di Gioacchino Toni

Riferendosi alla galassia di modi, forme e pratiche digitali che hanno a che fare con gli audiovisivi, Simone Arcagni, nel suo volume Visioni digitali (Einaudi, 2016), ha fatto ricorso al termine “postcinema” evidenziando il superamento di quello che è stato “il cinema” novecentesco. Ciò non significa certo che il mondo degli audiovisivi del nuovo millennio non paghi un forte debito nei confronti dell’epopea cinematografica del secolo precedente per quanto riguarda il linguaggio, l’esperienza dello schermo (per quanto declinata diversamente) e, ovviamente, l’immaginario, ma è indubbio che “quel cinema” apparteneva a un’altra epoca. Altre tecnologie, altre modalità produttive e distributive, altra cultura visiva e, non ultima, altra propensione alla fruizione collettiva.

Il cinema novecentesco sembra quasi porsi come “database” da cui i nuovi sistemi audiovisivi continuano ad attingere rielaborando i dati raccolti in base all’intrecciarsi di nuove estetiche e nuove tecnologie ed annesse nuove modalità di business. Persino il sistema produttivo del cinema tradizionale ha fornito utili esempi all’attuale sistema audiovisivo che ha poi provveduto a rielaborare in funzione delle mutate esigenze. Alla luce del fatto che se le storie continuano ad avere un carattere universale, la tecnologia a cui si ricorre cambia inevitabilmente il modo di raccontarle, lo studioso indaga lo storytelling digitale derivato dall’incontro di professionalità creative e imprenditoriali capaci di rilanciare l’ambito audiovisivo in un contesto digitalizzato, oltre che abili nell’intercettare nuovi pubblici. Il nuovo volume di Simone Arcagni, Storytelling digitale. Le nuove produzioni 4.0 (Luiss University Press, 2021), si preoccupa di aggiornare la mappa dell’universo postcinema passando in rassegna i processi sia produttivi che creativi della “fabbrica degli immaginari contemporanei”.

In un contesto in cui gli ambiti culturale, economico e sociale si rapportano a un sistema di comunicazione, informazione e persino cognitivo fortemente digitalizzato, le narrazioni prodotte da media company, brand, broadcaster, gruppi editoriali ecc. si contraddistinguono per una spiccata propensione all’interattività, all’immersività e alla non-linearità. Riferendosi a tale nuovo contesto si è spesso parlato di transmedialità, crossmedialità e di “convergenza”, termine questo ultimo utilizzato da Henry Jenkis (Cultura convergente, Apogeo, 2007) focalizzandosi su quei modelli produttivi fortemente influenzati “dal basso”, dagli appassionati e dai fan.

Se alcuni festival cinematografici (es. Sundance e Tribeca) già da qualche tempo danno spazio a forme e modalità sperimentali di storytelling audiovisivi basati su tecnologie innovative, il South by Southwest Festival ha esteso le sperimentazioni tecnologiche a forme di storytelling che si intrecciano con gli ambiti della performace, della musica, del design e della comunicazione in generale. Non si creda, puntualizza Arcagni, che si tratti di ambiti “di nicchia”; l’universo affrontato dal festival è il medesimo che plasma le piattaforme social e più in generale gli ambienti interconnessi con cui si ha a che fare quotidianamente.

Lo studio di Arcagni si concentra sul panorama italiano e prende il via esaminando il web giornalism e gli Idocs sottolineando come il mondo delle notizie si trovi a dover adeguare gli storytelling non solo ai nuovi dispositivi attraverso cui passa l’informazione contemporanea – dai social media alle piattaforme – ma anche alla diffusione del mondo mobile – smartphone e tablet – che si appoggiano alla connessione e alla geolocalizzazione, tecnologie centrali nello sviluppo delle potenzialità di un racconto che intenda fuoriuscire dai tradizionali confini istituzionali per raggiungere nuovi spazi e nuovi tempi. Si parala a tal proposito di “pervasive and ubiquitous computing”, di web 3.0 o 4.0. Il racconto può così legarsi agli utenti, ai dati che questi condivodono e alle loro interazioni, ma anche agli oggetti e può sovrapporsi in tempo reale agli spazi fisici. Tale extended reality si struttura attraverso Realtà virtuale (VR), Realtà aumentata (AR) e Realtà mista (MR).

