di Mauro Baldrati

Più che una serie noir forse si potrebbe definire gialla. Un giallo di nuova generazione, oppure old fashion, dipende dai punti di vista. Gli ingredienti ci sono: un caso intricato, apparentemente insolubile, le indagini, i retroscena, i segreti; e poi la corruzione, lo schermo ipocrita dell’apparenza, la perversione. L’epica blues è solida, per il ritmo, le suggestioni; basterebbe sostituire l’attore protagonista, l’ex fotomodello Matteo Mortari (che peraltro è perfetto per il ruolo) con Mattew McConaughey, e cambiare l’ambientazione da Nordest/foce del Po con le Everglades per avere una serie blues da manuale. Già, perché il blues è l’estetica di riferimento. E’ presente come musica, come struttura poetica/filosofica. L’Alligatore è da sempre innamorato, con fedeltà granitica di stampo proustiano, di Greta, una ragazza “tosta”, con una perfetta faccia da blues singer dall’aura romantica. Infatti il suo personaggio è davvero una cantante blues, che esegue pezzi lenti e struggenti.
Anche il bar frequentato dai personaggi è blues. Si affaccia sul Po/Mississippi, come del resto il romanticissimo loft dove vive l’Alligatore. Poi c’è il suo pard, Beniamino, che non è un bluesman (ama la musica da ballo latinoamericana, che l’Alligatore giustamente detesta), ma ne sprigiona comunque i segni: ex contrabbandiere, quindi criminalità onesta vecchio stile, niente a che fare con la droga, frequentatore di night come certi vecchi bluesmen lo erano dei bordelli. La fotografia è blues, calda, pastosa, con un tono elegantemente vintage. E lui, l’Alligatore in persona, è un bluesman bianco di pura razza: indossa un vecchio giubbotto di pelle, cammina dinoccolato, ride solo se è indispensabile, parla poco; ha un berretto che abbiamo già visto sulla testa di John Lee Hooker, e occhiali per niente alla Terminator, ma anni ’70, barbetta castana, capelli mediamente lunghi; ha un’aria vissuta quanto basta, infatti è appena uscito di galera, dove ha scontato alcuni anni per essersi rifiutato di tradire un amico finito nei guai.
Pertanto non possiamo che fare i complimenti a tutto lo staff, i registi, gli sceneggiatori (tra i quali lo stesso Massimo Carlotto, che compare anche in un cameo), i costumisti, gli scenografi, il tecnico della fotografia, il responsabile della colonna sonora, per la creazione di un’estetica blues italiane credibile e sincera, e di storie avvincenti, anche per l’efficienza dei personaggi, interpretati da attori dotati e attraenti.
A questo punto il lettore pensa: Ok, ma quando arriva il “ma”?
E’ arrivato infatti.
Ma.
Ci sono dissonanze, segni scaleni che stridono e graffiano. Alcuni sono dettagli, perdonabilissimi in una serie zeppa di complicanze e beghe da risolvere, come tutte le opere gialle. Ma altri sono più gravi, o addirittura molto gravi, che inquinano la purezza cristallina che li precede.
Beniamino per esempio. E’ la spalla dell’Alligatore, ma non si capisce perché collabori con lui in quel modo, rischiando la vita. Almeno il suo capo potrebbe pagarlo, visto che riceve spesso delle buste con robuste mazzette di banconote. Nel primo episodio l’Alligatore lo obbliga a seguirlo nella sua indagine in nome della vecchia amicizia con un compagno di prigione, e da lì in poi lo troviamo in ogni episodio, pronto, affidabile, fedele.
Ma questo è, appunto, un dettaglio quasi insignificante. Beniamino c’è, è importante, è il braccio dell’Alligatore, non stiamo a spaccare il capello in quattro con tutte le gatte da pelare che hanno gli sceneggiatori.
Poi i dialoghi. Ridotti all’essenziale, e questo va bene; le ultime mode sono rivolte alla sottrazione, alla pulizia e la sintesi. Ma ad ogni domanda l’Alligatore, e non solo lui, per rispondere impiega una quantità di secondi, tanto che lo spettatore rimane col fiato sospeso e si chiede: “Risponderà?” D’accordo, una delle interfacce del nuovo cinema italiano è la lentezza. Per dire, La belva è senz’altro il film più lento che mai sia stato girato. Però quando si esagera si esagera.
Ma c’è di peggio, molto di peggio.
L’abuso di superalcolici per esempio, con una modalità ossessiva che risulta incomprensibile. Come nei film americani certi personaggi belli palestrati si versano in gola bicchierate scurrili di whisky come niente, così l’Alligatore svuota bottiglie di Calvados (il nuovo liquore super cool?) praticamente in tutti gli episodi. Se qualcuno gli offre un bicchiere d’acqua dice “non sono mica una pianta”, e giù col Calvados. Non si capisce l’esigenza narrativa di una tale insistenza. Se ci mettiamo anche le sigarette, che si rolla quasi in continuazione, abbiamo uno stereotipo vecchio, in un’opera che si avventura in uno stile antico rielaborandolo per ricavarne un prodotto innovativo e originale.
Ma anche qui lo spettatore usa la pazienza e tira avanti, apre i nuovi episodi e ritrova i suoi eroi, i suoi fratelli, e li segue nelle avventure e nei loro piccoli grandi amori.
Ma purtroppo c’è di peggio, molto, molto di peggio.
Nel quarto episodio l’Alligatore e Beniamino in un momento di pausa cuociono viva un’aragosta. Crediamo – speriamo – che non avvenga davvero, ma sia solo finzione (il fuoco sotto la pentola sembra spento), poiché esiste una norma nel codice penale (art. 727) che vieta di provocare sofferenze agli animali per esigenze di scena. Ma questo non è importante. E’ il messaggio che conta. E’ l’affermazione della mentalità che sta alla base della rovina del pianeta che ci dà da vivere: io sono il padrone, io ho il diritto di appropriarmi di tutto, perché tutto mi appartiene. Anche la vita e le sofferenze di tutti gli esseri viventi. Cosa c’è di più arcaico, di più reazionario? La cosa che stupisce è che la serie vuole avere anche una valenza ecologista. Un altro collaboratore dell’Alligatore, un hacker, denuncia il businness dei rifiuti clandestini, liquami che vengono sversati nei terreni e nei fiumi da rispettabili faccendieri padovani. Fa anche indagini e rischia grosso per contrastare la violenza degli allevamenti intensivi, veri e propri lager. Che ecologia c’è in un’azione sadica che riduce in polvere ogni affermazione di rispetto e compassione verso tutte le forme viventi? Forse questo gesto, sommato all’alcolismo cool e al tabagismo compulsivo, dovrebbe qualificare i nostri due eroi come trasgressivi e fighi? In realtà li presenta per quello che, purtroppo, li hanno fatti diventare: il contrario della trasgressione, una coppia di tristi, pre-moderni energumeni.
A questo punto ci manca solo che vadano a caccia per sport, o alla corrida. O a mangiare il fegato grasso dallo “chef” scannatore di agnelli Vissani. E non è detto che ciò non accada nei prossimi quattro episodi, ma ormai il lavoro lungo e accurato fin qui realizzato è rovinato da questa sciatta caduta.
E allora un malinconico adieu all’Alligatore, a quello che avrebbe potuto essere, perché la serie termina qui.