di Paolo Lago

David Lapoujade, Deleuze. I movimenti aberranti, a cura di C. D’Aurizio, Mimesis, Milano-Udine, 2020, pp. 335, € 24,00.

È uscita recentemente per Mimesis, nella collana “Le Dehors”, la traduzione italiana, realizzata da Claudio D’Aurizio, del volume di David Lapoujade (docente alla Sorbona e allievo di Giles Deleuze), Deleuze. I movimenti aberranti (pubblicato nel 2014 per i tipi di Minuit). Merita sicuramente soffermarsi sul nome della collana: “Le Dehors”, cioè “il Fuori”. Questo nome non è stato scelto a caso ma fa riferimento a un preciso contesto filosofico-culturale della Francia del secondo Novecento: secondo quanto scrive Jean-Paul Sartre, “non è in un ipotetico rifugio che scopriamo noi stessi, ma per la strada, per la città, in mezzo alla folla, cosa tra le cose, uomo tra gli uomini” (e si possono ricordare anche gli elogi della strada attuati da Céline già nel 1932, nel suo Viaggio al termine della notte, quel “c’è solo la strada” ripreso da Gaber e Luporini in una nota canzone). Come nota Fabrizio Palombi nella prefazione, dehors diventa “la parola d’ordine di una comune missione teorica e vitale. La ritroviamo nelle pagine di Gaston Bachelard, negli scritti di Maurice Blanchot, nelle pieghe di Gilles Deleuze, nei testi di Jacques Derrida, nelle analisi di Maurice Merleau-Ponty e, soprattutto, nelle pagine di Michel Foucault”, autore, quest’ultimo, di un’opera intitolata Il pensiero del fuori. Ed è proprio attraverso gli strumenti offerti da quest’ultimo studioso che si presta ad essere analizzato il periodo che stiamo adesso vivendo, in cui il “Fuori” viene continuamente negato e interdetto. La pratica del lockdown, il mantra dello “state a casa”, le dinamiche di controllo armato rivolte a chi esce di casa ‘senza motivo’ sono semplicemente l’ipostatizzazione di un controllo diffuso già a partire dalla modernità, ampiamente analizzato da Foucault. Mettere in discussione tali pratiche, perciò, in questo periodo, non significa assolutamente negare la pericolosità del virus; si tratta, bensì, di una messa in discussione che investe alcuni meccanismi di controllo preesistenti alla diffusione del virus e che, grazie ad esso, emergono allo scoperto. Comunque, tornando a Deleuze, si può notare, con Palombi, che “il libro di Lapoujade c’invita ad affacciarci continuamente sul Fuori per respirare ancora una volta, proprio come Deleuze sosteneva a proposito di Sartre e di Foucault, una boccata d’aria fresca proveniente dal dehors”.

È bene mettere subito in chiaro che non si tratta di una lettura semplice. Come osserva D’Aurizio nella postfazione, “la difficile ascesa teorica alla sua cima ripaga il lettore con la possibilità di dominare, tramite uno sguardo teoretico d’ampio respiro, molti dei problemi centrali della filosofia di Deleuze. La lettura di questo libro, infatti, implica l’attraversamento delle spesse nebbie evenemenziali e delle fitte selve logiche che popolano il suo pensiero”. L’importanza maggiore del libro di Lapoujade sta nel fatto che esso non rappresenta una semplice “introduzione” a Deleuze; non si limita a ripeterne formule e concetti “ma ne dispiega diversamente il tessuto per comporre delle immagini nuove, contemporanee”. Come nota Lapoujade nell’introduzione, “la filosofia di Deleuze si presenta come una filosofia dei movimenti aberranti o dei movimenti forzati. Costituisce il tentativo più rigoroso, più smisurato, ma anche più sistematico, di catalogare i movimenti aberranti che attraversano la materia, la vita, il pensiero, la natura, la storia delle società”. Ricordiamo che “aberrante” (da “ab”, moto da luogo e “erro”) in senso etimologico, può significare sia “vagare senza una meta precisa” sia “sbagliare”. Perciò, la funzione dei movimenti aberranti, come scrive l’autore della postfazione, “è quella di condurci sino ai limiti del pensiero, dell’immaginazione, della memoria, della sensibilità, del linguaggio e di spingerci oltre, di farceli oltrepassare, conducendoci così all’impensabile, all’inimmaginabile, all’immemorabile, all’insensibile, all’indicibile che lavorano costantemente queste facoltà. I movimenti aberranti comunicano con l’aldilà del limite, con il rovescio della frontiera. In una parola: con il Fuori”.

