di Davide Grasso

Può un “compagno” affrontare uno spacciatore?

Il 16 maggio è stato diffuso dalla polizia un video in cui alcune persone, nel quartiere Vanchiglia di Torino, strattonano e allontanano due pusher nei pressi di una palestra, di un centro sociale e di due scuole. Alcuni giorni prima la procura aveva denunciato e interrogato sette attivisti del centro sociale per questo episodio, che i giornali avevano descritto con toni foschi, affrettandosi a diramare la versione della questura: l’azione nulla avrebbe avuto a che fare con il contrasto allo spaccio o con la promozione di rapporti sociali diversi nel quartiere (come sostenuto dal centro sociale), ma con una mera volontà di “controllo del territorio” accompagnata dalla motivazione, presentata dai quotidiani come egoistica, di non accettare processi di progressiva militarizzazione della zona.

Il commento dei media dice molto sull’ipocrisia con cui una buona parte dei giornalisti, indaffarati a fare la conta dei pusher nel resto del tempo (magari mettendoli in relazione acritica con le migrazioni), rivela la sua parzialità nel ribadire a qualsiasi costo che soltanto le forze dell’ordine possono affrontare questi problemi. Le autorità di polizia, dal canto loro, hanno dato in pasto alla cittadinanza un video che sarà indubbiamente di beneficio all’immagine del centro sociale presso la popolazione dell’intera città. La scelta di renderlo pubblico si comprende infatti secondo un’altra ratio: le volatili simpatie popolari, spera la questura, saranno adeguatamente controbilanciate dal discredito che gli attivisti otterranno nei loro ambienti di sinistra.

Perché prevedere sdegno a sinistra per un episodio che, dopotutto, si inserisce in un contesto dove i pusher hanno più volte mostrato di non avere granché rispetto per chi abita e vive il quartiere, e dove alcuni di essi hanno preso di mira in particolare le donne, soprattutto se prive di un uomo al loro fianco, e non solo nelle ore notturne? La vicenda dello stupro e del femminicidio di Desirée Mariottini a San Lorenzo, a Roma nel 2018, dovrebbe aver insegnato qualcosa sulle conseguenze dell’indifferenza (se non peggio) di settori della sinistra nei confronti della colonizzazione commerciale violenta dei quartieri popolari, che difficilmente assume tratti libertari, progressivi o anti-patriarcali. Eppure diverse sono state le critiche agli attivisti di Vanchiglia. Esse si sono incentrate sull’uso della violenza e su un uso del potere contro una manovalanza sfruttata composta da migranti.

Linee del potere

L’accusa di aver usato violenza (peraltro molto moderata: a stento gli spintonati ne serberanno ricordo), viene da due tipi di angolature. Da un lato chi vede nella violenza un fenomeno inaccettabile di per sé, dall’altro chi la condanna in quanto espressione di un’autorità. Nel primo caso si tratta di soggetti che difficilmente si opporrebbero a interventi delle forze dell’ordine. Va sottolineato che diverse volte, nel corso del tempo, in quel quartiere torinese i carabinieri hanno dovuto allontanarsi e rinunciare alle retate (anche contro quegli stessi spacciatori) per proteste spontanee la cui ispirazione è stata attribuita dai politici locali al centro sociale “incriminato”. È questa una contraddizione? Com’è possibile che, eventualmente, negli stessi ambienti ci si contrapponga a un tempo all’invasione poliziesca e a quella dello spaccio? Sembrerebbe un tentativo, per quanto modesto, non già di “controllare” un territorio, ma di vivere un territorio in modo imprevisto da tutta una serie di poteri, illegali e legali; ed è da qui che occorre partire per comprendere la situazione.

