di Francisco Soriano

Le “Riflessioni sulla pena di morte” di Albert Camus furono scritte nel 1957. Il testo ebbe una grande eco perché fu pubblicato in un Paese dove la pena di morte venne abolita solo nel 1981 e, la ghigliottina, come totem della rivoluzione rappresentava ancora un valore simbolico molto suggestivo. Il tema della pena di morte non è un argomento banale neppure nella storicizzazione della sua abolizione perché è avvenuta, anche nelle democrazie europee fra le più avanzate, in tempi abbastanza recenti.

È di poche settimane fa la notizia della sorte toccata a Zahra Esmaili, iraniana, condannata alla pena capitale per aver ucciso il marito nel 2018 (accusato da lei e dai figli di aver esercitato sistematiche violenze sui familiari): è stata impiccata quando era già morta. Prima di lei avevano subito l’impiccagione sedici uomini accusati di vari crimini e la donna, spaventata dalla visione delle esecuzioni, è morta in seguito a un arresto cardiaco. Le autorità hanno ritenuto comunque di eseguire il rito della condanna a morte legandola a una gru. Un orrore che si è aggiunto all’orrore.

Per questi esempi di ordinaria disumanità, sempre più copiosi, è attuale e ineludibile discutere di questa pratica mortificante, peraltro incrementata massicciamente in alcuni stati del Mediterraneo ai nostri confini. Il testo delle Réflexions di Camus rappresenta uno degli strumenti più adeguati al fine di analizzare e comprendere anche le dinamiche di questa deriva umanitaria. Cominciando proprio dalla fine delle riflessioni di Camus, lo scrittore transalpino concludeva il suo pamphlet esortando le autorità francesi a desistere dal tenere in vita nei propri codici questo strumento primitivo e, finalmente, cominciare un cammino di civiltà che rappresentasse un esempio anche alle altre comunità dell’intero pianeta. Lo scopo era di scoprire la vera immagine della pena di morte, proprio alla luce della sua irrilevante valenza esemplare di effetto deterrente: “Non vi sarà pace durevole né nel cuore degli uomini né nei costumi della società sin quando la morte non verrà posta fuori legge”. 

La volontà di mitigare le sofferenze dei condannati nel corso della storia, con strumenti e pratiche più o meno dolorose, ha evidenziato quanto ipocrita e disgustosa possa essere questa malcelata idea negli uomini di considerare la pena di morte come un atto “ineluttabile”. È questo uno dei punti più abietti che pervade ancora una schiera consistente di persone, nell’opinione pubblica e nelle destre più regressive, che non perdono occasione per veicolare atteggiamenti giustizialisti in condizioni di fragilità sociale e politica. Molti sono ancora coloro i quali si ritengono non solo favorevoli a questo criminale concetto di giustizia, ma si augurano addirittura un ripristino della pena capitale. Questa dinamica è sopravvissuta in parte anche nelle moderne democrazie occidentali che, pur avendola abolita in un lungo e tortuoso processo di maturazione, rimane sedimentata come idea consolidata di giustizia. Il turbamento che provoca questo atto di assoluta brutalità ci riconduce proprio alle tesi di Camus, che intravedeva una sorta di dominio dell’irrazionalità, della semplicità, della mancanza di capacità dell’intravedere nella complessità degli accadimenti quel riferimento principale che dovrebbe guidare ogni essere al mondo: il senso dell’umano. “Dalla lieve frescura sul collo” prevista dal dottor Guillotin nell’elaborare il suo meccanismo di morte, alle iniezioni letali, alle sedie elettriche, passando per le impiccagioni sulle pale meccaniche, i metodi di esecuzione non hanno certo mutato l’origine della pena che risiede in un atteggiamento specifico degli esseri umani: vendetta ed espiazione della colpa. Ma che cosa provocherà nelle vittime, nei congiunti, nelle persone care che hanno subito il torto, l’esecuzione capitale del carnefice? Forse si è mossi dalla consapevolezza che nessuno possa redimersi, pentirsi, scusarsi, implorare perdono, chiedere una grazia o, forse, a un certo punto della prigionia in attesa della morte di poter addirittura dimostrare di essere innocenti. Una presunzione che, alla base di tutto ciò, sembra profilarsi come un’arroganza legittima nel cono d’ombra della gravità del crimine subito. La consapevole condizione di potersi ergere a giudici supremi e sentirsi legittimati nel vedere esaudite le proprie soddisfazioni con l’esecuzione della pena, rimane tuttavia una dinamica di complessa identificazione e spiegazione nelle moderne comunità umane. Inoltre Camus poneva l’accento sull’“attesa del carnefice” alla morte, una condizione da ricondurre a una ulteriore forma di tortura sottile e mai considerata: il condannato seppur consapevole non è informato da subito del momento della sua fine tanto da provocare, in questa dilatazione del tempo, una pena aggiuntiva e sadica: “Generalmente l’uomo è distrutto dall’attesa della pena capitale molto tempo prima di morire. Gli si infliggono due morti, e la prima è peggiore dell’altra, mentre egli ha ucciso una volta sola. Paragonata a questo supplizio, la legge del taglione appare ancora come una legge di civiltà. Non ha mai preteso che si dovessero cavare entrambi gli occhi a chi aveva reso cieco di un occhio il proprio”.

