di Francisco Soriano

La Storia della colonna infame è un saggio storico di Alessandro Manzoni che venne pubblicato in appendice alla seconda edizione dei Promessi Sposi nel 1842. Lo scrittore ricostruì i tragici eventi della peste scoppiata a Milano nel 1630 e, in particolare, la sventura di due uomini con la loro vicenda giudiziaria: furono accusati di essere gli untori del morbo in città. Il testo rappresentò una vivace dialettica sull’argomento della giustizia e dell’applicazione della legge da parte dei giudici. Questo percorso fu cominciato da Pietro Verri, che anni prima aveva dedicato ai temi della tortura e della pena di morte importantissimi contributi. Lo stesso Manzoni citava nell’introduzione alla sua opera le Osservazioni sulla tortura: “Pietro Verri si propose, come indica il titolo medesimo del suo opuscolo, di ricavar da quel fatto un argomento contro la tortura, facendo vedere come questa aveva potuto estorcere la confessione d’un delitto, fisicamente e moralmente impossibile. E l’argomento era stringente, come nobile e umano l’assunto”. Tuttavia, il Manzoni, a differenza di quanto aveva sostenuto Pietro Verri nelle sue Osservazioni, prese posizione soprattutto contro i giudici che, a suo dire dolosamente, avevano agito inumanamente solo con lo scopo di sacrificare un capro espiatorio alla ferocia del popolo.

Il racconto del percorso giudiziario del commissario Piazza e del barbiere Mora, protagonisti loro malgrado di questa tragedia storica cristallizzata nei secoli dalla celebrazione che ne fece la Colonna infame, feticcio della vittoria del bene sul male, venne ben rappresentata dal Manzoni: alcuni testimoni avevano visto il barbiere, mano agente del commissario Piazza nei pressi di Porta Ticinese, intento a cospargere un intruglio dal colore giallastro sui muri della zona, a loro dire sicuro liquido venefico atto a diffondere il contagio presso la popolazione. Arrestati e torturati barbaramente, finiranno la propria esistenza fra immani sofferenze. Forse le autorità milanesi con questa scelta sciagurata alimentata da credenze popolari posero un freno all’instabilità pubblica determinata dalla paura del morbo, ma non seppero opporre strategie per fermarlo. I punti che però Manzoni volle evidenziare erano altri: la giustizia interpretata dai giudici dell’epoca era corrotta e inefficiente? La responsabilità di un gesto barbaro come la tortura e la pena di morte propinata a due innocenti ricadeva sui giudici? La colpa di questa condotta doveva essere attribuita come una responsabilità individuale? Può esserci giustificazione all’operato dei magistrati nel condizionamento sociale? La paura fu un elemento motore dell’errore giudiziario?

Nel romanzo Alessandro Manzoni costruiva consapevolmente un lieto fine della storia ma, nella narrazione della cruda realtà, talvolta tragica, faceva ben prevalere nei suoi scritti le prevaricazioni e le strategie di coloro i quali per detenere il più a lungo possibile il dominio erano capaci di perpetrare qualsiasi nefandezza. Una sorta di deriva pessimistica che trovava riscontro nella veridicità ed essenzialità degli accadimenti storici, spesso incontrovertibili nella loro drammatica ellissi finale. In questi casi Manzoni assolveva al suo ruolo di sincero storiografo. Egli riusciva a narrare la verità dei fatti soprattutto nelle dinamiche in cui, sull’altare della ragione dei più forti, si sacrificavano valori ed esseri umani innocenti in un vortice di insopportabile ingiustizia: Dio solo ha potuto vedere se que’ magistrati, trovando i colpevoli d’un delitto che non c’era, ma che si voleva, furon  più complici o ministri d’una moltitudine che, accecata, non dall’ignoranza, ma dalla malignità e dal furore, violava con quelle grida i precetti più positivi della legge divina, di cui si vantava seguace.  Nel caso letterario del Manzoni, con il suo scritto sulla Colonna infame, lo scrittore produsse un libello con una identità moraleggiante anche per i riferimenti continui alla fede religiosa (a questa lettura si oppose fortemente Leonardo Sciascia). L’accusa virulenta ai giudici contro cui si accanì, si spostava su molteplici piani: questi censori erano incontestabilmente colpevoli di aver gettato in pasto alla plebe vittime innocenti e di aver utilizzato le leggi che, con la loro labirintica interpretazione, avevano dato la possibilità di accreditare condanne e malefici agli accusati. La responsabilità, infatti, e in questo sembra indiscutibile la disamina del Manzoni, fu totalmente a carico delle autorità sanitarie del tempo incapaci e inette nell’affrontare l’emergenza.