All’uso della violenza come tale ci si può opporre soltanto facendo propria una logica schiettamente anti-statuale. È incoerente dichiararsi pacifisti e chiamare il 113. Lo stato si qualifica proprio sulla pretesa – più che sul possesso – del monopolio dell’uso della forza. Chi fa propria una logica non-violenta dovrebbe in primo luogo, benché non soltanto, mettere in discussione questa violenza concentrata ed egemonica, e non confondere il pacifismo con il legalitarismo, che è tutt’altra cosa. La non-violenza legalitaria consiste infatti nell’affermare, poco importa se consapevolmente, che l’uso della forza deve spettare senza eccezioni al potere costituito. Se consideriamo il mercato delle sostanze non è chiaro come questo “stato senza eccezioni” possa d’altra parte essere una soluzione. La connivenza degli stati con il traffico internazionale di droga, attraverso acclarati rapporti stato-mafie che vedono nell’Italia un esempio all’avanguardia, non depone a favore di questa ipotesi; come del resto la connessione statale con le reti di spaccio a fini di spionaggio sociale, infiltrazione del territorio e repressione politica – elementi storicamente accertati e del tutto fuori discussione.

Con un linguaggio disonesto l’episodio di Vanchiglia è stato bollato come “ronda” non solo dalle veline della questura, ma anche da persone che si richiamano a una critica di presunte essenze o funzioni storiche dello stato, e che sostengono l’idea (di solito non meglio descritta) di una “società senza stato”. L’insulto iperbolico è, d’altra parte, conditio sine qua non dei “dibattiti” nella sinistra odierna. Non parlo naturalmente dei propugnatori della concezione confederale di matrice curda dell’estinzione dello stato, cui non verrebbe neanche in mente di eccepire in casi come questo, ma dei vari ambienti culturali “antiautoritari” di matrice europea. Allontanare un pusher viene visto come la sostituzione di un potere con un potere del tutto analogo e altrettanto nefando: uno stato “alternativo” e magari peggiore, ancorché clandestino e in fieri.

Anche questa posizione, come quella legalitaria, è meno innocente di quanto si pensi. L’uso della forza è necessario tanto per i progetti realistici di contrasto, per non parlare di abbattimento, dello stato, quanto per la gestione collettiva di un’ipotetica società senza stato, che a maggior ragione non potrebbe fare a meno di regole e di reggersi su un’idea di giustizia. Se quindi è ingenuo identificare stato e potere, o quest’ultimo con questa o quella sua manifestazione storica, lo è altrettanto credere che il “potere”, come richiama il verbo stesso, possa essere nel suo fondamento chiaramente distinguibile, e con piena onestà intellettuale, dalla libertà, se essa è facoltà di fare questo o quello (a discapito o meno di altri individui) e poter quindi agire in questo o in quell’altro modo, con le conseguenze sociali di ogni caso.

Queste critiche tendono quindi, semmai, a mostrare l’assenza di fondamento di tutta una certa cultura, che resiste nella misura in cui non deve spiegare in modo perspicuo la sua logica concreta e i suoi obiettivi reali. L’idea di una società dove ciascuno avesse libertà illimitata, idea alla base dello schifo per un qualsiasi concetto di “potere”, sarebbe una società in cui il potere sarebbe, in pura teoria, limitato solo dai rapporti di forza. L’ipotesi secondo cui ciascuno si conformerebbe spontaneamente a comportamenti che, quali che siano, non limitano la libertà/potere degli altri, non sembra poter essere legata che alla prospettiva di una catechesi universale talmente invasiva e di massa da identificarsi, se mia possibile, con un livello apicale e mai ancora realizzato di potere: la conquista nichilistica completa di ogni anfratto dell’interiorità umana. Questo renderebbe gli effetti ipotetici di un anarchismo così ingenuo ancora più lontani dalla libertà di quelli raggiunti dal movimento comunista.

