prefigura, la storia può essere letta anche come quella del dolore inestricabilmente connesso a relazioni sadomasochistiche. Il masochismo di Latimer verrà da lui superato diventando sadismo, il cui ultimo anello sarà forse raccontare la storia dal proprio punto di vista, trionfando – almeno in certa misura, vedremo – su quanti gli hanno fatto del male e restano semplici oggetti di narrazione, impossibilitati a far udire la propria voce. Ma l’attrazione mesmerica a Bertha mostrerà l’epifania, attraverso meccanismi in parte inconsci, di un tal tipo di relazioni malate.

La più vera malattia di Latimer, simbolicamente figurata nella sua patologia cardiaca, è la mancanza di empatia: una condizione cui pure, va detto, è stato portato da tutto un contesto familiare e sociale (ecco insomma una nota cara all’autrice). Bimbo troppo presto privato della madre – nel mondo vittoriano la vita, in particolare delle donne, è spesso breve – il ragazzino sensibile si trova marginalizzato in una famiglia di maschi rampanti: un padre anziano, banchiere e piccolo arrampicatore nella vita di contea, inflessibile e scarsamente affettivo, e il fratello maggiore Alfred bovinamente vitale, con la “cortesia superficiale delle persone di buon carattere e soddisfatte di sé, che non temono rivali e non hanno mai conosciuto contrarietà”. Tra l’altro il fratello è stato indirizzato, come parte del sociale cursus honorum, a studiare letteratura greca e latina: cioè proprio le discipline che Latimer amerebbe, mentre finisce costretto a studi scientifici e tecnici che detesta (“Non ne capivo nulla di macchine, perciò fui costretto a occuparmene intensamente”). A peggiorare il tutto ci si mette il frenologo, che ravvisa deficienze nel cranio del figlio cadetto… La dicotomia tra le passioni letterarie di Latimer e la formazione scientifica impostagli procede al passo di quella tra romanticismo e realismo che dinamizza la vicenda rispecchiando gli interessi dell’autrice; e anche la frenologia entra nel quadro di un romanzo dove – vedremo – la tensione scientifica è ben avvertibile.

Spedito a studiare a Ginevra, del cui territorio adora i panorami, ma come un poeta privo di voce lirica e che consuma tutto in una propria personalissima commozione, il narrante fa amicizia con un altro ragazzino solo, che nel resoconto cifra dietro il nome-schermo di Charles Meunier e molto più tardi avrà un ruolo importante nella vicenda.

Si sono notate affinità tra l’alienato, torpido, debole e negativo Latimer, con la sua immaginazione sregolata e delirante a base di visioni e velleitarie rêverie poetiche, e un certo profilo stereotipico assurto a notorietà letteraria attraverso le recensioni di William Edmonstoune Aytoun sulla diffusissima rivista “Blackwood’s Edinburgh Magazine” che ha ospitato – guarda caso – la prima pubblicazione del racconto: cioè la stessa rivista presa in giro a suo tempo da Poe in “Come si scrive un articolo alla ‘Blackwood’”, giocando sulle sue storie dal sapor d’exploitation. Si tratta dello stereotipo che Aytoun definiva lo spasmodic poet, in riferimento a opere un po’ troppo sopra le righe, non per mancanza di talento ma per scarso controllo intellettuale e morale sui flussi di sensibilità che sarebbero i materiali dell’arte: così per esempio il Festus di Philip James Bailey (1839), A Life Drama di Alexander Smith (1853) e il Balder di Sydney Dobell (1854). Come tali spasmodic poets – considerati una scuola con una propria poetica –, Latimer, ma in fondo anche Bertha, il padre e il fratello e lo stesso Meunier appaiono incapaci di vedere più di quanto immediatamente stimoli i loro interessi. Tutto ciò obbliga i lettori del poeta spasmodico – come appunto il malaticcio e itterico Latimer, che pure qualche domanda se la pone – a un atteggiamento attivo di pietoso sospetto.

Ma è lì in Svizzera che su Latimer si abbatte la grave malattia che chiude quella fase della vita: e approdato finalmente alla convalescenza, il ragazzo apprende dal padre che il ritorno a casa avrà la forma di un lungo viaggio in Tirolo, a Basilea, Vienna e Praga assieme al fratello e ai vicini Filmore. È appunto in quell’occasione che alla parola “Praga” Latimer si trova in balia di una scena prodigiosa sulla città che non ha mai visto: lì per lì pensa e spera si tratti dell’insorgere di un mondo interiore da vero poeta (la capacità che ha permesso a Omero, per dire, di vedere Troia), ma quando tenta di riprodurre l’effetto non riesce, e resta a studiare se stesso. Il padre lo conduce a far giri sempre più lunghi per farlo ristabilire, ma un giorno tarda: e improvvisamente Latimer lo visualizza accanto a due persone, la vicina signora Filmore e una ragazza mai vista, non ancora ventenne,

 

una figura alta, esile, slanciata, con una massa lussureggiante di capelli biondi acconciati in una architettura di trecce che sembrava troppo massiccia per il viso delicato, per la bocca sottile su cui torreggiava. Eppure quel viso non aveva un’espressione giovanile; i lineamenti erano incisivi, i pallidi occhi grigi erano acuti e al tempo stesso inquieti e sarcastici.