Si sono susseguite copiose negli anni, fino ai nostri giorni, la polemica e la relativa dialettica sulla tortura, sulla pena di morte, sulla giustizia, sulla responsabilità dei giudici, sulla colpa e l’espiazione delle paure collettive, sulle pestilenze e gli interpreti del Male che hanno a cuore solo la gestione del proprio potere. Nel 1981 fu Leonardo Sciascia a dare la sua interpretazione, in una introduzione per alcuni versi sorprendente, alla Storia della Colonna infame con uno scritto dal titolo I burocrati del Male. Lo scrittore siciliano da sempre assertore del garantismo come riferimento principale nella giustizia e particolarmente sensibile alle questioni riguardanti le dinamiche giudiziarie, dà una acuta quanto originale versione secondo cui, il Manzoni, avrebbe convertito il suo cattolicesimo all’illuminismo e non il contrario come si andava sostenendo concordemente da coloro i quali, a suo dire, avrebbero avuto un approccio sulla questione abbastanza “superficiale”: è stato detto che (il Manzoni) ha convertito, convertendosi, l’illuminismo al cattolicesimo; ma penso che in lui è forse accaduto il contrario: il cattolicesimo si è convertito. La superficialità nella lettura critica del testo del Manzoni, per Sciascia, consisteva nella volontà dei più di etichettare semplicisticamente come “provvidenzialistiche” le asserzioni dello scrittore lombardo sui giudici. Per questo motivo Sciascia si arroccò su una posizione che sublimava le idee del Manzoni, perché ritenute coraggiose e assolutamente giuste. Fu a questo punto che, in polemica con le tesi di Fausto Nicolini (che furono espresse in un saggio del 1937, dal titolo “Peste e untori: nei Promessi Sposi e nella realtà storica”, in difesa dei giudici e della loro presunta onestà nell’applicazione della legge), lo scrittore siciliano oppose una decisa resistenza.

Leonardo Sciascia era un conoscitore profondo delle dinamiche politiche e sociali che si determinano sia in condizioni di emergenzialità che nelle logiche malavitose dei vari territori che inficiano soprattutto il sud Italia. Egli metteva in guardia su un pericolo sempre in agguato: quello dei “cattivi governi” che sono costantemente alla ricerca di capri espiatori e di scuse giustificative per mistificare le proprie nefandezze, utili solo alla loro temporanea egemonia con la preoccupazione della gestione del dominio. Con deliberate e studiate azioni repressive, inoltre, i governanti cercano sempre e sistematicamente di scaricare le proprie responsabilità su fantomatici mali esterni, sulla diversità dell’altro, su quegli eventi che, una volta offuscata la realtà, vengono fatti risalire addirittura al demoniaco. È il rischio di sempre: quello che in condizioni di grave crisi sociale e politica intervenga quel fattore sempre latente del ritorno magari in punta di piedi di un nuovo fascismo, una dittatura sotto sembianze buoniste che colpisce spiriti fragili sottoposti alle derive dei propri tempi. La giustizia sommaria, quella del “facciamola finita subito”, rappresenta il campanello d’allarme che forse risuona nelle persone quando è già troppo tardi per rendersi conto che la deriva autoritaria è già in una avanzata fase di sviluppo. La giustizia sommaria è proprio questo: ignoranza e informazioni mistificate che non appartengono solo al Seicento manzoniano, ma sopravvivono pericolosamente anche oggi.