Chi altro possa essere il boia, ai nostri occhi, se non un assassino per procura: il mandatario del supremo ordine dello Stato ben protetto da una retorica oscurantista e dalle leggi di quella “giustizia” che, finalmente, può dimostrare il trionfo del decreto nella sua definitività e inflessibilità. L’esigenza della necessarietà della punizione è un teorema fondato su una specifica perversione che risiede nel desiderio di vendetta e di espiazione della colpa. Molto spesso gli Stati in cui viene massicciamente praticata si ispirano a “valori” morali e religiosi talvolta millenari. Quanto la mistificazione di questa crudeltà tocchi livelli di insopportabilità risiede proprio nella consapevolezza, statistica, che l’equilibrio sociale non subisca alcun ordine come si vorrebbe far credere. Al contrario la tanto osannata simmetria fra pena ed equilibrio sociale si dissolve in una ulteriore instabilità che è figlia naturale della violenza. La strategia di provocare la morte in chi l’ha provocata non regge sull’altare del “ritorno alla normalità”, con la speranza di ristabilire quell’equilibrio che le classi dominanti vogliono far credere di poter raggiungere e non ci sono mai riuscite. Nella realtà non vi è risarcimento di nessun tipo e, per certi aspetti, questo “desiderio” viene risolto nel senso non voluto: infatti una pena detentiva definitiva potrebbe essere una punizione ben maggiore della stessa pena di morte.

La domanda principale del filosofo francese tornava incessante su ciò che origina l’esecuzione di una pena definitiva. Quando l’individuo che ha infranto le regole con il suo comportamento criminale viene giustiziato, di che cosa usufruisce la società che lo ha condannato? Per Camus una società che condanna a morte un individuo nasconde in realtà la propria dimensione criminale, ponendosi in modo manicheo a “divinità autosacralizzata” che difende la propria autoconservazione: “[la società] Si arroga il diritto di selezionare, quasi fosse ella stessa la natura, e di aggiungere sofferenze immense all’eliminazione, quasi fosse un dio redentore. Affermare che un uomo deve essere assolutamente radiato dalla società in quanto assolutamente malvagio, equivale a dire che la società è assolutamente buona, e nessuna persona sensata può crederlo oggi. Non lo si crederà, e si penserà più facilmente il contrario. La nostra società è diventata così malvagia e criminale perché ha eretto se stessa a fine ultimo, e non ha rispettato più nulla all’infuori della propria conservazione, o della propria riuscita nella storia. Desacralizzata lo è, questo è certo. Ma già dal diciannovesimo secolo ha cominciato a costituirsi un surrogato di religione, proponendo se stessa come oggetto di adorazione”. 

La pena di morte fu in Francia una vergogna spesso taciuta o registrata con un linguaggio ipocrita e allusivo. Per Camus questo delitto era sicuramente uno strumento che veniva perpetrato in una sorta di realtà dormiente: Quando l’immaginazione dorme, le parole si vuotano di senso: un popolo sordo registra distrattamente la condanna di un uomo. Ma che si mostri il meccanismo, che si faccia toccar con mano il legno e il ferro, che si faccia sentire il tonfo della testa che cade, e l’immaginazione pubblica, risvegliata di soprassalto, ripudierà al tempo stesso il vocabolario e il supplizio. Quando i nazisti procedevano in Polonia a pubbliche esecuzioni di ostaggi, per evitare che urlassero parole di rivolta e di libertà li imbavagliavano con bende imbevute di gesso”. Per questo era necessario che la dialettica sulla pena di morte uscisse dal suo limbo, dalla sua necessarietà, dal teorema stesso della sua inevitabilità.

Nella maggior parte degli Stati del mondo è diffusa questa violenza brutale anche come forma di tortura: soprattutto nei confronti di dissidenti, obiettori, libertari e antagonisti ai regimi dittatoriali. Il nostro silenzio verso quello che accade ci rende colpevoli, dolorosamente coscienti di una nostra diretta responsabilità. I diritti umani sono l’essenza stessa dei sistemi di governo che non possono prescindere da valori irrinunciabili e mai negoziabili.

La sfida risiede proprio in questa consapevolezza che trova nell’universalismo di questi valori il dato fondante di una nuova Umanità.