Ora mi fissavano con curiosità semi-sorridente ed ebbi la penosa impressione di essere investito da un vento tagliente. Il vestito verde pallido e le verdi foglie di seta che racchiudevano i suoi pallidi capelli biondi mi fecero pensare a una fata dell’acqua – perché la mia mente era colma di liriche tedesche e quella pallida donna dagli occhi fatali con i suoi verdi ornamenti sembrava sorta da qualche fredda e tortuosa corrente, figlia di un vecchio fiume.

 

A quel punto l’intera immagine sparisce e Latimer si trova solo: ma poco dopo, già preoccupato per lo strano ritardo del padre, lo vede comparire proprio con le due donne della visione, e per lo shock perde conoscenza. Quando rinviene, il padre lo tranquillizza, ha spiegato le sue condizioni fisiche ancor deboli alle signore: la ragazza è Bertha Grant, nipote orfana dei Filmore che l’hanno adottata, e il padre sospetta “ci sia del tenero tra lei e Alfred”. Ovviamente Latimer non spiega il motivo del proprio svenimento per non passare per folle davanti al genitore; ma dal giorno dopo si rende conto che a tratti la sua mente recepisce come interferenze importune i pensieri altrui, “le frivole e vagabonde idee o emozioni di una conoscente priva di interesse – come la signora Filmore, per esempio”, con una sgradevole ma esatta capacità di anticipare molte frasi o gesti degli altri. Ciò che però diventa particolarmente penoso alla scoperta dei retroscena dei discorsi di chi gli è caro, con tutto il carico di miserie umane che lui riesce a percepire come al microscopio. O almeno così afferma: rispetto a questo narratore inaffidabile, dotato di una certa intuizione e forse di doti paranormali ma presentate a posteriori a offrire agli eventi una coloritura interpretativa livida, permangono abbondanti dosi di dubbio. Se leggiamo la storia con un minimo di sensato sospetto, non manca la sensazione che il suo senso d’inferiorità giochi un ruolo importante in tutto l’insieme: e le difficoltà vissute in quella fase dall’autrice e la sua credibilità continuamente sotto esame possono ben aver parte nel modellare un simile tipo di narrante. Poi certo, l’inferiorità avvertita da Latimer trova un correttivo nel potere che ritiene d’avere – il conoscere cose che altri non sanno – e comunque, in termini pratici, nell’elevarsi a narratore lasciando tutti gli altri come semplici narrati incapaci di far valere la propria campana. In particolare di Bertha noi avremo solo un ritratto per voce ostile, liquidato in poche informazioni per quanto riguarda il passato remoto, e nella stigmatizzazione di una serie di frasi e atti per il prosieguo.

Qualche lettore va infatti oltre, considerando percezioni fallaci o truccate quelle che accompagnano la vita di Latimer e accusando gli sviluppi ultimi della vicenda come vera e propria diffamazione ai danni di Bertha: e del resto, narrando a distanza dai fatti, Latimer ha la possibilità di riscriverli secondo le proprie ubbie. D’altra parte, se colleghiamo le fatiche di Latimer di accreditare la propria versione con quelle di Eliot di far valore la propria voce, qualcosa diventa più chiaro, almeno in chiave problematica. Parecchi sono in effetti i nessi con la vita dell’autrice, dalle presenze di un madre-angelo morta, un padre forte e un fratello dal successo mondano, tali da porre in situazioni di dipendenza e inferiorità, a uno scarso amore per il proprio corpo che ostacola socialmente, a una serie di ostacoli alla stessa espressione artistica. Come Eliot dai vincoli sociali, così Latimer è ostacolato nelle sue capacità artistiche dai propri limiti: qualcosa che potrebbe richiamare a un conflitto tra genere apparente e genere vissuto, Latimer (vedremo) poco “maschile” e Eliot poco “femminile” nel senso di poco attraente. Il racconto finisce così con l’illuminare conflitti tra il genere di Eliot e la sua capacità artistica.