Potrebbero sembrare considerazioni marginali perché astratte, ma una simile mentalità, che certo vede indifferenti o ignare le masse, corrode da decenni i dibattiti di coloro che si vogliono eredi di una considerazione critica della realtà. Agire contro determinate istituzioni politiche, economiche o sociali può prevedere in varie forme, e in molti casi, un esercizio di forza in senso stretto o in senso lato, e quindi di potere, salvo nascondersi dietro pudicizie linguistiche. Se questo vale alla fine del processo di cambiamento, a maggior ragione varrebbe nel corso del processo di scontro, quale che sia, e tanto più se si intende provocare una “rivoluzione” (la quale, qualunque cosa sia, non si può certo limitare alla  “insurrezione” o alla “sommossa”).

Linee del mercato

Si è detto che l’atteggiamento ritratto nel video rivelerebbe una logica “proibizionista”. Le logiche “proibizioniste”, senz’altro nefaste in molte delle condizioni possibili, o le declinazioni altrettanto nefaste che l’antiproibizionismo ha assunto in molti contesti, non sono invece pertinenti. L’episodio in questione riguarda non il consumo come tale delle sostanze, ma le forme del loro commercio. Una questione che a molti consumatori, soprattutto i più critici, dovrebbe stare a cuore.

Si è detto che si otterrebbero migliori risultati con metodi diversi. Questi ultimi vengono però raramente esplicitati. Essere “di sinistra” consiste per alcuni nel rimuovere non storicamente, ma psicoanaliticamente ciò che non piace, compresa la triste necessità di dover fornire proposte alternative e soluzioni. Le pur essenziali “sensibilizzazione” e “informazione” , che qualcuno ha citato, potrebbero e dovrebbero accompagnare qualsiasi azione politica (si pensi all’antifascismo), ma visto che i tempi e le condizioni di efficacia dell’informazione sono lunghi e i tempi con cui le controparti politiche e istituzionali ci sottraggono spazi è rapidissimo, non è consigliabile rinunciare anche a risposte nell’immediato.

Si osserva che, se si vuole attaccare la forma di questo commercio, occorre orientarsi sulla struttura gerarchica dell’azienda illegale, non sulla manovalanza sfruttata. Osservazione giusta, ma che nasconde un idealismo sconcertante. Certo: anche contrapporsi al crumiro sul luogo di lavoro è spesso una scelta non facile, soprattutto se si conoscono lei/lui e i suoi drammi. I combattenti delle Ypg potrebbero rifiutarsi di sparare ai jihadisti o ai soldati turchi in Siria, perché alcuni sono manovalanza obbligata a combattere. Anche sparare alle camice nere nel ’44 poteva significare usare violenza contro giovani rastrellati. Sarebbe stato meglio assassinare Hitler, eliminare il capitalismo, eccetera. Fatte queste premesse così doverose da apparire poco utili, però, è necessario agire nel contesto dato. (Non sto dicendo che lo spacciatore è la stessa cosa del crumiro aziendale, del miliziano o soldato islamista o di quello nazi-fascista. Ho fatto un paragone che serve a mettere una a fianco all’altra situazioni diverse tra loro, mettendo in luce un aspetto comune: la necessità di fronteggiare, in molte situazioni diverse, anche la manovalanza.)

Linee del colore

Gli “spintonati” nel video sono migranti. C’è chi ritiene che non si possa alzare una mano italiana, o bianca, contro un volto non italiano o non bianco. È, di nuovo, un’attitudine meno innocente di quanto sembri. Superare il razzismo, qualcuno potrebbe dire, consiste proprio nel trattare tutti alla pari, nel bene come nel male, senza tener conto di differenze di origine o di colore. Un principio che ha la sua verità. Si potrebbe anche osservare che trattare alla pari chi alla pari non è, a sua volta è ingiusto: il colonialismo e la schiavitù di cui molte popolazioni sono o sono state vittima crea vari tipi di disparità. Supporre l’eguaglianza senza crearne le condizioni è ipocrita. Anche questo è vero. Non si rende concreta la prima di queste verità senza la seconda. Se non che il discorso non finisce qui. Questo è soltanto l’inizio.