Il Corriere della Sera, ad esempio, sta sperimentando con Corriere360.it un tipo di racconto giornalistico realizzato con camere a 360°. Altri esempi di giornalismo/informazione che sperimentano le potenzialità narrative delle nuove tecnologie possono essere individuati in ambienti come Will e Instagram. Se nei confronti del reale il digitale permette inediti “sguardi d’autore” e consente forme di attivismo partecipativo dal basso, le nuove tecnologie hanno dato vita anche a webserie strutturate su modalità di storytelling complesse – crossmediali, transmediali, convergenti – che si estendono ai territori social.

Tra i tanti esempi riportati nel libro vale la pena citae la serie fantascientifica Lost in Google, prodotta da The Jackal, in cui gli utenti sono chiamati a partecipare attivamente alla sceneggiatura delle puntate. Altre serie, come Days di Flavio Parenti, ricorrono a una narrazione ramificata secondo modelli combinatori in modo da consentire all’utente di vedere la storia dal punto di vista dei differenti personaggi o cambiare le modalità di visione, innescando così una nuova combinazione di eventi. Ad essere citato da Arcagni è anche Perfect Circles di Dennis Cabella, un hypergame film interattivo, pensato per il tablet, di genere horror, in cui agli utenti è richiesto di assistere il protagonista cerando indizi e tessendo trame. Nell’ambito delle produzioni “machinima” (machine-cinema / machine-animation), spicca in Italia TheProud, che vanta oltre 500mila iscritti sul suo canale YouTube.

Le possibilità offerte dal digitale permettono non solo inediti scambi tra webserie e game sempre più personalizzabili ed espansi, ma anche di intrecciare gli audiovisivi con una nuova spazializzaizone del racconto sfruttando la geolocalizzaizone, dunque la mappatura dei luoghi, come nel caso di 6 1 MITO Diana, prodotto da Komplex: un progetto in Realtà Aumentata localizzato all’Eur che consente agli utenti di puntare il proprio smartphone sugli edifici del quartiere seguendo un percorso narrativo dedicato alla dea Diana grazie ai contributi multimediali presenti nella piattaforma. «Lo spazio del cinema diviene il quartiere che non viene più “ripreso” bensì “geolocalizzato”, “mappato” digitalmente. La app funziona allora come porta dimensionale che permette l’accesso a una nuova superficie doppia e virtuale. Lo spazio narrativo si arricchisce, sia della possibilità immersiva offerta dall VR, sia di quella interattiva che contraddistingue gli Arg, e infine di quella esplorativa dell’ambiente fisico circostante che invece appannaggio del videomapping» (pp. 92-93).

Altro ambito su cui si sofferma Arcagni riguarda le cosiddette live media experience come il live cinema (es. allestimento di scene di film famosi in ambienti reali), rimusicazioni (es. colonne sonore performate in sala per film originariamente muti ) o intersecazioni tra gli ambiti cinematografico e artistico (es. perfomance, installazioni, videoarte ecc.).

Si tratta, insomma, di un universo digitale “postcinema” complesso e variegato che sta riscrivendo le modalità narrative e partecipative e con esse, è bene sottolinearlo, il ruolo autoriale che, per certi versi, potrebbe oscurarsi sempre più all’ombra dei sistemi tecnologici che promettono agli utenti un’inedita libertà di partecipazione su cui però, al di là delle mirabolanti potenzialità ludiche e di entertainment, varrebbe la pena riflettere bene anche dal punto di vista critico-qualitativo. Pur facendo attenzione a non scivolare nel determinismo tecnologico, non è possibile ignorare, riprendendo Laura DeNardis, come nella composizione dell’architettura tecnica risieda anche una composizione del potere: «Le tecnologie sono culturalmente modellate, contestuali e storicamente contingenti. L’infrastruttura e gli oggetti tecnici sono concetti relazionali in cui gli interessi economici e culturali danno forma alla loro composizione» (L. DeNardis, Internet in ogni cosa, Luiss University Press 2021, p. 32.) [su Carmilla]. Valutare quanto il come incida sul cosa si comunica/racconta resta indispensabile se si vuole affrontre criticamente la fabbrica degli immaginari contemporanei.