La simbolica del velo e la dialettica con ciò che sta oltre appare profondamente femminile: in una società patriarcale la donna resta invisibile allo sguardo pubblico, appunto come dietro un velo. Qualcosa che del resto apre a significati ulteriori la metafora del racconto. Per esempio Latimer, con la sua accentuata sensibilità giudicata come “femminile” (almeno secondo gli stereotipi d’epoca) è stato visto come un’eroina gotica, che subisce una condizione di passività, prigionia e sofferenza opprimente (l’angina pectoris in particolare, ma il catalogo dei suoi acciacchi e delle condizioni morbose ravvisabili è assai più vasto e variegato: fragilità, esaurimento, svenimenti e isteria spesso legati all’immaginario medico vittoriano sulle donne, monomania, illusione e follia masturbatoria, sulla base di categorie consolidate nella riflessione medica d’epoca). La sua stessa chiaroveggenza in abbinamento a tali connotazioni “femminili” – cioè le fragilità che Eliot lamentava negli stereotipi letterari sulla donna – sembra marcare la distanza dagli ipervirilizzati padre e fratello e dagli altri esponenti di quel tipo umano. Il “doppio cervello” che offre a Latimer una seconda, futura visione della realtà, evoca al tempo anche la teoria delle due metà del cervello, cioè un lato sinistro deputato a mascolinità, bianchezza e civiltà, e un lato destro a femminilità, follia e tendenze animalesche. La scarsa virilità di Latimer, la sua salute cagionevole e la sua fragilità psicologica fanno pensare a uno sviluppo particolare di questa parte, sia pure  in termini non esclusivi.

Il viaggio per Latimer si rivela faticoso. Sia per l’antipatia verso la presenza ingombrante del fratello “riuscito” e presuntuoso, commiserante il povero malato di casa e invece compiaciuto di una presunta adorazione da parte di Bertha (si è stigmatizzato il narrante come antipatico per la sua invidia e scarsa empatia, ma a dismettere i moralismi si può capirlo benissimo). Sia perché l’immersione nell’arte è per lui di impatto straniante, come a Vienna davanti a un certo quadro di Giorgione, “il ritratto di una donna dagli occhi crudeli che si diceva somigliasse a Lucrezia Borgia” e gli reca una strana sensazione velenosa, con la visione futura di Bertha diventata sua moglie e legata a lui da un nesso d’odio. Sia, ancora, perché a Praga potrà constatare se la città davvero assomiglia a quella della visione. Per inciso, si è suggerito che il ritratto menzionato non sia di Giorgione e si identifichi invece nel Ritratto di gentildonna nelle vesti di Lucrezia di Lorenzo Lotto (1533 circa, conservato alla National Gallery di Londra): ma Lucrezia Borgia è al tempo di Eliot al centro di una lussureggiante leggenda nera come vamp avvelenatrice e donna malvagia, quindi può ben trionfare negli stereotipi di Latimer.

Nei confronti di Bertha, per quanto assurdamente, Alfred e Latimer sono rivali: lei è l’unica persona la cui interiorità sembra sfuggire alla sovrannaturale sensibilità di Latimer. Che ne è attratto proprio per questo mistero e per una sorta di forza di contrasto: “lucida, sarcastica, priva di fantasia, prematuramente cinica, impassibile di fronte a certe scene impressionanti, pronta a sezionare tutte le mie poesie favorite e particolarmente sprezzante nei confronti dei lirici tedeschi che a quel tempo io prediligevo”, Bertha sarebbe quanto di più lontano da Latimer sia possibile immaginare. D’altra parte, considera, vi erano

 

anche altre forze in gioco, come la subdola attrazione fisica che si diverte a ingannare le nostre predisposizioni psicologiche, e induce gli uomini che dipingono silfidi a innamorarsi di qualche bonne et brave femme con caviglie gonfie e lentiggini.

 

Impossibilitato a entrare nella mente di Bertha, Latimer vive ogni giorno in sua presenza come un delizioso tormento, con dinamiche masochiste che implicano una certa forza sessuale. Ovviamente Bertha è gratificata nel suo senso di potere dall’idea che al primo incontro il ragazzo fosse svenuto per l’effetto da lei esercitato; e in presenza del fratello lo vezzeggia spregiudicatamente. Per quanto simile in singoli aspetti all’Hetty di Adam Bede (1859), alla Rosamond di Middlemarch (1871-72) e alla Gwendolen di Daniel Deronda (1876), la figura di  Bertha, almeno a livello superficiale una tra le più sinistre di una letteratura nera ottocentesca dove pure le dark lady non mancano, sembra trarre nome da quello della pazza Bertha Mason di Jane Eyre (1847): e in effetti le dinamiche di un certo gotico femminile medio-ottocentesco (si pensi anche a Cime tempestose, sempre 1847) sono qui chiaramente sullo sfondo.