Lo scrittore siciliano si concentrava dunque sulla disamina delle biografie e dei testi dei due scrittori, sulle “ideologie” che muovevano i due grandi pensatori e letterati: Verri l’illuminista che si prodigava affinchè l’oscurantismo venisse travolto definitivamente dal mondo della luce, Manzoni il cattolico che poneva l’accento sulle responsabilità individuali delle persone: più vicini che all’illuminista ci sentiamo oggi al cattolico, sentenziava Sciascia. Per sostenere la giustezza delle affermazioni manzoniane egli poneva l’attenzione sull’analogia fra i campi di sterminio nazisti e i copiosi processi contro gli untori e altre tipologie di vittime espiatorie. Sciascia citava Nicolini nella parte in cui quest’ultimo sosteneva che, nel processo a carico dei due untori, l’istruttoria venne delegata a un Monti e a un Visconti, ch’è quanto dire a uomini di cui tutta Milano venerava l’integrità, l’illibatezza, l’ingegno, l’amore pel bene pubblico, lo spirito di sacrificio e il grande coraggio civile”. A questa riflessione Sciascia opponeva come risposta l’esempio parallelo: il caso storico della deriva nazista che “è quanto di più terribile ci sia rimasto nella memoria e nella coscienza di tutta la letteratura sugli orrori nazisti pubblicata dal 1945 in poi”. Egli trovava conforto, per suffragare la sua idea, anche nella citazione degli scritti di Charles Rohmer (dal suo celebre L’Altro): l’autore faceva comprendere quella “dimostrazione per assurdo, in cui è proprio la parte di umanità rimasta nei burocrati del Male e la loro capacità di sentire ed agire come tutti noi, a dare l’esatta misura della loro negatività” […]. Nelle società anche odierne esistono molti che assomigliano agli “aguzzini di Rohmer, che erano buoni padri di famiglia, sentimentali, amanti della musica e rispettosi degli animali. Quei giudici furono i “burocrati del Male”, sapendo di esserlo”. Dunque l’asserzione della loro intelligenza e onestà veniva capovolta da Sciascia che faceva notare: “Due qualità che, nel caso, non potevano coesistere: perché è possibile fossero onesti ma imbecilli: o che fossero disonesti essendo intelligenti”. Inoltre, senza prendere seriamente in considerazione che la verità venne strappata ai due untori con la squallida tortura, il Nicolini ebbe il demerito di non considerare sufficientemente la battaglia intrapresa dal Verri contro la tortura che, ancora oggi, va sostenuta con forza.

Sulla battaglia che ognuno di noi deve condurre per i diritti umani e contro gli arbitri di certa magistratura, Sciascia aveva le idee chiare: “[…] il Verri faceva una battaglia; una battaglia che ancora oggi va combattuta: contro uomini come quelli, contro istituzioni come quelle. Poiché il passato, il suo errore, il suo male, non è mai passato: e dobbiamo continuamente viverlo e giudicarlo nel presente, se vogliamo essere davvero storicisti”. Molte sono le domande che ci poniamo: siamo certi che quel passato di orrori non ci sia più? È sufficiente dire oggi che ormai l’istituto della tortura è stato abolito, nella nostra Europa e in qualche altro Stato di questo mondo? Che il fascismo sia passato come “una passeggera febbre di vaccinazione”? In realtà la tortura e il fascismo sopravvivono, in altre sembianze e talvolta nelle stesse forme d’orrore che abbiamo visto con l’Olocausto. Ai “burocrati del Male” non c’è mai fine e di questo dobbiamo seriamente preoccuparci.