Per Deleuze, “un movimento è tanto più logico quanto più sfugge a ogni razionalità. Più è irrazionale, più è aberrante, più è logico”. Uno fra i più significativi movimenti aberranti analizzati da Deleuze è ciò che egli chiama “deterritorializzazione” in Mille Piani (scritto insieme a Félix Guattari) e “sfondamento” in Differenza e ripetizione. Come scrive Lapoujade, “la deterritorializzazione è il movimento aberrante della terra. La deterritorializzazione della terra è il più grande, il più potente di tutti i movimenti aberranti, quello che, in un modo o nell’altro, alimenta tutti quanti gli altri. La deterritorializzazione sta alla terra come il senza-fondo sta al fondamento”. I nomadi sono coloro che seguono la terra nella sua deterritorializzazione, sono “i più liberi rispetto alla nozione di territorialità”. Sono anche coloro che deterritorializzano la terra. Se per l’Anti-Edipo, le formazioni sociali sono tre (Selvaggi, Barbari, Civilizzati), per Mille Piani sono almeno cinque: le società primitive di lignaggio, gli apparati di Stato, le società urbane, le società nomadi, le organizzazioni internazionali. I nomadi si servono della “macchina da guerra” nomade per distruggere gli Stati e per seguire la loro linea di deterritorializzazione mentre lo Stato, a sua volta, si appropria della stessa “macchina” per consolidare la propria potenza politica. Ma una “macchina da guerra” è anche quella attraverso la quale il capitalismo “instaura una guerra potenziale – lo status quo nucleare – come fondamento di una pace terrificante, di una politica securitaria postfascista e di una distruzione della terra abitabile senza precedenti”. C’è un combattimento costante che attraversa Mille Piani: nomadismo contro imperialismo. Se l’asservimento dispotico integrava le popolazioni umane in una “mega-macchina imperiale”, “le nuove tecnologie integrano le popolazioni umane in nuove macchine sotto forma di banche dati, di algoritmi, di flussi d’informazioni”. E allora, Lapoujade giunge alla conclusione che viviamo in un mondo-schermo, un mondo composto esclusivamente di immagini mentre non esiste più un mondo esteriore in cui agire. C’è solo uno schermo o “una tavola d’informazione con cui interagire”. Si tratta di un mondo esterno che manca di esteriorità, un “mondo senza fuori”. La distinzione interno/esterno non ha più senso perché tutto accade in uno “spazio di informazione” stracolmo di cliché.

Il concetto di “terra”, in Deleuze, è strettamente collegato a quello di “deserto”. Quest’ultimo è assai presente nelle opere del filosofo francese: in Differenza e ripetizione, ne L’anti-Edipo, in Mille Piani, in Cinema 2. L’immagine-tempo. La stessa filosofia – scrive Lapoujade – ha bisogno di un deserto. Il deserto non è “l’utopia di un altro mondo, ma una a-topia all’interno di questo mondo. È un luogo di giustizia; è in nome della giustizia del deserto che noi possiamo denunciare le ingiustizie di questo mondo”. È il deserto dei “cristalli di tempo” che ritroviamo nel cinema di Fellini, Antonioni, Pasolini. In quest’ultimo autore, il deserto è l’a-topia dove riecheggiano le grida di giustizia degli ultimi della terra contro l’ingiustizia sociale che in essa regna sovrana. È uno spazio-tempo separato da dove può forse partire l’attacco di una nuova macchina da guerra nomade per sovvertire le griglie degli apparati di stato. Perché Lapoujade fa suo e rinnova un importante grido filosofico di Deleuze: che si combatta, sempre e ovunque, la lotta a favore delle minoranze, di ciò che è intrinsecamente minore, “la guerra molecolare”. Vi sono tante “minoranze di fatto”, nel mondo, che intraprendono una “lotta molecolare assoluta”, come le lotte operaie, le battaglie femministe, la guerra dei Palestinesi, le Black Panthers, le lotte nel Terzo Mondo. Legata a queste lotte, nell’opera di Lapoujade, è la “necessità di pensare e di creare continuamente una nuova terra o molteplici nuove terre”.

Attraverso la questione della creazione di una nuova terra, I movimenti aberranti dialoga inoltre con uno dei filoni di ricerca contemporanei più rilevanti. La catastrofe ecologica (tema attualissimo, legato anche alla diffusione dei virus), la “fine” del nostro mondo e la costruzione di un mondo a venire sono problemi che Lapoujade discute in una prospettiva multidisciplinare che coinvolge la teoria politica, l’antropologia, la sociologia e la filosofia stessa. L’opera di Lapoujade analizza la logica della territorialità in Deleuze evidenziandone le potenzialità strategico-politiche. A tal proposito, particolarmente significativa – e più che mai attuale, si potrebbe aggiungere – appare una riflessione che Lapoujade squaderna concludendo il suo saggio: “La macchina da guerra ci distruggerà o distruggerà i limiti che ci assoggettano e ci asserviscono? Non si può saperlo in anticipo, è tutta una questione di sperimentazione”. E lo sperimentiamo sulla nostra pelle in un difficile presente: in questo caso, rovesciando il noto verso di Manzoni, non “ai posteri”, ma a noi “l’ardua sentenza”.