La visione terribile di Bertha come moglie futura e odiata, con pensieri fin troppo trasparenti, non riesce a scalzare agli occhi di Latimer il fascino di lei ragazza impenetrabile, anche se la doppia coscienza dell’intuizione e della passione lo strazia. Osserviamo per inciso che questo prefigurare Bertha in termini tanto odiosi può ascriversi a una pure creazione mentale da parte di lui, un immaginarla che precede l’opera di scrittura: quanto cioè questa Bertha è ficta, nell’ambito di una narrazione che permette l’autoavverarsi delle peggiori profezie? I fallimenti di Latimer non ci autorizzano a sovrastimarne la capacità intuitiva e lo isolano idealmente da quanto egli stesso sostiene: la malvagia incantatrice sorta dalle sue letture dei lirici tedeschi provoca a mettere in crisi tutto l’insieme del suo storytelling. Tanto più che piccoli indizi, gesti, alcune fughe dal contatto fisico, inducono a considerare Latimer come sostanzialmente incapace di amare.

La Parte Prima del testo termina con il viaggio, e il colpo d’occhio su Praga in effetti corrispondente alla città della visione. Ma a questo punto possiamo iniziare a capire il senso del titolo “The Lifted Veil”, “Il velo dissolto”: cioè il velame – troviamo anche frequenti riferimenti a “shroud” e “curtain” – che divide lo spazio di ciò che è naturale dal sovrannaturale, comprese le dimensioni dello spirito e della morte. Le inusuali capacità di Latimer, il suo poter cogliere il futuro e i pensieri profondi delle persone attorno, sono cioè descritti come doti di veder sollevare il velo che per gli altri esseri umani resta calato: non insomma un dono ma una maledizione, che lo priva di speranze per il futuro e strappa le delizie del presente. Prima di ricevere tale peso, nell’infanzia, nutriva speranze e sogni, era un tempo cioè benedetto dalla natura – associata via via all’amore della madre perduta e poi all’emozione del mistero della vita e di una bellezza del paesaggio avvertita come materna; ma appena è reso in grado di vedere oltre tale dimensione, tutto inaridisce nell’assenza di piacere. La vera gioia della vita umana starebbe insomma nella presenza di un mistero che lascia spazio alla speranza, e a quel dubbio o interesse che motiva lo sforzo di andare avanti: e di questo filo sottile che a Latimer resta è immagine soltanto l’insondabile Bertha.

Ma c’è un secondo motivo per cui Bertha affascina tanto Latimer: la associa, fin dal primo incontro, proprio a immagini di quella natura che per lui è materna e consolatrice. Lei ha un vestito verde chiaro, appare coronata di foglie e gli fa pensare a una Nixie, spirito acquatico delle liriche tedesche che tanto lo suggestionano. Pallida, fredda, con occhi fatali, Bertha sembra sorta da qualcuno di quei ruscelli. Ancora il giorno del matrimonio, in abito bianco con foglie verde pallido, appare richiamargli lo spirito del mattino. Unico mistero rimasto nella vita di Latimer, con un volto-santuario come di qualche potenza benefica, Bertha può caricarsi così di quelle connotazioni numinose prima associate alla natura.

Va però detto che dall’inizio il lettore si trova proiettato al termine della storia, con Latimer fragile vittima e caratteristiche taglienti e pericolose di Bertha, la fata d’acqua che trascina la sua vittima sul fondo e costituisce l’opposto dell’icona – essa pure naturale – della madre di lui: le due figure di colei che ama e protegge e del pericoloso spirito d’acqua unificate nell’Undine del racconto di Friedrich de la Motte Fouqué, 1811, qui sono scisse.

La preveggenza non permette – pare – di cambiare il futuro; ma la memoria permetterebbe di sollevare il velo della temporalità, e si è vista nel racconto una critica alla poetica di un autore pur tanto caro a Eliot, cioè Wordsworth, che esaltava il peso della memoria come recezione e trasformazione dell’esperienza. In generale nell’opera di Eliot echeggia con potenza l’idea di Wordsworth del ricordo come fondamento sia della poesia sia della comunità umana, anche se in questo racconto troviamo anche la crisi della memoria: Latimer aspirerebbe a essere un poeta – diciamo così – wordsworthiano, ma la vicenda mostra il fallimento del ricordo nell’esistenza (che lui ricostruisce a flashback, a partire dall’infanzia) come nell’arte. Il ricordo narrativo – della sia vita come delle sue visioni – resta cioè sterile, e non arricchisce il narrante, ma anzi smorza sentimenti e oscura le percezioni originarie. Un aspetto peraltro non strano nel contesto di crescente sfiducia della memoria come fonte artistica e spirituale propria del periodo vittoriano, tra industrializzazione montante e senso di inarrestabile mutazione che investe lo stesso passato. Come per la simpatia, altro nodo importante della poetica di Eliot in quanto essa pure teoricamente base dell’azione morale, anche la memoria sembra qui insomma sfidata dall’autrice, testata nel laboratorio narrativo e trovata insufficiente.

(continua)