Superare una disparità storica che è stata costruita politicamente presuppone organizzazione politica. Ciò produce contrapposizioni che non seguono affatto linee di colore uniformi. Identificare la linea del nemico o dell’amico secondo quelle linee significherebbe accettare il carattere politico della sfida in modo del tutto fittizio, quindi a sua volta ipocrita. L’idea di trattare in modo diverso inoltre, cioè “meglio” in ogni circostanza, il non italiano, il non bianco o il colonizzato non sfugge a un paradosso decisivo e ulteriore, che non possiamo permetterci di eludere, né di subire. La disparità di trattamento sulle linee della lingua, della religione o del colore è coessenziale alla cultura razzista e coloniale. Quest’ultima non ha mai esitato a narrarsi come dispositivo di “miglioramento” e protezione del subordinato, delle sue condizioni e della sua persona.

La difesa del non italiano, del non cristiano, del non bianco e del colonizzato può celare inconfessabili pruriti di dominio, esercizio di una volontà di potenza che si esprime anche attraverso gerarchie etiche della presa in carico e della cura e nell’attivazione di dinamiche di protezione, costruzioni continue di “protettorati” paternalisti sul colonizzato che, dal canto suo, conosce bene quel prurito, poiché lo vive in prima persona, non ne è immune, lo agisce a sua volta da sempre, oltre a subirlo. Ci sono sempre una colonizzata e un colonizzato ulteriori. Come distinguere dunque l’assunzione politica della disparità nelle sue doppie varianti coloniali e anti-coloniali, a qualunque latitudine? L’una e l’altra intenzione possono essere tanto più presenti quanto meno sono rivendicate. Quindi?

Quindi ci addentriamo qui, e vale anche per le questioni di genere, nelle sabbie mobili dell’analisi, ed eventualmente della denuncia, di retrodiscorsi, di significati e atti come marchi di inclinazioni interiori, definizione nascoste; ci inoltriamo oltre il limite del segreto, guidate e guidati nel migliore dei casi da un imperativo di liberazione o resistenza che deve passare attraverso la decifrazione di miliardi di segni, espressione presunta di altrettante interiorità. Desiderio estremo della critica, quello di penetrare dentro l’essere umano, scavalcarne i rapporti esterni: terreno attorno al quale la critica accentua inevitabilmente le sue costitutive pretese di potere, un potere che spaventa e inquieta. Potere necessario, che può nondimeno divenire violenza psicofisica e, di nuovo, rivoluzione, quindi anche inquisizione e terrore. Può essere ingiusto, il potere della critica, mentre cerca la giustizia. Può far soffrire, quali che siano i suoi presupposti sociali, etici o di genere, e i suoi fini. Potere cui la critica ha buone ragioni di non voler rinunciare nella storia, quanto meno non una volta per tutte – visto il mondo che abbiamo ereditato.

Possiamo essere certi quindi che le ragazze e i ragazzi di Torino siano immuni dalla tentazione di associare a gesti e considerazioni un piacere razzista, coloniale o patriarcale? È una domanda che sarebbe ridondante per i gruppi di destra. Come dare una risposta e, soprattutto, secondo quali criteri? Ecco il problema: i criteri. Una certezza pregiudiziale, nell’uno e nell’altro senso, non sarebbe antidoto ma espressione di un potere cieco della critica, a quel punto soltanto presunta: si smentirebbe valutando per dogmi, poco importa quanto rivendicati come “non giudicanti”, “libertari” o di un altro genere ancora. La certezza pregiudiziale lascia cadere la domanda e l’interrogazione delle amiche e degli amici anche soltanto possibili, la possibilità di un orizzonte di discussione per un miglioramento comune, il tentativo di sviluppare attitudini non reattive e non rancorose alla critica e all’autocritica, concepibili come pratiche di trasformazione verso l’alto e non di persecuzione psicologica o competizione reciproca. Orizzonti rilevanti soltanto a una condizione: costruire discussioni diverse da quelle che ha previsto la polizia.